vi propongo un bel libro
«BESTIE, UOMINI, DEI» di Ferdinand A. Ossendowski
Il mistero del Re del Mondo
Edizioni Mediterranee
«BESTIE, UOMINI, DEI» è uno di quei piccoli capolavori dimenticati, spesso citati ma in realtà poco conosciuti, almeno all'epoca attuale caratterizzata com'è da una tendenza alla rimozione di tutto ciò che di politicamente scorretto c'è stato nel Novecento. Proprio in quanto tale, un libro dai molteplici aspetti e dai diversi livelli di lettura e che, per di più, ha provocato una specie di "effetto valanga" portando più o meno direttamente alla pubblicazione di altre importanti opere.
L'avventura di Ferdinand Antoni Ossendowski (nato a Witebsk il 27 maggio 1871 e morto a Zölwin, nei pressi di Varsavia, nel gennaio 1945) inizia a Krasnoiarsk, in Siberia, nel gennaio 1920 e, dopo una fuga di migliaia e migliaia di chilometri, si conclude a Pechino nel giugno del 1921. Ritornato nel suo paese d'origine, la Polonia, Ossendowski prese ad insegnare alla Scuola Commerciale di Varsavia e iniziò a riordinare i suoi ricordi: durante l'anno e mezzo di pericolose peregrinazioni in Siberia, Mongolia, Tibet, Manciuria e Transbaikalia, Ossendoski, come ricorda, aveva con sé un album su cui prendeva appunti e tracciava schizzi. Gli fu evidentemente utile per ricostruire con precisione e ricchezza di particolari le sue straordinarie vicissitudini che redasse tra la fine del 1921 e l'inizio del 1922, allorché faceva parte della delegazione polacca alla Conferenza sul disarmo a Washington: in quella sede evidentemente conobbe Lewis Stanton Palen, che lo sollecitò in tal senso, dato che, come ricorda quest'ultimo nella introduzione alla successiva edizione inglese dell'opera, il diretto interessato era restio per motivi personali e contingenti a mettere sulla carta i propri ricordi. Il libro uscì in edizione polacca nel 1922 con il titolo "Przez kraj ludzi, zwierzat i bogów", vale a dire, "Attraverso il paese delle bestie, degli uomini e degli dèi". Non si sa se scritto contemporaneamente in inglese con la collaborazione del citato Palen, oppure tradotto subito dopo, venne pubblicato con enorme successo all'inizio del 1923 dall'editore londinese Edward Arnold, intitolato più concisamente "Beasts, Men and Gods": ebbe quattro ristampe nei mesi di aprile, maggio, agosto e dicembre, altre nel maggio 1924, nel marzo 1925 e nel marzo 1926, quindi una "popular edition" nell'ottobre 1928 (ed è quella da noi utilizzata per la presente, nuova edizione italiana); la traduzione francese, "Bêtes, homme et dieux", uscì nel 1924 nella parigina Librairie Plon in almeno 42 mila copie (così è indicato nella copia in nostro possesso, da cui è stata tratta la traduzione dell'introduzione completa di Lewis Stanton Palen, non presente integralmente nella "popular edition" inglese, nonché la cartina delle peregrinazioni dell'autore); quindi fu la volta nel 1925 delle traduzioni italiana ("Bestie, uomini, dei", Morreale, Milano) e russa (la prima, secondo le ricerche di Aldo Ferrari, dovrebbe essere "Ljudi, zveri i bogi" a Riga).
