I Bulgari dimenticati
© 2010 di Aldo C. Marturano
Il problema delle origini dei primi stati russi, le manipolazioni e le leggende.
Un nuovo punto di vista.
Sin dal primo Medioevo la steppa e i suoi popoli ebbero un ruolo sconvolgente con i loro transiti diretti in Europa sia nella trasformazione e nella divisione dell’Impero Romano sia nella costituzione dei primi stati occidentali influendo, molto positivamente a quanto pare, sulle comunicazioni dell’Occidente con l’Asia interna e col nordest d’Europa. Sebbene da quel momento non soltanto aumentò la reciproca conoscenza fra genti diverse, ma anche la possibilità di sfruttare una quantità di risorse rimaste finora accessibili soltanto parzialmente e di cui l’Occidente aveva fortissimo bisogno (comprese le innovazioni tecniche della steppa come la staffa, i cavalli e gli arcieri montati); occorre dire che le penetrazioni nomadiche non erano un evento né improvviso né inaspettato bensì da secoli erano il continuo e regolare fluire di varia umanità.
In particolare dobbiamo riconoscere alla Pianura Russa d’essere stata fra il primo millennio a.C. e l’inizio della nostra era la zona geografica, commerciale e culturale più disposta non solo al passaggio e alla logistica, ma anche e soprattutto, per quel che ci riguarda, per aver intimamente inciso con i suoi diversi aspetti fisici sulle vicende che si svolsero a partire dal IX sec. d.C., da quando cioè comincia la storia “russa” che in Occidente corrisponde al Medioevo. Anzi, anticipiamo che dal punto di vista “orientale” può dirsi che tale storia si apra con la fondazione di Bolgar Vecchia (~VIII sec. d.C.) e si chiuda con la caduta di Bolgar Nuova (l’odierna Kazan’) nel sec. XVI d.C. Sono limiti cronologici oltremodo interessanti per chi si occupa di “Medioevo Russo” giacché Bolgar e Kazan’ sono città del medio Volga strettamente legate alla storia dei loro fondatori bulgari e alle loro relazioni col resto della Pianura Russa. Bolgar Vecchia ha persino l’onore di essere stata definita dal francescano Guglielmo di Rubruck, inviato del papa in Mongolia nel XIII sec., l’ultima città vera e propria prima d’entrare nella selvaggia Asia. Non solo! Sorgeva dove si trovava il cuore dell’Impero Romano Moscovita come lo immaginò nel XVI sec. Giovanni IV di Mosca (Ivan il Terribile) guardando alla Siberia… da Kazan’ ormai ai suoi piedi. Per lui e per i suoi nuovi “sudditi russi” la regione al confine fra la steppa e la foresta era stata (allora e forse ancora oggi) una specie di santa e maledetta cesura culturale con i “nomadi” perché vi si percepiva quel vago senso di passaggio dalla civiltà agricola “slava superiore” allo spazio selvaggio e indistinto “turco incolto” (Dikoje Polje) e andava eliminata! E che dire – e non è un punto trascurabile – che nello stesso luogo non c’erano soltanto i “turchi”, ma pure le etnie ugro-finniche con antiche commistioni fisiche e culturali di Baltici e Alani, oltre a qualche postazione slava e germanico-svedese come Rostov o Rjazan’?
Sulla carta geografica della Federazione Russa odierna una Repubblica di Bulgaria non c’è e non c’è mai stata, neppure nell’ex URSS malgrado i tentativi dei partiti “bulgaristi” di Kazan’ e di Cebok-sary per ripristinare il celebre toponimo. Bolgar e Kazan’ invece ci sono benché incluse nel Tatarstan ossia nella Terra dei Tatari… E che c’entrano i Tatari?
Nelle Cronache Russe del XIV sec. l’etnonimo “tataro” (attribuito probabilmente per la prima volta dai cinesi alle armate genghiscanidi) si fissò sugli abitanti di Bolgar subito dopo l’arrivo dei Mongoli nel 1236 diretti alla conquista del grande centro commerciale del nord Grande Novgorod. La città diventò il loro primo avamposto, pur se il ruolo militare (lo denunciano le numerose rivolte contro l’invasore) non fu ben accetto all’élite bulgara che perseguiva da sempre l’opportunistica pace per commerciare sul Volga in tranquillità e in indipendenza. Nei tempi passati quel fiume era una via di traffico molto frequentata e per i popoli rivieraschi ugro-finnici sorgeva nella catena degli Urali col nome di Kama. Per chi veniva dal nordovest la corrente maggiore al contrario nasceva nei dintorni del Valdai e oggi, giacché prevale quest’ultima versione, è classificato come il più grande fiume d’Europa, benché il nome Volga datogli allora è comunque di etimologia ugro-finnica, a prova di un più antico insediamento nel Grande Nord di queste genti. Ad esempio, nella lingua degli Udmurti, altra minoranza etnica dello stesso ceppo, il Kama ha lo stesso nome ancor oggi, mentre il Volga è il Bydz’ym Kam o Grande Kama!
Rappresentare un centro-mercato sulle confluenze delle correnti e dominare a valle le vie d’acqua, costituiva la chiave di volta economica di ogni città-stato medievale! Ben lo sapevano i Bulgari per le loro relazioni con il potente Impero Cazaro che li dominò fino al X sec. e altrettanto bene lo capirono i Mongoli giungendo qui due secoli dopo.
Ma allora perché Mosca già dal XIV sec. con la sua sicumera di sedicente riunificatrice della scomparsa Rus’ di Kiev s’impegnò tanto (senza riuscirci) per la “russificazione” dei Bulgari e di tutti i loro vicini, addirittura usando le lapidi dei loro cimiteri per pavimentare strade e chiese ortodosse? Che cosa intendeva obliterare della loro storia e della loro cultura? Forse temeva di confessare che doveva gran parte della sua esistenza proprio ai Bulgari e agli altri popoli del Volga che ancora costituivano la potente Orda d’Oro? O che non poteva ammettere che Bolgar fosse più antica di Grande Novgorod e che ne avesse condizionato la vita e la storia? Nomadi e sedentari, tatari e mongoli, bulgari, cazari, russi e ugrofinnici erano davvero etnie con abitudini e costumi talmente diversi da impedire una coabitazione “pacifica” sotto un governo autoritario? Dai documenti non risulta che, ad esempio, gli stati sorti già nel IX-X sec. nella Pianura Russa fossero ingovernabili a causa della loro multietnicità. Basterebbe ricordare l’Impero Cazaro, vero pot-pourri di popoli e culture diverse, durato dal VI sec.d.C. fino al suo primo crollo sotto i colpi di Svjatoslav di Kiev nel 965! Inoltre, se queste genti “non russe” sono ancora più o meno riconoscibili oggi nella stessa sede occupata secoli fa a nord e a sudest di Mosca, vuol dire che il loro contributo alla cultura delle Terre Russe non è stato cancellato del tutto. Se sono riuscite a difendere la propria individualità linguistica e culturale contro il logorio dei secoli e delle dinastie imperiali russe, vuol dire che vanno meglio conosciute e raccontate!
Insomma la questione è che storici russi e ucraini spesso negano lo straordinario ruolo innovativo della steppa sulla civiltà agricola e sedentaria! Non noi però che, ampliando la portata della questione, ci chiediamo: E’ possibile che si parli genericamente di acculturazione dei nomadi nelle società sedentarie e mai del contrario? E che cosa distingue il nomade dal sedentario? E il nomadismo è una categoria culturale o solo ostracismo politico? E la steppa, luogo di intensa vita umana, non ha giocato una parte preponderante per aver favorito l’incontro e la commistione dei popoli? Le risposte sono naturalmente già di fronte a noi nella realtà multietnica “russa” presente, ma non si può sapere come s’arrivò a questa realtà, se non si ha un’idea di che cosa significhino campi coltivati, foresta, steppa o paludi o senza recarvisi a visitarli e per capirli dal punto di vista umano. Soltanto dopo è più facile convincersi che alla fin fine la steppa non è un posto maledetto o abbandonato, ma abitato da uomini e da donne, da vecchi e da bimbi in comunità gelose delle proprie tradizioni e in movimento su un territorio di per sé aperto e libero.
