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«LE FIABE DI CHARLES PERRAULT»
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Messaggio «LE FIABE DI CHARLES PERRAULT» 
 
Il gatto dagli stivali


C'era una volta in un paese lontano un povero vecchio mugnaio.
L'uomo aveva tre figli e per farli crescere aveva ormai speso tutti i suoi risparmi; i suoi unici beni erano un vecchio mulino, un asino ed un gatto grigio.
Il mugnaio era molto vecchio ed un giorno, sentendosi ormai vicino alla morte, radunò i suoi ragazzi e gli disse:
"Miei cari, voglio dividere tra di voi i miei averi. A te, che sei il più grande, lascio il mulino. A te invece l'asino e a te, che sei il più piccolo, lascio il mio amato gatto."
Pochi giorni dopo il mugnaio morì.
Il giovane che aveva avuto in eredità il gatto non era per nulla soddisfatto.
"Non è giusto", si lamentava, "i miei fratelli possono mettersi d'accordo, lavorare e guadagnarsi da vivere con il mulino e l'asino, ma io che cosa ci faccio con un gatto? Potrei solo mangiarmelo e poi cucirmi un bel manicotto con il suo pelo per scaldarmi le mani d'inverno!"
Ascoltando quelle parole, subito il gatto drizzò le orecchie e, molto preoccupato di finire davvero arrostito, decise di intervenire in aiuto del suo nuovo padrone.
"Non disperarti così, padrone mio!", disse con un sorriso furbo. "Fidati di me, troveremo un modo per sopravvivere! Prima di tutto devi procurarmi subito un paio di stivali di cuoio, un cappello con la piuma ed un sacco di tela robusta."
Il giovane era un po' stupito, perchè proprio non riusciva ad immaginare che cosa avrebbe potuto fare un gatto con un cappello, un sacco di tela ed un paio di stivali.
Alla fine però, pensando che in fondo non aveva nulla da perdere, decise di accontentarlo e, con i pochi risparmi che possedeva, procurò al gatto tutto ciò che gli aveva chiesto. Così, dopo aver indossato gli stivali ed un bel cappello rosso, salutò il padrone e si diresse nel bosco.
Qui catturò un grande coniglio selvatico, lo infilò nel sacco e si incamminò tutto allegro verso il palazzo del re.
"Voglio essere ricevuto dal re in persona!", disse alle guardie che lo accolsero stupite all'ingresso, ma lo fecero entrare.
"Che cosa desideri?", chiese il re, incuriosito, trattenendosi a stendo dal ridere per il buffo abbigliamento dell'animale.
"Devo consegnarvi un dono da parte del marchese di Carabas, il mio padrone", rispose il gatto con un solenne inchino.
"Anche se non lo conosco", disse il re che era ghiottissimo di selvaggina, "ringrazia molto il tuo padrone da parte mia!"
Nei mesi seguenti il gatto continuò a portare a palazzo diversi doni provenienti da tutte le terre del marchese di Carabas ed il re era sempre più curioso di scoprire chi fosse mai questo misterioso e generoso marchese.
Un giorno, durante una delle sue visite, il gatto udì che il re e sua figlia, la mattina seguente avrebbero fatto una passeggiata in carrozza lungo il fiume.
"Domani vai al fiume e fai un bagno nel punto che ti indicherò", disse il gatto al padrone, "fidati di me e presto diventerai molto ricco."
Il ragazzo seguì le sue istruzioni, si immerse nell'acqua ed ecco arrivare la carrozza del re.
Il gatto corse gridando: "Aiuto! Aiuto! Hanno derubato il mio padrone, il marchese di Carabas! Lo hanno spogliato e gettato nel fiume.
Vi prego, aiutatemi a salvarlo perchè non sa nuotare!"
Il re a quelle grida riconobbe immediatamente il simpatico gatto che aveva portato tanti doni a corte.
Fece fermare la carrozza, ordinò alle guardie di soccorrere il marchese di Carabas, lo fece vestire con un elegante abito nuovo ed invitò il ragazzo, che ora sembrava proprio un gentiluomo, a salire sulla carrozza.
Mentre la carrozza avanzava lentamente lungo la strada, il gatto cominciò a correre avanti, precedendola.
Arrivò in un campo dove i contadini stavano mietendo il grano e con aria minacciosa gridò:
"Quando passerà di qui la carrozza del re, dite che queste terre appartengono tutte al marchese di Carabas, altrimenti ve ne pentirete!"
Così , quando la carrozza si avvicinò, il re chiese di chi fossero quelle terre e quei campi coltivati.
"Ma come sire, non lo sapete? Appartengono tutte al marchese di Carabas!", risposero in coro i contadini.