Ossendowski scrisse in seguito molti altri resoconti di viaggi, in cui descrisse le sue esperienze in Estremo Oriente e in Africa Settentrionale, precedenti e seguenti la sua avventura del 1920-21, alcuni romanzi e una monumentale biografia di Lenin (che ebbe ben tre edizioni nel 1929 presso il Corbaccio: la firma di Ossendowski l'abbiamo tratta da lì). La fama e la curiosità internazionali, insieme a non poche amarezze, gli giunsero però indubbiamente da quel primo libro a causa delle polemiche sollevate un po' dappertutto circa la veridicità di alcuni punti: le notizie sulla parte del suo viaggio attraverso il Tibet (le contestazioni maggiori vennero dal grande esploratore svedese Sven Hedin), il ritratto che fece del barone Ungem e l'esposizione dei suoi progetti politici (da parte soprattutto dei familiari del generale, anche se recenti documenti pubblicati in Russia accreditano la ricostruzione di Ossendowski) e infine circa quanto egli racconta nelle due ultime parti dell'opera (l'esistenza, leggendaria, ma forse anche reale, del Re del Mondo).
Come che sia, "Bestie, uomini, dei" attirò proprio per questo l'attenzione di René Guénon, esoterista a quel tempo già noto ed autorevole, che ne parlò in un saggio (non sappiamo se originale o apparso già altrove) sul n. 12 del dicembre 1924 di "Atanòr" "rivista di studi iniziatici" diretta da Arturo Reghini, e quindi in un successivo breve libro, "Le Roi du Monde", edito da Bosse nel 1927 che ha avuto tre successive versioni italiane (Fidi, Milano, 1927; Atanòr, Roma, 1952; Adelphi, Milano, 1977) in cui si avallano nella sostanza le notizie dell'autore polacco. Il tema non poteva non attirare l'interesse anche di Julius Evola: il tema del "regno sotterraneo", cioè invisibile, in cui si ritirano gli ultimi iniziati all'avanzare dell'empietà sulla Terra, è presente sia in "Rivolta contro il mondo moderno" (1934), sia ne "Il mistero del Graal" (1937), mentre se ne tratta in maniera esplicita e comparativa nella prefazione di questo libro da noi curato nel 1973, che qui si ripropone e di cui è il caso di sottolineare l'equilibrio dell'impostazione, in questa nuova edizione, completamente ritradotta e rifatta, dopo che per anni la precedente è stata oggetto di vera e propria "pirateria" editoriale.
Libro importante e sfaccettato, "Bestie, uomini, dei" si può leggere, in una prima approssimazione, come un avvincente volume di viaggi e avventure attraverso migliaia di chilometri di pianure gelate, montagne ventose e innevate, laghi ghiacciati che sprofondano sotto il peso dei cavalli o che bruciano all'improvviso per la presenza di gas e petrolio, fiumi sotto la cui crosta trasparente si può osservare il fondo a dieci metri o vedere le onde provocate da vulcani sotterranei, valli mortali pervase di biossido di carbonio. Ossendowki possiede lo sguardo "scientifico" di chi è abituato a guardare oggettivamente: da qui le affascinanti descrizioni di vegetazione e animali: il pauroso incontro con l'orso dei boschi, la caccia per sopravvivere, l'assurda corsa delle gazzelle che si divertono a tagliare la strada ai viaggiatori, le curiose attività delle marmotte, la cattura dei cavalli selvatici, colori di alberi e piante; o quelle dei suoi amici o nemici incontrati nel lungo viaggio: ad esempio, il gigantesco agronomo (è alto due metri e più), ferocemente antibolscevico e capace di uccidere a mani nude ("Quando crebbi diventai un esperto agronomo per... strangolare la gente e sfondarne il cranio. La rivoluzione è una cosa veramente stupida"). Presenza pervadente e onnipresente nel libro è la Natura: selvaggia quant'altri mai, e i popoli che vivono a contatto con la sua durezza: verso di essi, minutamente descritti nel carattere e nei costumi, Ossendowski tributa l'ammirazione dell'occidentale civilizzato che, per portare a casa sana la pelle, deve diventare quasi come loro e adattarsi alle loro abitudini.