E’ vero che nella storia russa si legge di città fortificate nella foresta i cui mercanti praticavano il commercio con la steppa, sebbene temessero di attraversarla. E’ vero che si viaggiava (in gruppo e armati!) per migliaia di chilometri lungo i fiumi superando pericolose cataratte, con acque che gelavano d’inverno e sulla cui superficie ghiacciata si poteva andare a piedi o a cavallo, pur di raggiungere la steppa che forniva molti prodotti importanti per l’economia del tempo! Si percorrevano a volte lunghi tratti di cammino senza vedere una città, ma già indovinando la presenza dei nomadi non appena si vedevano in lontananza le loro tende rotonde o si sentiva il nitrire dei loro famosi cavalli… Certo! Era difficile far lega permanente con loro, visto che i contatti si prendevano ogni volta con capi sempre diversi, ma non è ciò il centro della questione “steppa” e “nomadi”, colorata tanto negativamente nelle cronache di penna cristiana. Attenzione! La descrizione sommaria appena data qui sopra del mercante è tratta dai documenti, ma calza altrettanto bene non soltanto per i russi bensì per i bulgari della stessa epoca…
Comunque sia, ecco le parole di uno storico specialista della steppa, I. Lebedynsky: “All’inizio del primo millennio a.C. l’intera immensa steppa eurasiatica fra il delta del Danubio e la Cina settentrionale conosce una rivoluzione culturale profonda: L’apparizione del nomadismo pastorale, sotto la forma che doveva diventare classica in quelle regioni e costituire il modo di vivere dominante fino all’epoca moderna. Questo cambiamento è opera di popolazioni precedentemente sedentarie che, dopo aver accordato un posto crescente nella loro economia all’allevamento, passano al nomadismo per meglio sfruttare lo spazio steppico.” Continua ancora il nostro autore: “Il nomadismo nelle steppe eurasiatiche non è una sopravvivenza arcaica o un ritardo evolutivo, ma un adattamento all’ambiente o, più esattamente, ad un certo modo di sfruttare quell’ambiente.” Sono parole lapidarie e assolutamente condivisibili e non è quindi vero che i nomadi fossero selvaggi e intrattabili. Tale fama è piuttosto frutto d’una propaganda inscenata nei tempi andati per metterli in cattiva luce e senza distinguere il “pastore” dal “nomade”. Ma allora chi ebbe interesse a spargere le brutte notizie?
A questo punto gl’interrogativi si fanno sempre più numerosi, intriganti e complicati e occorre delimitare sul piano geografico il teatro storico al quale ci riferiamo. Ci spostiamo allora dal Tatarstan più a sud verso il Caspio, il Caucaso e il Mar Nero. Quel che più conta è che, dal punto di vista antropico, l’area è notevole non tanto per la sua estensione, quanto per la sua intricatissima stratificazione etnica. Ciò pone un problema in più alla ricerca giacché col passar dei secoli e con l’avvicendarsi dei diversi popoli sullo stesso territorio è difficile stabilire quale etnia precedesse e quale altra seguisse onde dedurne le successive influenze. Molti dei popoli turchi e iranici che oggi sono qui non “si trovano in patria” da tantissimo tempo, ma sono venuti da lontano da poco più (o meno) di un millennio e la steppa è uno dei loro luoghi d’origine ed è pertanto conveniente distinguere una parte asiatica da una europea di quella che il compianto L.N. Gumiljov chiamava la Steppa Grande.
Questa ripartizione la fa in primo luogo il clima e la storia non può prescindere da quel fattore. Già la sussistenza di una comunità basata sull’agricoltura o sull’allevamento del bestiame o su altri sistemi di raccolta e produzione del cibo è strettamente dipendente dall’alternarsi delle stagioni, dalle terre coltivabili o da pascolo, dall’insolazione, dalle piogge, dalle temperature circadiane etc. e gli uomini devono adattarsi alle vicissitudini climatiche locali in ogni momento, pena la distruzione o il disfacimento delle loro società. I fattori climatici perciò (tutti, benché qualcuno sia di minor importanza storica) condizionano pesantemente l’esistenza degli esseri che vivono in simbiosi o da prede libere o da bestie d’allevamento giacché l’ambiente nella sua interezza può mettere a disposizione di tutti oppure no le risorse di base… proprio a seconda di come è andata l’annata climatica! Non solo! Nella steppa si sente il ruolo vitale, nel vero senso della parola, del clima molto di più che in altre ecologie e ogni suo variare sconvolge gli eventi umani perché detta le condizioni per favorire o scoraggiare gl’insediamenti su una vastissima area. Qui, meglio che in altri luoghi del mondo, non si può far molto sull’ambiente per mantenerlo costante e legato ai propri bisogni e l’uomo scade, persino!, in lotte fratricide per sopravvivere. Questa storia va dunque raccontata, benché a volte gli eventi non sono così evidenti o non sono neppure considerati degni di qualche riga scritta nelle cronache contemporanee ed è un guaio in più per chi cerca documenti.
Sulla relazione clima-uomo-fauna-flora-steppa nel 1963 una spedizione dell’Università di San Pietroburgo (allora Leningrado), condotta dal detto L. N. Gumiljov lungo le rive del Volga e la costa settentrionale del Caspio, mise bene in evidenza come gli aspetti climatici dipendessero dalle forze cicloniche che si generavano a una decina di migliaia di km da qui e come esse avessero influito e lasciato tracce delle loro interazioni nella steppa russa e nei suoi abitanti. La spedizione multidisciplinare si proponeva di provare, e provò fra l’altro, che una civiltà intera (l’Impero Cazaro) aveva dovuto cedere sotto i colpi di un’aberrazione climatica non più favorevole al suo sviluppo ulteriore.
Noi ci rifaremo a questa esperienza (i particolari tecnici si traggano direttamente dalla relazione scientifica!) perché la storia dei Bulgari del Volga è legata proprio ai Cazari e, comunque sia, ritorneremo su questi punti…
Per il momento la steppa di cui vogliamo parlare si trova fra il 52.mo e il 48.mo parallelo Nord e si estende dal 60.mo fino al 15.mo meridiano Est cioè dagli Urali al Danubio fino in Ungheria dove è detta puszta (leggi pùsta!). Uno spazio enorme! Su una così grande estensione aspettarsi un unico clima dominante è inutile ed è più logico notare al contrario una serie di microclimi regionali abbastanza distinti.
Le situazioni climatiche, ripetiamolo, non permangono immutate nel tempo, ma seguono la storia geofisica locale per cui, a seconda dei periodi considerati, gli uomini, come gli altri esseri viventi, si trovano di volta in volta davanti a delle aree da sfruttare con risorse mutate e da difendere contro nuovi e inaspettati commensali. Le piante che hanno colonizzato la steppa in particolare mostrano il loro evidente adattamento ai fattori ambientali esterni e alla composizione (edafica) del suolo nei colori e nelle forme e sono la prima impressione di grande meraviglia per chi viene fuori dal più maestoso e diverso ambiente della foresta e del fitto bosco. L’osservatore s’imbatte in una vegetazione la cui altezza non va oltre quella del basso arbusto, verdissima nella buona stagione come un vero “mare d’erba” ondeggiante, ma che poi secca con i primi freddi passando al marrone scuro…
La nostra descrizione sarà obbligatoriamente schematica né è riconoscibile con facilità nel paesaggio attuale, sebbene dagli studi dei climatologhi russi sovietici e postsovietici, americani etc. sia possibile immaginare il clima dei secoli passati, sempre tentando di evitare troppe semplificazioni, come non molto cambiato in generale e che la steppa di oggi – salvo le intervenute variazioni – può essere considerata abbastanza simile a quella tipica delle cronache medievali.
Nel linguaggio comune si distingue una steppa erbosa di solito con erbacee che crescono in piano fittamente l’una vicina all’altra, una steppa arida anche questa giacente in piano, ma con specie vegetali diverse e adattate alla penuria d’acqua e dunque molto più rade, e infine c’è una steppa di montagna sui declivi delle alture che ha un manto vegetale pure distinto dai precedenti.
Portiamoci allora sulla parte meridionale del Bassopiano Sarmatico (tradizionalmente si chiamano così le antiche Terre Russe o Pianura Russa) dove la Steppa Ucraina era la più frequentata e costituiva (ed è ancora così!) un fattore economico importante per i popoli che l’attraversavano. E’ un’area variopinta nei suoi paesaggi che inizia in pratica dagli Urali meridionali, segue la riva destra del fiume Ural (anticamente chiamato Jàik), s’interrompe nella Depressione Caspica e nell’Anticaucaso e ingloba i bacini inferiori del Volga e del Don, quelli del Terek e del Kuban. Dalle rive del Mare d’Azov e del Mar Nero (Ponto o Ponto Eussino per i greci) si estende a sud di città storicamente importanti come Kiev o Cernìgov. Molti sono i fiumi che la tagliano nel senso nord-sud e partendo dal Volga possiamo enumerare i maggiori cominciando dal Don e continuando col Dnepr, il Bug, il Dnestr, il Prut (che confluisce nel Danubio).