Il gatto con gli stivali sapeva perfettamente che in realtà tutti quei terreni appartenevano ad un orco, famoso per la sua magia, che abitava in un castello da quelle parti.
Correndo all'impazzata per arrivare primo, giunse davanti al castello ed entrò dalla porta principale con passo deciso.
"C'è nessuno qui?", gridò con fare impertinente.
Finalmente arrivò il padrone, un omone gigantesco, con gli occhi cattivi che con una voce minacciosa chiese:
"Come ti permetti di entrare nel mio castello senza essere invitato?"
"Signore, ho sentito dire cose incredibili sui vostri poteri magici ...ho sentito che potete trasformarvi in qualunque animale! Vorrei proprio vedere se è vero!", rispose il gatto.
L'orco, irritato che qualcuno osasse mettere in dubbio i suoi poteri magici, si trasformò in un grosso leone.
Il gatto, che era un furbacchione, disse: "E riuscireste a trasformarvi anche in un animale molto piccolo?"
L'orco diventò un topolino ed il gatto, velocissimo, allungò una zampa e lo divorò in un sol boccone!
Allora si precipitò alla porta principale e, non appena la carrozza giunse davanti all'ingresso, gridò:
"Benvenuto nel magnifico castello del mio signore, il marchese di Carabas! Vi prego, entrate."
Il re non riusciva a credere ai suoi occhi! E neppure il giovane, che era ancora più sbalordito, ma si fece coraggio e invitò subito il sovrano e la principessa a visitare insieme il castello.
La giovane fanciulla guardava con occhi sempre più innamorati quel giovane bello e dai modi gentili che accompagnava suo padre.
Entrando, si resero conto che il castello era davvero splendido. C'erano moltissime sale, lunghi corridoi e si sarebbero sicuramente smarriti se non ci fosse stato il gatto che, sicuro di sè, con i suoi stivali, faceva da guida.
Dopo averli condotti nei saloni più sontuosi, si fermò in uno davvero immenso, con una tavola imbandita di mille piatti prelibati.
Il banchetto era già stato preparato dall'orco che aveva intenzione di invitare alcuni suoi amici orchi quella sera ...ma ormai il gatto, con il suo piano perfetto ed astuto, aveva rovinato proprio tutto!
"Che splendida tavola! E che ricchezza di piatti avete fatto cucinare: selvaggina, dolci di ogni tipo, vino delle qualità più pregiate! Siete davvero generoso!", esclamò il re.
Si sedettero insieme, mangiarono e riuscirono a bere tutto il vino rosso e bianco; anche il gatto, con tutto quel correre, aveva un tremendo appetito.
Il re intanto si accorse degli sguardi dolci che sua figlia gettava al marchese e di quanto il giovane fosse incantato dalla bellezza della principessa.
Durante il banchetto decise che quel giovane ricco e gentile poteva essere degno di sua figlia, che fino ad ora non si era mai interessata a nessuno dei numerosi prìncipi venuti da lontano per chiedere la sua mano.
"Caro marchese vedo che mia figlia vi guarda in modo davvero speciale", esclamò il re ad un tratto, "se l'intuito non mi inganna, mi pare che anche voi l'amiate molto. Sarei felice di vederla vostra sposa e di festeggiare presto le nozze."
Il gatto, soddisfatto, sorrideva sotto il cappello.
Il suo padrone non ci pensò nemmeno un minuto. "Maestà, non potevate farmi regalo più bello! Sono davvero onorato di sposare vostra figlia, mi sono innamorato di lei appena l'ho vista nella vostra carrozza", rispose. Alla principessa brillavano gli occhi dalla gioia e la data delle nozze fu fissata per il giorno dopo.
Il matrimonio venne celebrato nel palazzo del re e tutte le famiglie più importanti del regno erano presenti. Vennero organizzati ricchi banchetti e festeggiamenti in tutte le piazze del reame, perchè anche il popolo potesse partecipare alla gioia di quel momento.
Per tre giorni e tre notti il paese fu in festa e si sentivano canti di gioia che auguravano agli sposi una lunga vita insieme, piena di felicità.
Così il povero figlio del mugnaio divenne un principe ricchissimo e molto amato da tutti i suoi sudditi.
Il gatto con gli stivali, che gli aveva procurato tanta fortuna, fu sempre trattato da gran signore, non ebbe più bisogno di procurarsi il cibo nei boschi e divenne il consigliere personale del re.
Di tanto in tanto dava ancora la caccia a qualche topo, ma lo faceva solo per divertimento!