Ma "Bestie, uomini, dei" è anche un'opera "politica" e non solo di giornalistica testimonianza, un po' l'involontario opposto di John Reed: è una delle prime, infatti, a dare un agghiacciante resoconto della vocazione allo sterminio e al genocidio del comunismo fin dal suo primo sorgere e rivelarsi, e delle ultime lotte antibolsceviche condotte nel 1920-21 agli estremi confini dell'immenso Impero russo dalle Armate Bianche, poi abbandonate alloro destino - con un atteggiamento spesso adottato anche in seguito in casi consimili - dalle democrazie occidentali. Non solo quindi la descrizione delle battaglie, degli eccidi, delle fucilazioni fra mongoli, russi e cinesi, ma anche una documentazione diretta e di prima mano del "modus operandi" del comunismo leninista delle origini: il bolscevismo è visto come una "infezione" che dilaga per ogni dove, conquistando e pervertendo le coscienze, creando spie e traditori, delatori ed efferati assassini; gli agenti dei "Soyiet" e i commissari della "Ceka" si trovano nei posti più impensati e sperduti instaurando subito un regime di terrore, oppressione e morte, del quale si vantano e ne vanno impudentemente orgogliosi, uomini e donne che siano; il passaggio delle truppe rosse è contrassegnato da cumuli di cadaveri e di poveri contadini e di militari considerati "controrivoluzionari" che Ossendowski trova sgozzati e fatti a pezzi nei paesi, nelle foreste e nelle pianure: terribile resta l'immagine delle rive dello Ienissei con gli alberi ricoperti, come macabri festoni, dai cadaveri smembrati e dalle viscere delle centinaia di soldati bianchi massacrati e gettati nelle acque; o la descrizione delle rovine di chiesette siberiane e campanili in fiamme, "pietoso e tipico simbolo della Russia odierna", nota l'autore che viaggia con in tasca una capsula di cianuro caso mai fosse stato fatto prigioniero dai comunisti. Sin da allora c'era chi aveva capito l'essenza dell'ideologia che si stava imponendo nella Russia ex zarista:
"Soltanto allora", dice il tenente bianco Ivanoff, "mi sono reso conto davvero di quale depravazione il bolscevismo ha portato nel mondo, distruggendo fede, timor di Dio e rettitudine. Solo allora ho capito che tutta la gente onesta deve combattere implacabilmente contro il più feroce nemico dell'umanità, finché abbia forza e vita"; i bolscevichi sono, secondo un semplice soldato bianco, "servi di Satana", mentre per il ben più autorevole Buddha Vivente mongolo, i "servi del male rosso". Riassume questi stati d'animo il barone Ungern, quando dice ad Ossendowski: "La rivoluzione è una malattia infettiva e l'Europa, stipulando un trattato con Mosca, ha ingannato se stessa e anche le altre parti del mondo"; e poi: "Stiamo combattendo non un partito politico ma una vera setta di assassini della civiltà e della spiritualità contemporanee".
Naturalmente il libro di Ossendowski si può leggere anche come una specie di biografia degli ultimi momenti di Roman von Ungern-Sternberg, Ungern Khan, il nobile russo di origine baltico-tedesca nato in Austria il 29 dicembre 1885, considerato folle e sanguinario, la cui immagine più riuscita è certo quella che lo vede correre nella notte dentro l'imponente e rossa "Fiat" dai potenti fari accesi, con il volto tirato e i baffi alla mongola, così come lo conosciamo dalle poche foto di lui note (quella da noi riprodotta appare nella bella biografia romanzata di Jean Mabire, "Ungern, le dieu de la guerre", Art et Histoire d'Europe, Parigi, 1987) e dalla suggestiva avventura a fumetti "Corte sconta detta arcana" (Mondadori, Milano, 1980) di Hugo Pratt, che chiaramente attinge al libro di Ossendowski e alla prima edizione dell'opera di Mabire ("Ungern, le baron fou", Balland, Parigi, 1973). Roman Fedorovic von Ungern-Sternberg affascina perché, come ha scritto Aldo Ferrari, è "il ritratto dell'eroe 'perfetto', custode