L’inverno termina ad aprile-maggio ed è solitamente molto freddo con punte fino a –5 °C mentre, al contrario, l’estate è caldissima con punte fino a +30 °C. I problemi si creano però, a parte la stagione, quando d’estate ci sono improvvisi e inaspettati cali di temperatura con escursioni di ben 20-25 gradi. Le piogge invece cadono nei primi mesi dell’estate per poi cessare del tutto prima della fine della stagione e così si finisce nella siccità e la vegetazione, per mancanza di umidità, verso la fine di settembre secca inesorabilmente e, se qualche pioggia c’è, sono acquazzoni improvvisi la cui umidità evapora rapidamente dalla superficie fogliare senza riuscire a impregnare il suolo (l’esigua isoieta media annuale è di 500 mm!). Alfine arriva l’inverno e l’intera steppa va in quiescenza.
La steppa erbosa ucraina col suo spazio coperto da un fitto tappeto verde, senza alberi o alti cespugli è ancora godibile in Crimea e, malgrado la bassa vegetazione, è uno spartivento fra il nord e il sud della Pianura Russa per la sua posizione rispetto alle basse correnti d’aria calda che vengono dalle consistenti distese d’acqua del Mar Nero, Mar Caspio e Mare d’Azov e genera delle zone semidesertiche intermedie prima della foresta settentrionale.
Ad ovest di Kiev s’incontrano i Carpazi e i Balcani, massicci montagnosi che dividono i bacini misti del Dnepr, Dnestr e Danubio da una parte e della Vistola, dell’Elba e dell’Oder dall’altro e, allungandosi praticamente fino al Mar Nero, rappresentano un collo di bottiglia per tutte le migrazioni est-ovest di nomadi e sedentari, comprese quelle più famose chiamate (da noi) Invasioni Barbariche. Al confine infatti fra Ungheria e Ucraina odierne ci sono passi montagnosi dove è possibile incontrare resti di genti che non passarono mai al di là e che oggi vivono lungo i declivi conservando lingue (molte di ceppo turco) e costumi diversi.
Lasciando quei monti dietro di noi e proseguendo verso Nord, i confini più naturali scompaiono e passiamo nella cosiddetta Mitteleuropa dove è fissato un confine storico-politico sul fiume Bug, affluente di destra della Vistola (da non confondere con l’altro Bug che scorre invece verso il Mar Nero, come detto prima), fra Slavi Occidentali e Slavi Orientali, fra Polacchi e Lituani… artificiosamente fino alle rive del Baltico.
Dal detto Bug attraverso la foresta settentrionale si passa fra numerose polle gorgoglianti dal suolo che danno origine a tanti fiumi e correnti che col loro corso lento – siamo in pianura – spesso indugiano in piccoli e numerosi laghi, paludi e marcite o confluiscono gli uni negli altri. E’ notevole l’area del bacino del Pripjat (affluente di destra del Dnepr) a nordovest di Kiev (quasi al centro della regione che stiamo descrivendo) che in pratica trasforma la Bielorussia in una delle più grandi paludi del mondo (ca. 110 mila kmq)! Più a nord di qui siamo ormai nella fitta foresta perlopiù a latifoglie (per l’85 % conservatasi fino ad oggi e chiamata a volte taigà) che copriva nel passato tutta la parte centrale e settentrionale delle Terre Russe.
La selva s’estende fin sotto gli Urali mutandosi in tundra man mano che si va verso l’estremo Nord ossia sulle rive del Mar Glaciale Artico, mare poco conosciuto nel passato, seppur chiamato Mare dell’Oscurità (Morje Mraka) a causa della sua posizione oltre il Circolo Polare con sei mesi di notte artica o, più pittorescamente, Dysc’ajusc’ee Morje o Mare che respira per le sue spettacolari maree!
Anzi! Data l’importanza economica della foresta nel Medioevo, se vogliamo fare un confronto con i giacimenti di materie prime d’oggi, possiamo dire che questa parte della selva boreale europea costituiva il giacimento maggiore di tutto quanto occorreva alla cultura materiale medievale per svilupparsi come la conosciamo oggi, per tutto il continente.
Per ritornare da qui verso Sud abbiamo un’ampia scelta di vie d’acqua, badando di lasciare in vista ad Est i Monti Urali che si trovano sui bordi più esterni della Pianura Russa. Essi sono la continuazione geologica sul continente dell’arcipelago di Terranova (Nòvaja Zemljà) distesa di traverso nel Mar Glaciale Artico e sfilano in direzione nord-sud più o meno lungo il 60.mo meridiano Est di Greenwich. Gli Urali non sono molto alti (hanno picchi non oltre i 1800 m e in passato erano chiamati dai russi I Sassi o Kamen’), ma costituiscono comunque una barriera per l’aria fredda del Polo Nord che soffia sui venti umidi dall’Anticiclone delle Azzorre raffreddandoli e lasciando cadere, così, abbondante neve sulla pianura. I pochi rilievi esistenti in Bielorussia o presso Grande Novgorod o Mosca sono colline di altezza irrilevante (sotto i 400 m) e non pongono ostacoli al gelido soffio che s’incanala in superficie facendo “il bello e il cattivo tempo” sul territorio! A qualche migliaio di km dal Caspio gli Urali s’interrompono, lasciando che il corso dell’Ural (le cui sorgenti si trovano proprio nella parte meridionale della catena) completi la linea di confine ideale orientale della Pianura Russa. Ed ecco il Volga, un fiume enorme che percorre migliaia di km nel suo letto che varia tuttora di alveo man mano che si avvicina al suo delta sul litorale caspico.
Il fiume scorre abbastanza lontano dall’attuale Mosca, serpeggia nell’area della regione dei Bulgari dove ci sono le cosiddette fertili Terre Nere o Cernozjòm e si lascia a monte la foresta attraversando la cosiddetta steppa boscosa o lesostep’. Da queste parti per un buon tratto lungo la riva destra il suo alveo è contenuto da un basso massiccio poco arenoso (Jar) prima di dividersi in più correnti parallele (la maggiore si chiama Aktuba) e cominciare “a scivolare” verso il Caspio dove si abbasserà fino ad una quota addirittura molto al di sotto del livello del mare. Comincia la cosiddetta Depressione Caspica in cui il tratto meridionale del fiume a causa della maggior pendenza scorre quasi tumultuoso e si fraziona in più correnti parallele che formano un amplissimo delta nel più grande lago del mondo! Il Caspio è alimentato giusto dal Volga e dall’Ural oltre che da correnti d’acqua minori e per questo diventa un problema per l’uomo e per le sue attività in quanto la portata dei due fiumi varia e causa le cosiddette trasgressioni e regressioni cioè delle oscillazioni del livello delle sue acque (a volte con durata decennale o secolare) paragonabili alle sesse dei laghi alpini dovute al vento. Le acque decrescendo lentamente lasciano libera la terra fertile per il limo apportato dal fiume o, crescendo, sommergono tutto. Nel passato, se da un lato ciò permise di coltivare il riso in piano o la vite lungo i declivi del limitrofo Caucaso, dall’altro, se l’acqua saliva, costrinse la gente a trasmigrare verso Nord abbandonando dighe, moli e intere città e facendo crollare la sussistenza alimentare locale.
Il massiccio del Caucaso si trova sul lato occidentale del grande lago e si allunga (più o meno) in diagonale fra i paralleli 40.mo e 45.mo Nord fra Baku, da un lato, e Kerc’ (presso l’antica Samkerc’ o Tmutarakan) dall’altro ossia fra le rive occidentali del Mar Caspio e quelle orientali del Mar Nero e del Mare d’Azov. Sono montagne altissime (picchi oltre i 4000 m con le cime più alte d’Europa) e costituiscono una barriera per l’aria fredda che qui è addirittura costretta a turbinare lungo la parete della montagna provocando inverni freddissimi sul lato Nord.
Se il Caspio è preminente nel sistema idrografico, da un lato, riuscendo a regolare il clima di questa parte di steppa segnandolo tipicamente, a sinistra del Volga/Ural il regime climatico è altro e distingue abbastanza nettamente la steppa asiatica al di là degli Urali. In gran parte di quest’ultima è possibile trovare erba fresca per gli animali tutto l’anno pur con brevi transumanze.