Charles Perrault
  



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Messaggio «LE FIABE DI CHARLES PERRAULT» 
 
Finalmente!
Aspettavo Charles Perrault
Ancora deve essere Hauf


Ultima modifica di Zarevich il 20 Gen 2018 15:27, modificato 1 volta in totale 





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Zarevich
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Messaggio «LE FIABE DI CHARLES PERRAULT» 
 
La Bella addormentata nel bosco

C'era una volta un Re e una Regina che erano disperati di non aver figliuoli, ma tanto disperati, da non potersi dir quanto.
Andavano tutti gli anni ai bagni, ora qui ora là: voti, pellegrinaggi; vollero provarle tutte: ma nulla giovava.
Alla fine la Regina rimase incinta, e partorì una bambina.
Fu fatto un battesimo di gala; si diedero per comari alla Principessina tutte le fate che si poterono trovare nel paese (ce n'erano sette) perché ciascuna di esse le facesse un regalo; e così toccarono alla Principessa tutte le perfezioni immaginabili di questo mondo.
Dopo la cerimonia del battesimo, il corteggio tornò al palazzo reale, dove si dava una gran festa in onore delle fate.
Davanti a ciascuna di esse fu messa una magnifica posata, in un astuccio d'oro massiccio, dove c'era dentro un cucchiaio, una forchetta e un coltello d'oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e di rubini.
Ma in quel mentre stavano per prendere il loro posto a tavola, si vide entrare una vecchia fata, la quale non era stata invitata con le altre, perché da cinquant'anni non usciva più dalla sua torre e tutti la credevano morta e incantata.
Il Re le fece dare una posata, ma non ci fu modo di farle dare, come alle altre, una posata d'oro massiccio, perché di queste ne erano state ordinate solamente sette, per le sette fate.
La vecchia prese la cosa per uno sgarbo, e brontolò fra i denti alcune parole di minaccia.
Una delle giovani fate, che era accanto a lei, la sentì, e per paura che volesse fare qualche brutto regalo alla Principessina, appena alzati da tavola, andò a nascondersi dietro una portiera, per potere in questo modo esser l'ultima a parlare, e rimediare, in quanto fosse stato possibile, al male che la vecchia avesse fatto.
Intanto le fate cominciarono a distribuire alla Principessa i loro doni. La più giovane di tutte le diede in regalo che ella sarebbe stata la più bella donna del mondo: un'altra, che ella avrebbe avuto moltissimo spirito: la terza, che avrebbe messo una grazia incantevole in tutte le cose che avesse fatto: la quinta che avrebbe cantato come un usignolo: e la sesta, che avrebbe suonato tutti gli strumenti con una perfezione da strasecolare.
Essendo venuto il momento della vecchia fata, essa disse tentennando il capo più per la bizza che per ragion degli anni, che la Principessa si sarebbe bucata la mano con un fuso e che ne sarebbe morta! Questo orribile regalo fece venire i brividi a tutte le persone della corte, e non ci fu uno solo che non piangesse.
A questo punto, la giovane fata uscì di dietro la portiera e disse forte queste parole:
"Rassicuratevi, o Re e Regina; la vostra figlia non morirà: è vero che io non ho abbastanza potere per disfare tutto l'incantesimo che ha fatto la mia sorella maggiore: la Principessa si bucherà la mano con un fuso, ma invece di morire, s'addormenterà soltanto in un profondo sonno, che durerà cento anni, in capo ai quali il figlio di un Re la verrà a svegliare".
Il Re, per la passione di scansare la sciagura annunziatagli dalla vecchia, fece subito bandire un editto, col quale era proibito a tutti di filare col fuso e di tenere fusi per casa, pena la vita.

Fatto sta, che passati quindici o sedici anni, il Re e la Regina essendo andati a una loro villa, accadde che la Principessina, correndo un giorno per il castello e mutando da un quartiere all'altro, salì fino in cima a una torre, dove in una piccola soffitta c'era una vecchina, che se ne stava sola sola, filando la sua rocca. Questa buona donna non sapeva nulla della proibizione fatta dal Re di filare col fuso.
"Che fate voi, buona donna?", disse la Principessa.
"Son qui che filo, mia bella ragazza", le rispose la vecchia, che non la conosceva punto.
"Oh! carino, carino tanto!", disse la Principessa, "ma come fate? datemi un po' qua, che voglio vedere se mi riesce anche a me." Vivacissima e anche un tantino avventata com'era (e d'altra parte il decreto della fata voleva così), non aveva ancora finito di prendere in mano il fuso, che si bucò la mano e cadde svenuta.
La buona vecchia, non sapendo che cosa si fare, si mette a gridare aiuto. Corre gente da tutte le parti; spruzzano dell'acqua sul viso alla Principessa: le sganciano i vestiti, le battono sulle mani, le stropicciano le tempie con acqua della Regina d'Ungheria; ma non c'è verso di farla tornare in sé.
Allora il Re, che era accorso al rumore, si ricordò della predizione delle fate: e sapendo bene che questa cosa doveva accadere, perché le fate l'avevano detto, fece mettere la Principessa nel più bell'appartamento del palazzo, sopra un letto tutto ricami d'oro e d'argento.
Si sarebbe detta un angelo, tanto era bella: perché lo svenimento non aveva scemato nulla alla bella tinta rosa del suo colorito: le gote erano di un bel carnato, e le labbra come il corallo.
Ella aveva soltanto gli occhi chiusi: ma si sentiva respirare dolcemente; e così dava a vedere che non era morta.
Il Re ordinò che la lasciassero dormire in pace finché non fosse arrivata la sua ora di destarsi.
La buona fata, che le aveva salvata la vita, condannandola a dormire per cento anni, si trovava nel regno di Matacchino, distante di là dodici mila chilometri, quando capitò alla Principessa questa disgrazia: ma ne fu avvertita in un baleno da un piccolo nano che portava ai piedi degli stivali di sette chilometri (erano stivali, coi quali si facevano sette chilometri per ogni gambata).
La fata partì subito, e in men di un'ora fu vista arrivare dentro un carro di fuoco, tirato dai draghi.
Il Re andò ad offrirle la mano, per farla scendere dal carro. Ella diè un'occhiata a quanto era stato fatto: e perché era molto prudente, pensò che quando la Principessa venisse a svegliarsi, si vedrebbe in un brutto impiccio, a trovarsi sola sola in quel vecchio castello; ed ecco quello che fece.
Toccò colla sua bacchetta tutto ciò che era nel castello (meno il Re e la Regina) governanti, damigelle d'onore, cameriste, gentiluomini, ufficiali, maggiordomi, cuochi, sguatteri, lacchè, guardie, svizzeri, paggi e servitori; e così toccò ugualmente tutti i cavalli, che erano nella scuderia coi loro palafrenieri e i grossi mastini di guardia nei cortili e la piccola Puffe, la canina della Principessa, che era accanto a lei, sul suo letto.
Appena li ebbe toccati, si addormentarono tutti, per risvegliarsi soltanto quando si sarebbe risvegliata la loro padrona, onde trovarsi pronti a servirla in tutto e per tutto.
Gli stessi spiedi, che giravano sul fuoco, pieni di pernici e di fagiani si addormentarono: e si addormentò anche il fuoco. E tutte queste cose furono fatte in un batter d'occhio; perché le fate sono sveltissime nelle loro faccende.
Allora il Re e la Regina, quand'ebbero baciata la loro figliuola, senza che si svegliasse, uscirono dal castello, e fecero bandire che nessuno si fosse avvicinato a quei pressi. E la proibizione non era nemmeno necessaria, perché in meno d'un quarto d'ora crebbe, lì dintorno al parco, una quantità straordinaria di alberi, di arbusti, di sterpi e di pruneti, così intrecciati fra loro, che non c'era pericolo che uomo o animale potesse passarvi attraverso.
Si vedevano appena le punte delle torri del castello: ma bisognava guardarle da una gran distanza. E anche qui è facile riconoscere che la fata aveva trovato un ripiego del suo mestiere, affinché la Principessa, durante il sonno, non avesse a temere l'indiscretezza dei curiosi.