della Tradizione e nemico spietato della Sovversione". Il sogno panasiatico e controrivoluzionario del generale barone, nonostante critiche e riserve viene ormai considerato veritiero, nei termini narrati da Ossendowski, da altri memorialisti e soprattutto in base ai verbali dell'interrogatorio cui venne sottoposto, prima della fucilazione il 12, 17 o 21 settembre 1921 a Novonikolaievsk (oggi Novosibirsk), da parte dei bolscevichi, ai quali fu consegnato dal tradimento del colonnello Sepailoff, l'orribile "uomo dalla testa a forma di sella" che Ossendowski descrive con tanto orrore, e che sono stati pubblicati dallo storico russo L.A. Juzefovic nel suo "Samoderzec pusrtyni. Fenomen sub 'by barona R.F. Ungern-Sternberga" ("L'autocrate del deserto. Il fenomenale destino del barone R.F. Ungern-Sternberg") edito a Mosca nel 1993. Ma Ungern affascina anche per quella sua sovrumana ipersensibilità che gli fa riconoscere con un'occhiata i commissari politici sovietici in un gruppo di prigionieri, gli fa affrontare impavido una morte predetta e gli fa pronunciare parole profetiche: "Morirò d'una morte atroce, ma il mondo non ha mai conosciuto il terrore e il mare di sangue che vedrà adesso...". Considerando i circa cento milioni di morti accreditati dal "Libro nero del comunismo" ai seguaci di Lenin, si deve dire che il generale barone aveva purtroppo intuito giusto...
Infine, "Bestie, uomini, dei" è un libro dagli inquietanti risvolti religioso-esoterici. Non soltanto perché descrive le magie e le suggestioni ipnotiche di un personaggio misterioso, reale ma degno di un romanzo, come lo Tushegun Lama, "non un monaco ma un guerriero e un vendicatore che fa miracoli e profezie" e che dice all'attonito Ossendowski: "Voi europei non potete ammettere che noi nomadi ignoranti possediamo i poteri della scienza del mistero"; non soltanto perché descrive un buddhismo poco noto allora e oggi in Occidente, quello tibetano e mongolo, dei conventi, dei monaci e dei lama che vivono in zone impervie e inaccessibili, del Dio Vivente, degli intrighi politico-religiosi, delle visioni inesplicabili e delle meditazioni, ma soprattutto perché parla diffusamente e in forma "cronachistica" (e non con intenti occulti) della figura del Re del Mondo, per primo dopo "Mission de l'Inde", il libro postumo (1910) di Saint-Yves d'Alveidre che è abbastanza improbabile Ossendowski conoscesse. È possibile che lo scienziato-avventuriero polacco si sia inventato del tutto questa leggenda, questo "mistero dei misteri" come lo definisce? Non sembra sia possibile, se nulla ne sapeva all'origine. Può essere che abbia "abbellito" un fatto vero, così come altri eventi di cui è stato protagonista, ma certo non la sostanza. Il mito del Re del Mondo, come simbolo che si collega a quelli occidentali del "re non morto", dell'eroe dormiente in un luogo nascosto o sotterraneo e che un giorno si sveglierà per portare la salvezza nel momento dell'estremo pericolo, è noto, conosciuto e diffuso, come giustamente ricorda Julius Evola nella sua prefazione. Altro è immaginare una reale civiltà sotterranea vivente in caverne immense e circolante lungo gallerie che attraversano l'intero pianeta. Sta di fatto che l'opera di Ossendowski ha reso famoso e popolare anche in Occidente il mito del centro iniziatico di Agarthi o Argarttha, che, anche nella narrativa e nella cinematografia popolare, assumerà vari nomi e identità.
Libro, dunque, più che mai attuale, per questi diversi piani di lettura, oggi che stiamo perdendo il gusto dell'avventura e del viaggio vero e non virtuale, che ci stiamo dimenticando degli orrori e delle colpe delle ideologie del passato (di certe, ovviamente, perché di altre ci vengono rammentate "ad abundantiam"), che non conosciamo più "eroi" tragici e grandiosi, che stiamo annegando in un neospiritualismo da supermercato.