La steppa asiatica inoltre, al di là della climatologia, ha un aspetto fissatosi nell’immaginazione collettiva europea ormai da millenni. La s’immagina una distesa pianeggiante che consente al cavaliere aggressivo e attrezzato di coprire grandi spazi in groppa al meraviglioso cavallo in tempi relativamente brevi. Qui d’altronde le distanze si misurano con il tempo per percorrerle a cavallo (i persiani parlavano di parasanghe)! La letteratura occidentale è piena di viaggi avventurosi o di personaggi famosi vaganti nella steppa e descriveva romanticamente vie e camminamenti che si snodavano in paesaggi deserti e infiniti dove carovane di uomini e di bestie si muovevano verso lontanissime e misteriose destinazioni…
Ad esempio, nella Steppa Ucraina che interessa di più la nostra storia, il romantico Pusc’kin descriveva l’inverno rigido del suo tempo che costringeva i pastori a spartizioni di territorio dolorose o a migrazioni difficilissime e, se si doveva svernare e si voleva sopravvivere, gli unici ripari dal freddo erano ancora le tende di feltro riscaldate con sterco secco o la lunga burka per chi restava all’alpeggio.
Certo, questo è letteratura e non storia, ma sono anche punti di vista da sottolineare perché servono per apprezzare meglio certe istituzioni tenute in gran rispetto dai mercanti e dai nomadi quando nella steppa – dal Pacifico al Mar Nero – si instaurò la pax mongolica e l’efficace e rassicurante posta militare mongola (Yam).
Mettiamo da parte la steppa e le sue vicissitudini per un momento, sebbene non la lasceremo mai visto che è uno scenario costante degli eventi che raccontiamo, e volgiamoci alla questione di chi arrivò sul Medio Volga per primo e chi invece dopo e ricostruiremo così un’epopea dei Bulgari e le molte genti che con loro furono a contatto.
Cominciamo con una carta geografica moderna dove vediamo subito la Repubblica di Bulgaria nel cuore della Penisola Balcanica! Se però si riuscisse a trovarne un’altra modernamente disegnata, ma basata sulla buona descrizione di qualche dotto musulmano medievale o dedotta addirittura dagli scritti di Marco Polo, ecco che, sovrapponendola alla prima, a 3000 e più km di distanza da noi in linea d’aria verso nordest (e vicino a Mosca!) noteremmo un’altra Bulgaria. A questo punto l’interrogativo sarebbe: Chi fondò questo stato? E i fondatori erano forse gli antenati dei Bulgari balcanici o i loro epigoni? E perché questi ultimi, una volta sistematisi sul Danubio, ne persero il ricordo? Naturalmente le domande si rifanno alla sorpresa tutta “occidentale” di trovare una Bulgaria nelle Terre Russe poiché in realtà fino al XIV sec. nel mondo mediterraneo e musulmano l’unica e vera nazione bulgara, nota dalla Spagna (al-Andalus) alla Persia di Baghdad e dei Samanidi, era proprio e soltanto quella a monte del corso del Volga!
Non basta! Se i Bulgari parlarono una specie di turco per tutta loro storia, è legittimo chiedersi come mai, trovandosi in un’area di antiche parlate ugro-finniche, la loro lingua non fu abbandonata, ma neppure imposta agli altri tanto che tutte queste lingue, pur evolutesi, continuano a sussistere fino ad oggi insieme nella regione “bulgara” fra Kazan’ e Samara. E’ una topica importante poiché gli unici resti di sicura identità bulgara sono le lapidi delle tante tombe musulmane dell’XI-XIII sec. scritte con questa lingua. Dobbiamo forse accettare l’idea di chi suggerisce che i Bulgari fossero degli Ugro-finni che persero la loro lingua originaria quando in parte si convertirono all’Islam o quando furono invasi dai turchi Kipciaki dell’Orda d’Oro? E’ una discussione molto dibattuta e ne riparleremo più oltre con l’aiuto delle recenti ricerche di G.I. Tafaev e di M.Z. Zakiev.
Qualche considerazione va comunque fatta subito.
Se i Bulgari fossero autentici Turchi, le loro radici si troverebbero nella steppa asiatica giacché sarebbero dei rami dell’ethnos turco che ebbe i suoi primi successi storici nella lontana Mongolia e che poi, per varie ragioni, si diressero verso Occidente. Se così fosse per trovare la loro patria dovremmo guardare al di là degli Urali e quale fonte d’informazioni sarebbe migliore dell’archeologia, dato che i Turchi d’Asia non hanno lasciato che pochissime notizie scritte? Da quasi 150 anni a questa parte ad est del Volga, ossia nella steppa asiatica, sono state intraprese varie spedizioni archeologiche che hanno lavorato con metodi sempre più raffinati. Si è scavato moltissimo in Turkestan e nelle regioni limitrofe a nord della Cina e si sono raccolti numerosi reperti, quasi tutti ormai classificati e pubblicati. Malgrado ciò, non è stata individuata alcuna cultura bulgara distinta da quella degli altri turchi nomadi o sedentari in quelle aree! Non esiste (almeno finora) alcun oggetto in Asia Centrale che si possa con sicurezza attribuire ad un’ipotetica etnia bulgara prima del X sec. d.C.! Ciò è deludente perché il nostro è un tentativo di risalire alle origini e, in mancanza di dati archeologici certi e con le contraddizioni a cui abbiamo accennato, è davvero difficile cercar di conoscere la cultura materiale bulgara per farne un confronto con le altre vicine e narrare la storia delle loro interrelazioni. Insomma, al momento non ci resta che accettare come unici e provvisori dati le presenze classiche dei Bulgari nel continente europeo ovvero in ordine cronologico: 1. intorno al Volga, 2. nella steppa ucraina e 3. nei Balcani.
C’è pure chi ha sperato di raccogliere informazioni partendo dal nome Bolgar. In questo caso il problema è più controverso. Già lo aveva creduto risolto al-Garnati, un dotto granadino musulmano in visita nel Volga alla fine del XI sec., affermando che significasse “saggio” e derivandolo perciò da una supposta parola turca bul’ar trasposta in arabo in bulghar. In realtà però recenti studi filologici sul misterioso e strano etnonimo suggeriscono una derivazione dalla radice verbale turca *bulğa- che significa mettere in disordine o mescolare. In verità più che saggi i Bulgari sarebbero dei ribelli o mestatori (I. Lebedynsky) o meticci (M. Vassmer). Eppure nemmeno tali etimologie sono accettate dalla totalità dei turcologhi. La nostra opinione è che fosse un nomignolo convenzionale affibbiato ad un capetto o ad un gruppo militare di potere che millantava una genealogia di prestigio dato che, di élites turche che passavano il proprio nome ad intere tribù di cui si ponevano a capo, se ne conoscono più d’una nella storia.
Addirittura, si potrebbe fare un’ipotesi dissacrante per il Medioevo Russo, se accostassimo la variante dialettale “boljar” ai bojari novgorodesi (boljarin è la forma russa più antica… con la desinenza degli aggettivi di nazionalità!), giacché questo titolo nobiliare è da tempo accettata quale parola d’origine bulgara. E ciò non potrebbe denunciare la presenza nella grande città russa del nordest di un’élite al potere di provenienza Bolgar sul Volga dacché questa era una città-stato anteriore e meglio organizzata di Grande Novgorod? Come i Cazari influirono sull’organizzazione della Rus’ di Kiev, perché i Bulgari non possono aver gestito Grande Novgorod imponendo i loro istituti politici? La frequentazione bulgara di Lago Bianco (Belo Ozero) è documentata molto prima di quella novgorodese. Se questa è la verità, ciò cancellerebbe la leggenda tramandata dalle Cronache Russe di Rjurik e dei suoi fratelli chiamati dalla Svezia nell’852 d.C. dei quali uno fu mandato proprio a Lago Bianco dove morì precocemente. Questi avventurieri avrebbero dovuto mettere ordine nella regione cioè, in altre parole, scacciare i Bulgari e imporre i Novgorodesi di etnia slava o Slaveni… Quanto poi al tentativo di conquistare Novgorod da parte dei Tatari di Batu Khan nel 1237, esso potrebbe essere stato appoggiato da Bolgar contenta di “riconquistare” la “sua antica sorella del nord” diventata ora russa, anche se poi Batu Khan interruppe la sua marcia di conquista non appena Novgorod accettò di pagare per non essere invasa e forse distrutta, come dicono le “nuove” Cronache tatare di Gazi Barag’ (commentate da Z. Z. Miftahov e consacrate da A. Sc’irokorad). Naturalmente è un problema da studiare di più oltre che da provare meglio…
Volgiamo allora lo sguardo sulle fonti primarie più consistenti e più affidabili che, alla fin fine, restano gli scritti dei geografi e dei viaggiatori musulmani oltre a quelli degli storici ufficiali e degli osservatori militari della corte romea (preferiamo l’aggettivo romeo a bizantino). Costoro furono a più stretto contatto (in guerra e negli scambi mercantili) con la steppa e con i suoi popoli.