In capo a cent'anni, il figlio del Re che regnava allora, e che era di un'altra famiglia che non aveva che far nulla con quella della Principessa addormentata, andando a caccia in quei dintorni, domandò che cosa fossero le torri che si vedevano spuntare al di sopra di quella folta boscaglia.
Ciascuno gli rispose, secondo quello che ne avevano sentito dire: chi gli diceva che era un vecchio castello abitato dagli spiriti; chi raccontava che tutti gli stregoni del vicinato ci facevano il loro sabato. La voce più comune era quella che ci stesse di casa un orco, il quale portava dentro tutti i ragazzi che poteva agguantare, per poi mangiarseli a suo comodo, e senza pericolo che qualcuno lo rincorresse, perché egli solo aveva la virtù di aprirsi una strada attraverso il bosco.
Il Principe non sapeva a chi dar retta, quando un vecchio contadino prese la parola e gli disse:
"Mio buon Principe, sarà ormai più di cinquant'anni che ho sentito raccontare da mio padre che in quel castello c'era una Principessa, la più bella che si potesse mai vedere; che essa doveva dormirvi cento anni, e che sarebbe destata dal figlio di un Re, al quale era destinata in sposa".
A queste parole, il Principe s'infiammò; senza esitare un attimo, pensò che sarebbe stato lui, quello che avrebbe condotto a fine una sì bella avventura, e spinto dall'amore e dalla gloria, decise di mettersi subito alla prova.
Appena si mosse verso il bosco, ecco che subito tutti gli alberi d'alto fusto e i pruneti e i roveti si tirarono da parte, da se stessi, per lasciarlo passare.
Egli s'incamminò verso il castello, che era in fondo a un viale, ed entrò dentro; e la cosa che gli fece un po' di stupore, fu quella di vedere che nessuno delle sue genti aveva potuto seguirlo, perché gli alberi, appena passato lui, erano tornati a ravvicinarsi.
Ma non per questo si peritò a tirare avanti per la sua strada: un Principe giovine e innamorato è sempre pien di valore.
Entrò in un gran cortile, dove lo spettacolo che gli apparve dinanzi agli occhi sarebbe bastato a farlo gelare di spavento.
C'era un silenzio, che metteva paura: dappertutto l'immagine della morte: non si vedevano altro che corpi distesi per terra, di uomini e di animali, che parevano morti, se non che dal naso bitorzoluto e dalle gote vermiglie dei guardaportoni, egli si poté accorgere che erano soltanto addormentati, e i loro bicchieri, dove c'erano sempre gli ultimi sgoccioli di vino, mostravano chiaro che si erano addormentati trincando.
Passa quindi in un altro gran cortile, tutto lastricato di marmo; sale la scala ed entra nella sala delle guardie, che erano tutte schierate in fila colla carabina in braccio, e russavano come tanti ghiri; traversa molte altre stanze piene di cavalieri e di dame, tutti addormentati, chi in piedi chi a sedere.
Entra finalmente in una camera tutta dorata, e vede sopra un letto, che aveva le cortine tirate su dai quattro lati, il più bello spettacolo che avesse visto mai, una Principessa che mostrava dai quindici ai sedici anni, e nel cui aspetto sfolgoreggiante c'era qualche cosa di luminoso e di divino.
Si accostò tremando e ammirando, e si pose in ginocchio accanto a lei.
In quel punto, siccome la fine dell'incantesimo era arrivata, la Principessa si svegliò, e guardandolo con certi occhi, più teneri assai di quello che sarebbe lecito in un primo abboccamento, "Siete voi, o mio Principe?", ella gli disse. "Vi siete fatto molto aspettare!"
Il Principe, incantato da queste parole, e più ancora dal modo col quale erano dette, non sapeva come fare a esprimerle la sua grazia e la sua gratitudine.
Giurò che l'amava più di se stesso. I suoi discorsi furono sconnessi e per questo piacquero di più; perché, poca eloquenza, grande amore!
Esso era più imbrogliato di lei, né c'è da farsene meraviglia, a motivo che la Principessa aveva avuto tutto il tempo per poter pensare alle cose che avrebbe avuto da dirgli: perché, a quanto pare (la storia peraltro non ne fa parola), durante un sonno così lungo, la sua buona fata le avea regalato dei piacevolissimi sogni.
Fatto sta, che erano già quattro ore che parlavano fra loro due, fitto fitto, e non si erano ancora detta la metà delle cose che avevano da dirsi.
Intanto tutte le persone del palazzo si erano svegliate colla Principessa: e ciascuno aveva ripreso le sue faccende: e siccome tutti non erano innamorati, così non si reggevano in piedi dalla fame.
La dama d'onore, che sentiva sfinirsi come gli altri, perdé la pazienza e disse ad alta voce alla Principessa che la zuppa era in tavola.
Il Principe diede mano alla Principessa perché si alzasse: ella era già abbigliata e con gran magnificenza: ed egli fu abbastanza prudente da farle osservare, che era vestita come la mi' nonna, e che aveva un camicino alto fin sotto gli orecchi, come costumava un secolo addietro.
Ma non per questo era meno bella.
Passarono nel gran salone degli specchi e lì cenarono, serviti a tavola dagli ufficiali della Principessa. Gli oboè e i violini suonarono delle sinfonie vecchissime, ma sempre belle, quantunque fosse quasi cent'anni che nessuno pensava più a suonarle: e dopo cena, senza metter tempo in mezzo, il grande elemosiniere li maritò nella cappella di corte, e la dama d'onore tirò le cortine del parato.
Dormirono poco. La Principessa non ne aveva un gran bisogno e vissero cent'anni e più felici e contenti.....