Giustamente ha scritto Leonardo Kociemski, traduttore e curatore dell'edizione italiana del "Lenin" ossendowskiano (Corbaccio, Milano, 1929):
"Quando un autore riesce ad avvincere la nostra attenzione e a condurci attraverso la via da lui indicata in modo tale da lasciare un senso di sincero rimpianto, dopo che l'occhio si stacca dall'ultima riga dell'ultima pagina del suo libro, da svegliare in noi un senso di nostalgia; quando la realtà ci costringe a passare al grigiore quotidiano della nostra vita, dalla favolosa realtà da lui svelata (...) che valgono le critiche dotte e documentate dei critici di professione? Ciascuno di noi riproduce nello specchio dell'anima una realtà diversa e solo ciò che non s'intinge nella spiritualità individuale può essere vivisezionato dal freddo bisturi della scienza, per non ripetere con Massimo Gorkij, che il difficile sta nel saper scorgere ciò che la realtà ha di favoloso."
una affascinante e sanguinaria figura del romanzo è Roman von Ungern-Sternberg da cui hugo pratt ha tratto un famoso fumetto di corto maltese
Roman (o Robert) Nicolaus von Ungern-Sternberg
Il barone Roman benché nato von Ungern-Sternberg, in età adulta egli preferì usare il nome di Ungern von Sternberg), noto anche come il Barone Nero e Ungern Khan, (Graz, 22 gennaio 1886 – Novonikolajevsk, 15 settembre 1921), è stato un militare russo di origine tedesca. Fu dapprima luogotenente-generale russo e uno dei capi delle truppe bianche durante la guerra civile russa e successivamente un signore della guerra a sé stante che tentò di creare una monarchia indipendente in Mongolia e nei territori ad est del lago Baikal.
Ungern von Sternberg nacque a Graz, in Austria, da una famiglia di tedeschi baltici. Fu cresciuto a Tallinn (Reval in tedesco), capitale dell'Estonia allora parte dell'impero zarista, dal patrigno Oscar von Hoyningen-Huene. Dopo aver frequentato la scuola militare Pavlovsk a San Pietroburgo, fu di stanza in Siberia, dove rimase affascinato dallo stile di vita nomade delle tribù dei mongoli e dei buriati. Durante la Prima guerra mondiale Ungern von Sternberg combatté nella Galizia polacca, dove guadagnò la fama di ufficiale coraggioso ma, al tempo stesso, sconsiderato e mentalmente instabile. Il generale Vrangel' scrisse infatti nelle sue memorie di temere la promozione di Ungern von Sternberg. Dopo la rivoluzione di febbraio del 1917 venne inviato dal governo provvisorio russo nell'estremo oriente russo, sotto il comando di Grigorij Semënov.
Dopo la rivoluzione d'ottobre ad opera dei bolscevichi, Semenov e Ungern von Sternberg decisero di resistere all'avanzata delle truppe rosse. Ungern von Sternberg nei mesi successivi si distinse per le crudeltà perpetrate contro la popolazione locale e i suoi sottufficiali, guadagnandosi l'epiteto di "Barone sanguinario". A causa del suo comportamento eccentrico, egli divenne noto anche come il "Barone pazzo". Sebbene sia Semenov che Ungern von Sternberg fossero anti-bolscevichi, essi non si dichiararono mai parte delle forze bianche e non riconobbero mai l'autorità dell'ammiraglio Aleksandr Vasilevič Kolčak, comandante delle truppe bianche. Al contrario, i due vennero sostenuti dai giapponesi, che li rifornivano di armi e denaro. Era infatti nelle intenzioni del Giappone creare uno stato fantoccio guidato da Semenov nell'estremo oriente russo, lo Stato cosacco di Transbaikalia. Proprio per questa ragione i comandanti delle truppe bianche, fautori di una "Russia forte ed indivisibile", consideravano Semenov un traditore.