Su quegli scritti e su quegli autori, M.I. Artamonov, il fondatore dell’archeologia moderna russo-sovietica, ha fatto un puntuale e meticoloso studio nei primi capitoli del suo monumentale lavoro Storia dei Cazari. Ci avverte che le prime menzioni dei Bulgari sono difficili da interpretare giacché, semmai questa gente sia esistita come popolo a sé, solitamente si trovava in leghe di popoli diversi mentre negli elenchi compilati dai vari autori che ne dettero notizia appare e scompare con sospetta frequenza. Per di più, da quando si acquisì una sede stabile nella regione balcanica, il nome “bulgaro” non fu più il distintivo di una gente ben precisa, ma fu usato per riferirsi agli Unni o a tribù singole della lega unna genericamente e arbitrariamente. A questo punto urge pure una considerazione ambientale per capire lo spirito col quale le fonti romee, prima di altre, scrivono e per capire il perché dei loro numerosi anacronismi che creano altra confusione!
L’area nella quale ci stiamo movendo, il Ponto, ha subito a lungo (dal IV fino alla metà del XV sec. d.C.) l’influenza culturale dell’Impero Romano d’Oriente (in modo analogo, ma per più breve tempo, la steppa asiatica ha subito quello della Persia) per cui i popoli migranti che arrivavano nelle vicinanze dell’Impero, sebbene attraversassero il territorio cazaro, guardavano con rispetto Costantinopoli avendola scelto come faro di civiltà e modello da imitare e da emulare e, soprattutto, come terra da coltivare o da dare in pascolo alle loro bestie. E’ chiaro che molte delle categorie culturali, filosofiche e religiose che i Romei dalle basi in Crimea e dal Bosforo Cimmerio (porta d’entrata in Cazaria) diffondevano nel Caucaso attraverso l’espertissima diplomazia (il più delle volte impersonata da esponenti religiosi cristiani come, ad es., i santi Cirillo e Metodio) diventavano per il “barbaro” nomade altrettanti punti di vista, atteggiamenti e maniere ai quali confarsi, a costo dell’ostilità dei popoli vicini e della lotta armata elevata a supremo mezzo d’emancipazione.
L’Impero infatti volentieri indulgeva a volte nelle misure militari impelagandosi in guerre dirette o, con smaccate operazioni condotte al fine di creare odii interni fra un capetto e l’altro, suscitandole fra i nomadi. Si insinuavano sospetti di tradimento fra parenti, si subornavano consiglieri e generali con i tanto amati lussuosi doni di cui la Città dei Cesari era un immenso forziere. D’altronde, quant’altro potesse provocare aspre lotte intestine fra i popoli soggetti era benvenuto dai Cazari i quali alla fine facevano da intermediari fra l’Impero Romano d’Oriente e la steppa, secondo la logica di mantenere buone a tutti i costi le relazioni con i ricchi partners commerciali. E noi sappiamo pure che, nel rapporto con gli stranieri che premevano ai rispettivi confini, sia Costantinopoli che Itil (la capitale cazara) spendevano gran parte del budget d’entrate fiscali sfruttando la rinascita economica crescente dopo il VII-VIII sec. d.C.
In tali circostanze s’accumulò tanta documentazione preziosa che l’Imperatore Costantino VII Porfirogenito, riuscì a mettere insieme nel X sec. addirittura una specie di manuale storico-geografico sulla Steppa Ucraina diventando la più preziosa fonte occidentale sull’argomento steppa. Le sue pagine sono una miniera ricchissima di testimonianze, spesso più tarde rispetto a quanto ancora racconteremo, ma la cui parte più notevole è quella in cui l’Imperatore descrive le prassi diplomatiche consolidate per interpretare la scelta delle notizie di cui un governante deve tener conto per le sue politiche fondamentali.
Ci interessano moltissimo i principi giuridico-religiosi sui quali si fondava diplomazia e che erano pure la base della civiltà romana, al di là delle realizzazioni materiali che chiunque poteva ammirare nella vita e nei monumenti (le ricche chiese!) delle città greche maggiori. I concetti più frequentemente diffusi col chiaro scopo di assoggettare lo straniero – prima ideologicamente e poi materialmente – partivano già dall’esaltazione delle figure dell’Imperatore Romano d’Oriente e del suo Patriarca (o dei loro delegati, in maniera equivalente). Questi erano presentati come le due uniche e massime autorità su tutta la Terra alle quali era dovuta obbedienza e sottomissione poiché il loro potere universale e sacro derivava dal dio più potente (e quindi unico!) abitante nei cieli, pari al turco Tenri.
Rispetto, venerazione, soggezione, sacralità del potere creavano un’atmosfera che condizionava pesantemente i modi di presentarsi a trattare e, siccome analoghi concetti erano ben noti e rispettati e usati per gli stessi scopi in Asia Centrale, i tratti romei restavano credibilissimi e legittimi anche per un barbaro! Val la pena di ricordare un episodio autentico (fra gli altri, benché talvolta attribuiti a interventi miracolosi dei santi cristiani) raccontato da Teofilo Simocatta che dipinge quale ammirazione e quale forte desiderio d’emulazione per il modo di vivere romeo esistesse presso i barbari. Nel VII sec. d.C. il Kaghan avaro minaccia la città di Tomis (oggi Costanza sul Mar Nero) con un assedio. Viene a sapere che, a causa di una carestia che si era prodotta fra i Romei, il generale Prisco ha difficoltà a procurarsi il cibo per l’esercito romeo. Il Kaghan allora interrompe l’attacco a patto che in cambio gli si cedano… spezie indiane che solo Costantinopoli ha a disposizione! Tutto finì con la pace. Certo, è solo un esempio che dà la misura di quanto detto finora e si potrebbe dedurre persino che di solito anche in altri casi di scontri con circostanze simili andasse tutto liscio con qualche chilo di preziose spezie, ma invece non era sempre così!
Prima di tutto l’Impero imponeva che occorresse essere riconosciuti “uomini” e di appartenere ad una “nazione” secondo le regole imperiali fissati da tempo. Solo come nazione si era ammessi a trattare e, siccome il Cristianesimo era passato a religione dello stato già dal IV sec., ci si doveva riferire esclusivamente alle Sacre Scritture Cristiane per averne i fondamenti teorici e santificati e potersi dire nazioni. Dio aveva fissato da Noè in poi 72 stirpi alle quali tutti gli esseri umani appartenevano e a queste si rifacevano tutta una serie di criteri per distinguere le “selvagge bande nomadi” dalle “nazioni”. Da parte loro i relatori romei, soffocati dalle innumerevoli denominazioni rinunciarono a volte di trascrivere quegli incomprensibili nomi che i capetti stranieri si davano e li elencarono includendoli sotto gli etnonimi più classici, ma più soliti: ad es. Cimmeri, Sciti, Unni che già in quelle epoche non esistevano ormai più.
Un altro aspetto ideologico (e pedagogico) degli incontri coi Romei che ci preme sottolineare era il fatto che la Corte Imperiale aborriva dalle discussioni assembleari frequenti dei Germani o dei nomadi dove le decisioni erano prese con difficoltà e con perdita di tempo e negli eventuali contatti si pretendeva che ci si presentasse al cospetto del diplomatico di turno con un ristretto numero di persone raccomandando che gli argomenti fossero chiari e concisi. Ogni conclusione o accordo sarebbe poi stato scritto e le parole fissate “per sempre” in questo modo magico! Alle udienze diplomatiche romee quindi, un capo alla volta, magari accompagnato da qualche dignitario, ma soprattutto con ricchissimi omaggi degni dell’Imperatore romeo e del suo entourage come, ad esempio, schiavi, cavalli o pellicce pregiate.
In quelle lunghe conversazioni (lo si fa ancora oggi nei contatti internazionali) si approfittava per raccogliere ogni possibile informazione: geografica, militare, etnografica etc. per vagliare la credibilità dell’interlocutore, l’opportunità commerciale e per indovinare gli eventuali suoi piani militari segreti contro l’Impero.
I Romei inoltre erano fortemente cerimoniali, sempre e comunque tesi ad evidenziare la superiorità della loro civiltà rispetto agli usi dei nomadi, marchiati, questi ultimi, al contrario di assoluta “inciviltà”, e in ciò il ruolo della religione cristiana con la sua tradizione e i suoi riti elaboratissimi era primario per lo spettacolo del potere che tanto affascinava i nomadi. Le cerimonie impressionavano talmente i barbari al punto di farsi battezzare per ritornare fra i loro uomini vestiti di una maggiore sacralità mentre, allo stesso tempo, si inculcava l’idea che chi non fosse battezzato con la Chiesa Cristiana (ancora non lacerata dal Grande Scisma del 1054) non poteva che restare un uomo a metà.