di Charles Perrault
  



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Messaggio «LE FIABE DI CHARLES PERRAULT» 
 
Cenerentola

C'era una volta, in un paese lontano, un gentiluomo vedovo che viveva in una bella casa con la sua unica figlia.
Egli donava alla sua adorata bambina qualsiasi cosa ella desiderasse: bei vestiti, un cucciolo, un cavallo..... Tuttavia capiva che la piccola aveva bisogno delle cure di una madre.
Così si risposò, scegliendo una donna che aveva due figlie giovani, le quali, egli sperava, sarebbero diventate compagne di giochi della sua bambina.
Sfortunatamente, il buon uomo morì poco tempo dopo, ed allora la matrigna mostrò la sua vera natura.
Era dura e fredda, e profondamente invidiosa della dolcezza e bontà della sua figliastra, perché queste qualità facevano per contrasto apparire le sue due figlie, Anastasia e Genoveffa, ancor più meschine e brutte.
Le sorellastre andavano riccamente vestite, mentre la povera ragazza era costretta ad indossare un vestito semplice e grossolano, ed un grembiule, e a compiere in casa tutti i lavori più pesanti. Si alzava prima dell'alba, andava a prender l'acqua, accendeva il fuoco, cucinava, lavava e puliva i pavimenti.
Quando aveva finito di sbrigare tutti i lavori, per riscaldarsi era solita sedersi vicino al camino accanto al carbone ed alla cenere. Perciò cominciarono a chiamarla Cenerentola.
La matrigna e le sorellastre dormivano in belle stanze, mentre la piccola camera di Cenerentola era in soffitta, proprio sotto il tetto della casa, deve vivevano dozzine di topi. Nonostante tutto questo, Cenerentola rimase gentile e cortese, sognando che un bel giorno la felicità sarebbe arrivata.
Fece amicizia con gli uccelli che la svegliavano tutte le mattine. Fece anche amicizia con i topi con cui divideva la soffitta, diede a ciascuno un nome, e cucì loro dei minuscoli vestiti e cappelli. I topi amavano Cenerentola e le erano grati, perchè talvolta li liberava da una trappola o li salvava da Lucifero, il malizioso gatto della matrigna.
Ogni mattina, Cenerentola, preparava la colazione per tutti gli abitanti della casa: una scodella di latte per il gatto, un osso per il cane, avena per il suo vecchio cavallo, granoturco e frumento per le galline, le oche e le anitre del cortile. Poi portava al piano di sopra i vassoi della colazione per la matrigna e le sorellastre Anastasia e Genoveffa.
"Prendi questa roba da stirare e riportala entro un'ora" ordinava Genoveffa.
"Non dimenticare il mio rammendo, e non impiegare tutto il giorno a finirlo!" la rimproverava Anastasia.
"Stendi il bucato e vai avanti col tuo lavoro" ordinava la matrigna
"Batti il grande tappeto della sala, lava le finestre, pulisci la tappezzeria!"
"Si Genoveffa. Si Anastasia. Si mamma" rispondeva Cenerentola mettendosi al lavoro di buona lena.