L'esercito di Ungern von Sternberg comprendeva truppe russe, cosacchi e membri delle tribù buriate che attaccavano senza distinguo i treni carichi di rifornimenti sia per le forze bianche che per quelle rosse, in appoggio anche con la rivolta jakuta.
Siccome l'ammiraglio Kolčak aveva la base delle sue operazioni nella Siberia centrale e Semenov e Ungern von Stenberg operavano all'est di Kolčak (nell'area di Transbaikal), i loro attacchi sui treni di approvvigionamento viaggianti verso ovest da Vladivostok sulla ferrovia transiberiana ostacolarono molto le operazioni di Kolčak negli Urali.
Nel 1920, Ungern von Sternberg si separò da Semenov e divenne a sua volta un signore della guerra. Convinto che la monarchia fosse il solo sistema politico in grado di salvare il mondo occidentale dalla sua corruzione, cominciò a pensare di poter restaurare la dinastia Qing sul trono cinese e porre tutto l'Estremo oriente sotto il controllo di quest'ultima. Antisemita convinto, pubblicò nel 1918 un Manifesto, in cui proponeva di sterminare tutti gli ebrei e i commissari della Russia e di insediare sul trono russo il granduca Michele, fratello del defunto zar Nicola II.
Per le distruzioni causate dalla Prima guerra mondiale, molti ebrei provenendo dal loro posto di stabilimento (dove erano costretti a vivere prima della guerra) andarono verso est, scappando così dai combattimenti. Comunque, le truppe di Ungern von Stenberg li massacrarono ogni volta che li incontrarono, spesso con metodi estremamente crudeli, come scorticare vive le loro vittime.
Nel 1919, la Mongolia venne occupata dalle forze repubblicane cinesi. Nel 1921 le truppe di Ungern von Sternberg entrarono in Mongolia su richiesta del Khan Bogd, leader religioso e politico del paese. Nel gennaio di quell'anno le truppe di Ungern von Sternberg sferrarono diversi attacchi sulla capitale Urga (oggi Ulan Bator) ma vennero più volte respinti riportando ingenti perdite. Fu così che Ungern von Sternberg ordinò alle sue truppe di dare fuoco ai campi sulle colline intorno ad Urga, in modo tale che i difensori della città pensassero di essere circondati da forze in superiorità schiacciante. Ungern von Sternberg riuscì in tal modo, nel mese di febbraio, a prendere la città senza dover sferrare un nuovo attacco.
Il 13 marzo la Mongolia venne proclamata una monarchia indipendente e Ungern von Sternberg divenne un dittatore. Tendente al misticismo ed affascinato dalla credenze e religioni dell'Estremo Oriente (ad esempio il buddhismo) e che credeva di essere la reincarnazione di Genghis Khan, Ungern von Sternberg, nella sua filosofia, mischiò eccezionalmente il nazionalismo russo con le credenze mongole e cinesi.
Ungern Von Stenberg prima dell'esecuzione
Un contingente bolscevico inviato in soccorso del leader filo-sovietico Sukhe-Bator decretò la sconfitta delle forze di Ungern von Sternberg in Mongolia. Nel mese di maggio, egli tentò di invadere il territorio russo presso Troitskosavsk (oggi Kyakhta, nella Repubblica dei Buriati). Dopo alcuni primi successi riportati tra maggio e giugno, Ungern von Sternberg venne definitivamente sconfitto tra luglio e agosto. Catturato dai suoi stessi soldati, venne consegnato all'Armata Rossa il 21 agosto 1921.
Dopo un processo sommario ad opera di un tribunale militare, Ungern von Sternberg venne fucilato a Novonikolayevsk (oggi Novosibirsk). Secondo la tradizione, Ungern von Sternberg ingoiò la sua medaglia raffigurante la Croce di San Giorgio per impedire che essa cadesse nelle mani dei bolscevichi.
Ungern von Sternberg venne dichiarato la reincarnazione del Mahakala da parte del XIII Dalai Lama Thubten Gyatso.