Queste mode costantinopolitane calorosamente ispirate dai missionari cristiani penetravano fra i “barbari” e li illudevano di poter entrare in un mondo nuovo più ricco e più potente e verso il VI sec. si ebbe un Anticaucaso cristianizzato quasi fin sotto il medio Don ossia fin dove la Chiesa romea riusciva ad arrivare. E per tutto il tempo in cui Costantinopoli e il suo dominio politico-religioso furono rispettati in qualche maniera nell’area del Mar Nero, pur mettendo zizzania fra le miste genti, le azioni, le regole, le prescrizioni e le abitudini romei costituirono lo sfondo ideologico dei documenti scritti a nostra disposizione. Questo è quello che ci preme mettere meglio in evidenza e, in particolare, capire se su questo sfondo di frammentarietà e non affidabilità, sia possibile sfruttare qualche episodio più saliente che speriamo c’illustri l’evolvere della diaspora bulgara. Dobbiamo insomma giungere alle ragioni storiche della divisione nelle tre correnti che portarono ai focolai bulgari detti prima. Aggiungiamo una precisazione: Unni, Bulgari stessi e Avari non sono mai stati popoli omogenei, ma sotto i loro nomi hanno sempre coperto una mescolanza di differenti etnie.
Su questo palcoscenico un’inaspettata ambasciata nel 463 d.C. incontra la diplomazia romea. Narra Prisco di Pani che i Saraguri, gli Uroghi e gli Onoguri in missione unitaria chiesero di poter diventare alleati dell’Impero (foederati) e avere il permesso di risiedere pacificamente vicino al confine cioè nella zona a nord e immediatamente ad est della Crimea. Il capo-missione riferisce pure di aver dovuto abbandonare la steppa abitata dai suoi (al di là del Volga) scacciato dai Saviri che a loro volta erano stati spinti via dagli Avari in fuga da un popolo arrivato da lontano delle rive dell’Oceano orientale (Pacifico? Mar Giallo?)… Inoltre i Saraguri avevano battuto e conquistato gli Akatziri ed ora cercavano anch’essi spazio vitale!
Il racconto dei nomadi probabilmente è vero, se diamo uno sguardo agli avvenimenti contemporanei in Asia Centrale, e, a parte le strane denominazioni dei popoli fino allora poco conosciuti dai Romei e gli eventi abbastanza insoliti, dovette suscitare una grande apprensione a Costantinopoli. Non solo! Qui sembra poter riconoscere una precoce e “indiretta” menzione dei Bulgari perché le tribù nominate non sono che le componenti etniche che più tardi ritroveremo in una specie di grande lega bulgara. A parte il notare che gli Uroghi (Ugri?) sono forse gli antenati dei Magiari (Ungheresi) o forse un’altra schiatta ugro-finnica aggregatasi o imparentata, l’episodio ci riguarda, se lo consideriamo riferito a dei probabili proto-bulgari e perciò lo terremo in debito conto.
Andiamo ancora avanti nel tempo e nel V sec. d.C. (482) troviamo dei Bulgari alleati dell’Impero Romano d’Oriente invitati da Zenone per battere i Goti benché pure qui, lo ripetiamo, l’etnonimo Bulgari non è sicuro né univocamente attribuibile ad una precisa entità etnica.
Sempre in ambito romeo, c’è un racconto interessante di Giovanni Efesino che scriveva al tempo dell’Imperatore Maurizio (fine del VI sec. d.C.). E qui la storia comincia a diventare più complicata giacché si narra che tre fratelli provenienti dalla Bersilia Interiore (Ucraina? Alania o Cazaria?) a marce forzate si diressero con ben 30 mila Sciti (è un nome generico che i Romei attribuivano ai popoli della steppa “non turchi”) verso il Mare d’Azov. Qui giunti e accortisi di essere giunti al confine dell’Impero Romano d’Oriente, uno dei tre prese con sé 10 mila cavalieri e chiese all’Imperatore una terra dove stabilirsi con la sua gente al servizio dell’Impero. Il nome del personaggio in questione è cioè l’eponimo dei Bulgari! Gli altri due fratelli invece si diressero verso est nella terra degli Alani dove c’era una città costruita dai Romani chiamata Caspium e là abitarono. Secondo il racconto ci sarebbero, da una parte, i Bulgari che abitano ormai nella zona dei Balcani e dall’altra i Puguri (sono forse i Fanagori, fondatori della città di Fanagoria, presso Kerc’?) in Bersilia (tutti cristiani, ci rassicura l’autore). Da questi altri Bulgari deriverebbero i Cazari che presero il nome dal più anziano dei tre fratelli, Kazarik, e che assoggettarono successivamente le altre genti della regione per immetterle nel proprio stato. Questa potrebbe essere una prima notizia del legame che legò per secoli Bulgari e Cazari, se non fosse che purtroppo la versione di Giovanni Efesino è molto sospetta ed è contestata per i suoi vari anacronismi e non troppo affidabile…
Marcellino Còmite invece parla dell’Anticaucaso e delle sue genti e c’informa che gli “Sciti” si trovano lì da lungo tempo insieme con le genti turche ossia con gli Onoguri e i Kutriguri. Non solo! Nel racconto degli anni seguenti lo stesso autore parla finalmente di “bulgari comuni” (forse sono quelli che in seguito saranno chiamati i “bulgari poveracci” ossia i Ciuvasci)! Purtroppo nel V-VII sec. sono anni in cui i contatti dei Romei con la steppa sono ancora un po’ nebulosi a causa della situazione in confusa evoluzione. Ad ogni buon conto i nomi dei personaggi coinvolti sono trascritti in modo non preciso e le loro apparizioni sono poste in sequenze a volte anacronistiche e, benché ci sia perfino un famigerato elenco di sovrani bulgari al quale ci si può riferire, in pratica dobbiamo partire da Kubrat/Kuvrat e dalla sua storia personale…
Prima però, seguendo Lebedynsky, diciamo che dai reperti archeologici trovati nella zona del Mar Nero i Bulgari sembrano un po’ più distinguibili (benché senza un’assoluta sicurezza) poiché siamo ai tempi del favoloso Orkhan (o Mohodu khan) quando si forma una grande lega di tribù turcofone, ugro-finniche e iraniche, già in parte trascinate verso ovest dagli Unni, che lascia qualche traccia “tipica” nella Steppa Ucraina. Orkhan si presenta come discendente della vecchia dinastia “sacra” turca dei Dulo, secondo quanto tramandatoci dagli storici romei Teofane Confessore e dal Patriarca Niceforo, e sembra che sia rimasto a lungo al potere nella lega come reggente in quanto il successore, suo nipote Kubrat/Kuvrat (Orkhan è suo zio per parte di madre), è ancora un bimbo. Nel 584 Kubrat finalmente succede allo zio passato a miglior vita e resta a capo della lega finché nel 619 non decide di allearsi con Costantinopoli. E’ ormai sul trono da 26 anni e, sapendo che l’alleanza significa anche abbracciare il Cristianesimo, Kubrat si reca dall’Imperatore romeo Eraclio (610-641) e si fa battezzare. Rimarrà qualche tempo nella capitale a studiare presso il Patriarca (il suo biografo Niceforo detto prima) e, quando finalmente tornerà nell’Anticaucaso, sarà consacrato unico capo cristiano.
Più tardi gli Avari, mescolanza di varie popolazioni non ben sedentarizzate, si scontrano con i Bulgari a nord del Ponto e portano confusione nelle tradizionali relazioni steppiche. L’Impero Romano ha tutto l’interesse a questo punto a sostenere Kubrat purché costui riesca a contenere le incursioni àvare e così l’indipendenza (e la forza politica e militare) della Grande Bulgaria (nome convenzionale del regno di Kubrat) è assicurata.
Alla morte nel 642 (o 665?) d.C. del sovrano bulgaro le liti per la successione fra i suoi numerosi figli causano lo sfascio della lega. I fratelli Asparukh e Bat-bajan (Batbai o Bajan), forse a causa di dissidi sulla posizione da prendere contro la forte e crescente pressione politica interna cazara, si separano. Il primo, il minore, si dirige verso l’Impero Romano dove fonderà sul Danubio la Bulgaria danubiana con capitale Pliska (le cui rovine oggi si trovano nelle vicinanze della cittadina di Aboba) mentre Batbajan rimane nella Steppa Ucraina e confluisce nella realtà statale cazara. Un altro fratello, Kotrag, si dirige a nord e superato il Don si stabilisce sulla riva sinistra in vicinanza della riva alta del Volga. Che fine fa il cristianesimo di Kubrat? Non lo sappiamo, ma di sicuro non coinvolge Kotrag.