Dall'altra parte della città c'era il palazzo reale. Un giorno il re convocò il granduca Monocolao e gli disse:
"E' tempo che il principe prenda moglie e si sistemi!"
"Ma vostra Maestà" rispose il duca " deve prima trovare una ragazza ed innamorarsi!"
"Hai ragione" ammise il re. "Daremo un ballo ed inviteremo tutte le fanciulle del reame. Dovrà per forza innamorarsi d'una di loro."
Subito furono spediti gli inviti e il regale biglietto fu portato anche nella casa di Cenerentola.
"Un ballo! Un ballo! Andremo ad un ballo!" gridarono Anastasia e Genoveffa.
"Anch'io sono invitata" disse Cenerentola. "C'è scritto: 'Per ordine del Re, ogni fanciulla dovrà partecipare!".
Le sorellastre risero all'idea di Cenerentola che andava ad un ballo indossando il grembiule con una scopa in mano. Ma la matrigna, con un sorriso sornione, disse che Cenerentola sarebbe certamente potuta andare se avesse finito il suo lavoro e si fosse procurata un vestito decente da indossare.
"Se....." rise Anastasia "Se....." sghignazzò Genoveffa.
E venne il gran giorno. Fin dall'alba le sorellastre furono indaffarate a scegliere abiti, sottovesti ed ornamenti da mettere nei capelli, e non parlarono che del modo in cui si sarebbero vestite per il ballo. Nel frattempo Cenerentola fu tenuta più occupata del solito, perché dovette stirare le ampie gonne, sistemare le guarnizioni, annodare i nastri.
Quando venne la carrozza a prendere la matrigna e le sorellastre, Cenerentola non aveva avuto neppure avuto il tempo di prepararsi.
"Bene" disse la matrigna. "Allora non verrai. Che peccato! Ma ci saranno altri balli!" Cenerentola salì tristemente le scale buie e si affacciò alla sua finestra illuminata dalla luna. E guardò mesta il palazzo lontano che risplendeva di luci. All'improvviso, una candela venne accesa alle sue spalle. Cenerentola si voltò, e vide un bellissimo vestito da sera.

L'avevano cucito per lei gli uccelli ed i topi suoi amici, e lo avevano decorato con pezzi di nastro e perline che avevano trovato in giro per la casa. In men che non si dica, Cenerentola indossò il vestito e corse giù per le scale, gridando:
"Per favore, aspettate, vengo anch'io!" Anastasia e Genoveffa si girarono: com'era bella! L'invidia le accecò e...
"Le mie perle!" gridò una.
"Il mio nastro!" urlò un'altra e strapparono il vestito di Cenerentola. Poi, soddisfatte se ne andarono. Disperata Cenerentola corse in giardino e singhiozzò:
"E' proprio inutile. Non c'è niente da fare!"
Ma in quel momento da una nuvola di polvere di stelle uscì una donnina dalla faccia tonda, avvolta in un mantello con cappuccio. "Sciocchezze, figliola" disse con voce dolce. "Asciuga quelle lacrime: non vorrai andare al ballo in questo stato!".
Cenerentola smise di piangere e chiese:
"Chi siete?"
"Sono la fata tua madrina e mi chiamo Smemorina" rispose lo strano personaggio. "Non abbiamo molto tempo a disposizione. Penso che per prima cosa tu abbia bisogno di una zucca."
Cenerentola non capì il motivo, ma obbedì e raccolse una grossa zucca. La fata agitò la sua bacchetta magica verso di essa, e cantò: "Salagadula, mencica bula, bibbidi-bobbidi-bu...." la zucca si alzò lentamente sul fusto, mentre i viticci arrotolandosi si trasformarono in ruote: in un attimo diventò una stupenda carrozza.
"Ora" disse la fata "abbiamo bisogno di alcuni topi".
Quattro piccoli amici di Cenerentola si presentarono di corsa, ed ancora una volta la fata cantò le parole magiche mentre toccava i topi con la sua bacchetta. I topolini furono trasformati in quattro cavalli grigi pomellati che furono subito attaccati alla carrozza. Poi la fata trasformò il vecchio cavallo di Cenerentola in un superbo cocchiere ed il cane Tobia in un elegante valletto.
"Ed ora tocca a te, mia cara" disse la fata Smemorina, toccando Cenerentola con la sua bacchetta.
Il vestito strappato diventò uno splendido abito di seta e da sotto la gonna spuntarono delle deliziose scarpette di cristallo, le più belle del mondo. Cenerentola non riusciva a parlare per l'emozione. La fata allora spinse la carrozza e le raccomandò di non rimanere al ballo dopo la mezzanotte: se fosse rimasta un solo minuto di più, la carrozza sarebbe ridiventata una zucca, i cavalli topolini, il cocchiere un vecchio cavallo ed il valletto un cane, e lei stessa si sarebbe ritrovata vestita di stracci. Cenerentola promise e partì felice verso il palazzo reale. Quando arrivò, il ballo era già iniziato, e il principe, con aria un pò annoiata, stava facendo l'inchino alle duecentodecima e duecentoundicesima damigella: le brutte sorellastre Anastasia e Genoveffa. All'improvviso alzò lo sguardo e scorse all'ingresso la più bella fanciulla che avesse mai visto. Come trasognato piantò in asso le sorelle e si avvicinò a Cenerentola, la prese per mano e l'accompagnò nella grande sala, in mezzo a tutti. Per tutta la serata il figlio del re non ballò con nessun altra e non lasciò la sua mano un solo minuto. Le sorellastre e la matrigna non riconobbero Cenerentola e si rodevano d'invidia chiedendosi chi potesse essere la bella sconosciuta.
Tutte le dame osservarono il suo abito e la sua pettinatura, e si ripromisero di copiarli il giorno seguente. Il vecchio re sorrideva soddisfatto: il principe aveva trovato la sposa dei suoi sogni. Passarono le ore. Quando l'orologio del palazzo cominciò a battere la mezzanotte, Cenerentola ricordò la promessa.
"Devo andare" gridò spaventata e, liberando la sua mano da quella del principe, attraversò il palazzo e scese di corsa lo scalone, inseguita dal principe e dal granduca.
Una scarpetta di cristallo le si sfilò correndo, ma lei non si fermò finché non fu in carrozza. L'orologio stava ancora battendo l'ora quando la carrozza lasciò il palazzo di gran carriera: mentre oltrepassava il cancello, risuonò il dodicesimo rintocco: carrozza, cavalli, tutto sparì ed al loro posto comparvero una zucca, alcuni topolini, un cane, un vecchio cavallo e una fanciulla vestita di stracci.
Tutto ciò che rimaneva di quella magica serata era la scarpetta di cristallo che brillava al piede di Cenerentola. Il mattino seguente, il figlio del re comunicò al padre che avrebbe sposato solo la fanciulla che aveva perso la scarpetta al ballo.
Il granduca Monocolao fu incaricato di cercare la ragazza il cui piede entrasse perfettamente nella preziosa scarpetta. Il granduca provò la scarpetta a tutte le principesse, alle duchesse, alle marchese, a tutte le dame del regno, ma inutilmente.