La migrazione di Asparukh è comunque ricordata nella lettera del khan Cazaro Giuseppe (fine del X sec.) al cordovano Hasdai ibn Sc’aprut, gran visir ebreo del Califfo Abd-ur-Rahman III, in cui si afferma che “… (i Bulgari di Asparukh) abbandonarono la propria terra e fuggirono, e (noi Cazari) li inseguimmo finché non raggiunsero la riva sinistra del Danubio.” E’ chiaramente una vanteria esagerata poiché il passaggio dei Bulgari stava avvenendo in realtà da decine di anni fra il 660 e il 900 d.C. e non è registrato alcun trasferimento improvviso e affrettato di centinaia di famiglie nell’arco di pochi anni in direzione riva destra del Danubio. Ricordiamo invece che è probabile che col miglioramento del clima nella regione pontica si sia avuto un incremento della produzione alimentare agricola che causò una pressione demografica irraggiante verso ovest e verso nordest con una migrazione quasi in accordo con l’Impero. L’avanguardia dei nuovi contadini normalmente prendeva possesso della terra e i giovani successivamente vi si trasferivano, cercando di raggrupparsi per famiglie e per etnie nei luoghi scelti. Solo più in là nel tempo i vecchi, se ancora in gamba, si riunivano al resto della loro gente. Sarà perciò avvenuta la stessa cosa anche qui, sebbene (questo lo concediamo) su spinta dei Cazari che evolvevano verso un’organizzazione politica più ordinata. Risulta infatti che questi conducessero una politica militare non molto amichevole con la Grande Bulgaria pontica per ca. 20 anni ancora dopo la morte di Kubrat giusto allo scopo d’indebolirla e costruire sulle sue rovine il proprio stato. Ciò avvenne, secondo reperti archeologici recenti, dopo che un capo bulgaro non volle seguire Asparukh poiché, così fu fissato l’evento nell’epica locale, aveva accumulato e sotterrato un tesoro che non voleva abbandonare. Costui fu ucciso dai Cazari per questo e la vittoria cazara intorno al 670 provocò la definitiva diaspora bulgara.
A parte ciò, è chiaro che il racconto delle vicende dei fratelli è l’idealizzazione popolare di un passato dei Bulgari in gran parte nebuloso che i Romei hanno ripreso come storia e, alla fine, parte dei Bulgari rimase intorno alla Crimea e al Mare d’Azov e i loro resti sono le genti storiche odierne dei Balkhari (Bulgari) e dei Karaciai (Facce-nere o Bulgari Neri).
Sono questi secoli VII-VIII d.C. anni di rafforzamento e di crescita dei Cazari che quasi certamente erano legati ai Bulgari intimamente visto che Bat-bajan fece parte del processo politico evolutivo, evidentemente subodorando il futuro successo di un’economia commerciale basata sulle risorse della regione che in questi anni stava aumentando.
Il modello romeo (e persiano) di stato aveva cominciato ad affermarsi lasciando serpeggiare l’idea che si potesse passare da uno stato organizzato militarmente per la guerra e la razzia ad uno basato sul commercio pacifico, vista la possibilità di controllare a valle le grandi vie d’acqua che conducevano ai grandi mercati come Costantinopoli o Baghdad oltre che alla ricca e lontana Cina. Di sicuro è proprio questa situazione che aveva incoraggiato già nel 623 la creazione dello stato creato in Moravia fra gli Slavi Vendi dal mercante franco Samo!
A questo punto occorre disporre dei mezzi non solo per controllare, ma anche per proteggere le vie d’acqua e di terra da dannose incursioni, di poter stipulare patti con i popoli confinanti da pari a pari. In più, com’era costume in quei secoli, si poteva o proclamare una religione di stato allo scopo di avvicinarsi o di distinguersi dai vicini oppure in campo religioso adottare la tolleranza massima per non disturbare i mercanti che erano le persone da “coccolare” più seriamente. Una volta scelta questa via, saranno proprio i mercanti ad aver la meglio nell’evoluzione sia dello stato bulgaro del Volga sia di quello cazaro più a sud rendendo Bulgari e Cazari complementari gli uni agli altri.
Il commercio internazionale con prodotti ad alto valore aggiunto diretti ad una clientela come le corti e i signorotti locali richiede investimenti ingenti e a lungo termine perché lungo è il tempo che impiegano le merci per muoversi da un punto all’altro. E chi altri, se non i mercanti ebrei d’origine persiana detti Rahdaniti hanno i mezzi per gestirlo? Sebbene non abbiamo tracce di ebrei a Bolgar, i prodotti reperibili a costi convenienti nel Grande Nord d’Europa dove trafficano i mercanti bulgari arriveranno comunque alle carovane gestite dai Rahdaniti e la forte e stretta alleanza non troppo ostile fra Bulgari e Cazari per uno sviluppo comune durerà per molto tempo! Per di più, quando famiglie di Cazari islamizzati saranno costrette a trasferirsi più a nord, costoro manterranno le loro antiche relazioni commerciali…
Le aree migliori per trafficare e per la gestione del transito sono individuate nella grande ansa che il Volga fa prima di costeggiare la riva destra più alta verso sud ossia alla confluenza con la Kama dove sorse appunto Bolgar Vecchia. A monte si può penetrare nelle terre dei popoli del nord fornitori (Visu delle fonti arabe e Ves’ delle Cronache Russe, Jura o Ugri etc., tutte di ceppo ugro-finnico) e dai detti punti strategici si possono controllare i passaggi e percepire i balzelli (la decima). La concorrenza non manca poiché contemporaneamente intorno al VIII sec. d.C. appaiono nel nord gli Scandinavi Rus’ organizzati in bande di tipo mafioso che cercano di sfondare saccheggiando le stesse terre già frequentate dai Bulgari.
L’archeologia conferma questo quadro felicemente nel portare alla luce nei monumenti funebri una grande quantità di monete di provenienza romea e araba nelle aree più settentrionali. Si nota altresì una apparizione apparentemente improvvisa del mondo della steppa che i Bulgari comunque serbavano nella loro cultura che avevano mediato e assorbito dagli Alani (Bersili iranici) e dai Burtasi (turchi o iranici).
Lo stesso quadro di commistioni culturali si ritrova quando esaminiamo i resti funebri degli Svedesi Rus’ non ancora slavizzati nella grande ansa del Volga bulgaro.
Ibn Rusté (geografo-storico persiano musulmano che scrive alla fine del IX sec. quando ormai Bolgar Vecchia è una realtà cittadina da tempo) conferma che: “… la Terra dei Bulgari confina con quella dei Burtasi. Essi vivono lungo la riva del fiume che sfocia nel Mar dei Cazari (Caspio) e che si chiama Itil (il Volga inferiore)… la loro terra (dei Bulgari) è situata fra aree paludose e aree di foreste e i Bulgari si dividono fra genti: Una si chiama Bersela, un’altra Eseghel (Askil) e la terza Bolgar, sebbene abbiano tutt’e tre lo stesso modo di vivere.”
Il personaggio chiave per il nostro racconto dovrebbe essere adesso Kotrag, il figlio di Kubrat che aveva scelto la regione fra il Don e il Medio Volga come la nuova sede per la sua gente. Purtroppo di lui non abbiamo più notizie né sappiamo che progetti mise realmente in atto. Addirittura potrebbe non essere mai esistito e probabilmente il suo nome è soltanto quello di un leggendario eponimo della terza ondata di Bulgari che lasciò la Steppa Ucraina (forse non tanto) tempo dopo Asparukh.
In realtà sappiamo poco di questi “terzi migranti bulgari” e con un certo margine di certezza possiamo soltanto dire che erano divisi ancora in un gruppo meridionale rimasto sotto stretto dominio cazaro e in uno più settentrionale che invece cercò ogni integrazione con gli Ugro-finni locali, serbando una certa indipendenza dal vicino “parente cazaro”. Fra loro si era incuneata una schiatta iranica da tempo legata ai Bulgari, i Burtasi, che avevano partecipato ad alcune delle vicende lungo il Volga.