Arrivò infine a casa di Cenerentola. La matrigna tutta eccitata, corse a svegliare le sue pigre figlie.
"Non abbiamo un minuto da perdere" gridò. "C'è la possibilità che una di voi diventi la sposa del principe, se riuscirà a calzare la scarpetta di cristallo!" e le mandò giù di corsa dal duca, con la raccomandazione "Non deludetemi"!
Poi seguì Cenerentola, che era andata in camera sua per rendersi presentabile al duca, e la chiuse dentro a chiave. Nessun'altra doveva poter approfittare di un'occasione tanto fortunata. Quando Cenerentola udì lo scatto della serratura, capì, troppo tardi, cos'era accaduto.
"Per favore, vi prego, fatemi uscire!" implorò girando inutilmente la maniglia.
La matrigna si mise in tasca la chiave e se ne andò sogghignando. Non si accorse però che due topolini la seguivano, senza mai perdere di vista la tasca in cui aveva messo la chiave. Nel frattempo Anastasia e Genoveffa stavano discutendo sopra la scarpetta di cristallo, e ciascuna affermava che era sua. La matrigna le osservò con attenzione mentre cercavano senza successo di far entrare i loro piedoni nella minuscola scarpetta. Non si accorse che i due topolini le sfilavano silenziosamente la chiave dalla tasca e se la portavano via. Il granduca riprese la scarpetta alle due sorellastre immusonite e si avviò alla porta per andare nella casa seguente, quando Cenerentola, chiamò dalle scale:
"Per favore Vostra Grazia, aspettate! Posso provare la scarpetta?" La matrigna tentò di sbarrarle il passo.
"E' solo Cenerentola, la nostra sguattera." disse al duca, ma egli la spinse di lato.
"Signora, i miei ordini sono: ogni fanciulla del regno!" La malvagia matrigna tentò un ultimo trucco. Fece lo sgambetto al servitore del duca che reggeva su un cuscino la scarpetta di cristallo: la preziosa scarpina cadde per terra frantumandosi in mille pezzi.
"Oh è terribile!" gridò il duca. "Cosa dirà il Re?" Allora Cenerentola mise la mano nella tasca del grembiule.
"Non preoccupatevi" disse "ho io l'altra scarpetta" Il duca gliela calzò, ed il piede naturalmente entrò senza fatica.
Il quel momento apparve la fata Smemorina, che toccò Cenerentola con la bacchetta magica. E tutti poterono constatare che era proprio lei la bella sconosciuta che aveva conquistato il cuore del principe al ballo. Cenerentola fu accompagnata al palazzo reale con la carrozza del re. Là, fra grandi feste ed al suono di tutte le campane del reame, Cenerentola sposò il suo principe. E da quel giorno vissero felici e contenti.