Intanto l’archeologia indica una più antica presenza bulgara nell’ansa di Samara lungo il Volga cioè più a sud di Bolgar Vecchia e ciò suggerisce un più lento movimento dei migranti verso il nordest invece d’un arrivo improvviso e ciò favorisce una più facile interpretazione del passaggio dal nomadismo steppico all’agricoltura stabile dominante, come fu notata da Ibn Rusté or ora citato.
Tuttavia, se facciamo entrare sulla scena le Cronache tataro-bulgare occultate dalla storiografia ufficiale sovietica o distrutte dal KGB, la storia muta alquanto. Teniamo per di più a mente che la storiografia sovietica stabiliva come principio pedagogico una certa predominanza culturale dell’etnia russa su quelle esistenti nell’URSS (in stragrande maggioranza turcofone) e che tale idea è stata in auge ormai per 70 anni. Occorre perciò ora una revisione proprio per la presenza delle cronache locali fissate nell’uso islamico che ad un primo sguardo ripropongono la storia dei Bulgari del Volga in modo più organico e più affascinante e addirittura capace di rivoluzionare il ciclo “classico” della Rus’ di Kiev! Ciò non toglie che si debba andar cauti a causa della non ancora ben provata affidabilità delle nuove fonti dato che i nuovi documenti non sono stati ancora pubblicati per intero e sono disponibili soltanto in antologie o stralci dal tataro in lingua russa tradotti per gli studiosi fortunati che li hanno consultati. Malgrado ciò ne elenchiamo qualcuno che a noi ci è sembrato più utile di altri.
Il più importante sembra essere la Raccolta di Gia’far o Gia’far Tarihi (letteralmente Storia di Gia’far) datata 1680 e parzialmente pubblicata in russo alla fine del secolo scorso quando fu possibile trovare un editore non più sovietico disposto a pubblicarla. L’originale tataro scritto con alfabeto arabo purtroppo era stato già sequestrato e distrutto dalla polizia segreta nel 1939 con lo scopo di soffocare ogni revanscismo etnico nei Tatari e nei popoli ugro-finnici a loro vicini e probabilmente non sarà mai più recuperabile. La copia ritrovata d’altronde non è neppure completa nel testo e vi appare persino un calendario con delle date moderne per confronto. Quest’ultimo punto, tenuto conto che la datazione gregoriana è stata introdotta in Russia nel 1917, dà modo di dubitare che la traduzione corrisponda davvero ad un testo del XVII sec., sebbene il recensore odierno dia la spiegazione logica dell’incidente affermando che le date erano state sicuramente inserite ad uso del lettorato russo (a questo scopo rispondeva d’altronde la traduzione) e risalirebbero agli anni 30 quando fu iniziata la traduzione dell’originale dal tataro in pieno regime sovietico in cui il calendario gregoriano era ormai corrente. Malgrado ciò, la Storia di Gia’far riportata all’interesse degli studiosi dallo storico Bariev ci può aiutare a ripercorrere la vicenda dei Bulgari del Volga per un buon periodo con maggiori lumi. Ne tralasceremo invece la prima parte, visto che si riferisce a tempi molto antichi, anteriori alla fondazione di Bolgar e cronologicamente fuori dai limiti del nostro racconto. Staremo comunque ben attenti, usando dell’articolo di questo storico, alle corrispondenze con le notizie “classiche” già disponibili.
Un altro documento interessante è il Nariman Tarihi, cronaca tatara che copre il periodo di storia bulgara dal XIV al XVIII e che non è stato ancora pubblicato in traduzione russa dall’originale anch’esso disperso, sebbene cada al di fuori dei limiti cronologici postici.
C’è poi il poema epico bulgaro Ciulmàn Tolgaù collocato nel II sec. a.C. (nientedimeno!) dal meticoloso J. K. Begunov che ha rivisto la traduzione russa ora in corso di pubblicazione a Sofia sotto la redazione di G. Nurutdinov e che racconta le gesta dei re bulgari. Le notizie qui sono piene di nomi e di imprese non sempre raffrontabili con quelle tramandate dalle fonti solite e salvo qualche episodio si riferiscono a tempi troppo remoti per i nostri limiti cronologici.
Ultimamente (2009) inoltre lo storico V.D. Dimitriev sulla questione dei Bulgari del Volga e dei loro più probabili eredi, i Ciuvasci, ha pubblicato una raccolta di racconti popolari che risalgono ad antichi eventi intrapresi da un eroe, Ulyp, sui quali, a parte la cronologia difficilmente ricostruibile in modo preciso, si può restituire in qualche modo la storia delle origini di Bolgar Vecchia e qualcosa sulle sue relazioni con i territori vicini.
Infine non ultima per importanza c’è la Descrizione delle Meraviglie di Akbasc’ e Balyngiar (in via di stampa a San Pietroburgo). E’ una composizione epica del poeta tataro del XII sec. d.C. Gianghi ibn al-Kimaki che informa come la Grande Bulgaria (quella della Steppa Ucraina) fu fondata nel 154 a.C. dal yabgu (alto titolo nobiliare turco) Askyp Kuban Bajan. La detta data è troppo precoce a nostro avviso, se pensiamo che l’unico documento affidabile che ammette l’esistenza dei Bulgari differenziandoli dagli altri turchi è quello di Zaccaria Retore (armeno) del 469 d.C. ed è ammessa come la più antica menzione del popolo bulgaro. Nella Cronaca Sira quell’autore infatti, dopo un lungo elenco, scrive che i Bulgari vivono a nordest del Caucaso e sono un popolo pagano e barbaro con una loro propria lingua. Ciò potrebbe naturalmente essere un’insufficienza di informazioni di Zaccaria, se raffrontata con quanto racconta il suddetto poema epico… A parte ciò tuttavia, gli altri dettagli tramandati dal poeta tataro sono invece interessanti. Ad esempio aggiunge che la Grande Bulgaria era composta dalla Crimea (tat. G’alda), dalla Steppa Ucraina dal Dnepr al Don (tat. Önegur) e dalle terre a nord che s’estendevano dal Dnepr al Don (tat. Deremela o G’uci) comprendendo pure l’Anticaucaso (tat. Utig). Dice pure che la capitale fosse Bolgar Vecchia (tat. Ulug Bulgar) che allora portava il nome di Rugian.
E’ sicuro però che Rugian e Bolgar siano la stessa città sul Volga e non sia invece, ad esempio, Fanagoria centro bulgaro più noto nelle cronache romee? Di città col nome Bolgar/Bulgar ce n’è più di una lungo il Volga e finché non verranno stabilite delle sequenze archeologiche e temporali più sicure, la toponomastica non è di grande aiuto. Ad esempio Nizhnii Novgorod è fondata sulle rovine della precedente G’unnecosì come la nuova Sarai fondata più a valle dal khan Berke nel XIII sec. d.C. si trovava al posto di un’anteriore Saksin Bulgar…
Tornando invece all’archeologia, V.V. Sedov avverte che i Bulgari s’introdussero in una realtà preesistente balto-slava (chiamata Cultura Imenkovskaja) già intrufolatasi in area ugrofinnica. Questa realtà fu sfasciata proprio dal loro arrivo perché costrinse i balto-slavi a migrare verso la riva sinistra del Dnepr, trascinando una parte degli ugrofinni (o Magiari) che furono spinti oltre nella Pannonia.
Bolgar Vecchia diventò il centro della nuova comunità e gli scavi fatti e quelli ancora in corso qui ce lo provano con pochi dubbi. Anzi! A meno che la localizzazione dei resti al giorno d’oggi conservati nella cittadina-museo nel Tatarstan a sud di Kazan’ non sia quella vera (ma non ci sono per ora ragioni per contestarla), possiamo essere sicuri che qui c’era in piena vita la città più importante del Volga forse anche prima del IX sec. d.C. (come ci dice l’archeologo V. Janin). Evidentemente la confluenza della Kama (tataro C’ulman-Idel’) col Volga (tataro Kara Idel’) favorì l’insediamento in questi luoghi prima dell’insabbiamento del XII sec.
Naturalmente si nota pure come si sia passati intorno al X sec. d.C. da una città costruita interamente in legno ad una con mura e case di pietra o mattoni cotti e con diverse soluzioni d’ingegneria edilizia fra i tanti resti architettonici maestosi. Per il curioso visitatore c’è pure un magnifico museo disponibile, oltre alle costruzioni magistralmente restaurate. Ormai si può disegnare con buona precisione la pianta originaria della città bulgara capitale e riconoscerla nelle sue vie, nei suoi mercati e nel suo porto sul Volga sebbene la maggioranza delle spoglie odierne risalgano cronologicamente più o meno al tempo dell’Orda d’Oro (XIII-XV sec. d.C.).
Questa