Charles Perrault
  



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Pelle d'asino

C'era una volta un re che aveva una moglie dai capelli d'oro e così bella che sulla terra non ce n'era un'altra come lei. Accadde un giorno che la regina si ammalò e, accorgendosi di morire, chiamò il re e gli disse:
- Mi devi promettere che, se riprenderai moglie, sposerai solo una donna che sia bella come me e che abbia i capelli d'oro come i miei.
Appena il re ebbe promesso, la bella regina chiuse gli occhi e spirò
Il re per molto tempo non riuscì a darsi pace e non pensò affatto a riprendere moglie, ma i suoi consiglieri alla fine gli dissero:
- Non potete fare a meno, maestà, di riprendere moglie, poiché il popolo ha bisogno di una regina.
Dopo di che furono mandati messaggeri per ogni dove, a cercare una sposa che fosse bella e bionda come la regina morta; ma la ricerca fu vana e i messaggeri ritornarono indietro mortificati senza essere riusciti a concludere nulla.
Il re aveva una figlia che era bella come la madre e come lei aveva lunghi capelli d'oro. Quando ella crebbe, il re disse ai suoi consiglieri che avrebbe dato sua figlia in moglie al più anziano di loro e che dopo la sua morte ella sarebbe divenuta regina. Quando il più anziano lo seppe, ne fu felice: la figlia del re, invece, rimase spaventata dalla decisione del padre, e, sperando di riuscire a fargli cambiare idea, così disse:
- Prima che io ubbidisca al tuo desiderio, mi devi far fare tre vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro argento come la luna e il terzo lucente come le stelle. Inoltre desidero un mantello composto da tante pelli quanti sono gli animali del regno, in modo che ognuno di essi vi sia rappresentato.
La principessa pensava che fossero cose impossibili e che nel frattempo forse le sarebbe riuscito di smuovere il re dal suo proposito.
Il re però non vi rinunciò e le donne più abili del suo regno dovettero tessere tre vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro d'argento come la luna e il terzo lucente come le stelle; i suoi cacciatori dovettero cacciare tutte le bestie del regno e prendere a ognuna un pezzo di pelle o di pelliccia. Alla fine, quando tutto fu pronto, il re mandò a prendere i tre abiti meravigliosi e il mantello, li stese davanti a sé e disse:
- Domani si farà il matrimonio.
Quando la principessa vide che non c'era speranza di smuovere il padre dalla sua decisione, stabilì di fuggire. Di notte, mentre tutti dormivano, si alzo, e dal suo tesoro scelse tre oggetti che le erano particolarmente cari: un anello d'oro, un piccolo fuso d'oro e un piccolo arcolaio pure d'oro; poi mise in un guscio di noce i tre vestiti color del sole, della luna e delle stelle, e, gettandosi addosso il mantello fatto coi mille pezzi di pelli, si annerì il viso e le mani con la fuliggine. Quindi, raccomandandosi a Dio, partì e viaggio tutta la notte.
Non conosceva la strada e vagò a lungo senza meta. Cammina cammina, a un certo punto si trovò in una foresta piena di alberi e cespugli. C'era un tale intrico di rovi e di spine che la bimba non poté più proseguire: Inoltre era molto buio ed elle ormai si sentiva molto stanca; allora si fermò e scelse il cavo di un albero per passarvi la notte. Civette e strani uccelli notturni mandavano rauche strida. La fanciulla aveva paura, ma a un certo punto vinta dalla stanchezza, cadde in un sonno profondo.
Al mattino il sole si levò e, mentre ella continuava a dormire, il re di un paese vicino attraversò la foresta, con tutto il suo seguito, per andare a caccia; inseguendo la selvaggina venne a trovarsi proprio dove la fanciulla s'era addormentata.
Quando i suoi cani s'imbatterono in quell'albero, si misero ad abbaiare e a ringhiare così furiosamente da richiamare l'attenzione del re, il quale si rivolse ai suoi cacciatori dicendo:
- Fate presto. Andate a vedere quale animale selvatico si nasconde là dentro e portatemelo qui subito.
I cacciatori ubbidirono e quando ritornarono dissero:
- Nel cavo di quell'albero abbiamo trovato un essere sorprendente di cui non abbiamo mai veduto l'uguale: la sua pelle è di mille colori, ed è li fermo, immerso in un sonno profondo.
Il re disse:
- Cercate di prenderlo vivo e legatelo alla carrozza.
Appena i cacciatori afferrarono la fanciulla, essa si svegliò atterrita e supplicò con voce tremante:
- Sono una poveretta, abbandonata dal padre e senza madre, abbiate pietà di me e portatemi con voi!
- Vieni - le dissero allora e la condussero dal re.
Questi guardò meravigliato quell'esserino sparito e tremante e l'affidò ai cacciatori, perché la ristorassero. Essi le diedero il soprannome di " Pelle d'asino", per via del suo strano e ispido mantello. Mossi a pietà dal suo pianto la portarono alla reggia, le diedero un sottoscala per dormire, dove non c'era nemmeno un finestrino da cui penetrasse un raggio di sole. Le dissero che doveva fare la sguattera in cucina. Suo compito era portare l'acqua e la legna per fare il fuoco, spennare i polli, pelare le patate, levare la cenere dalle stufe; insomma, doveva fare tutti i lavori più umili e faticosi.
Per un certo tempo Pelle d'asino visse miseramente in questo modo, ma un giorno seppe che nella grande sala del castello davano una festa e chiese alla cuoca:
- Posso andare un momento a vedere? Mi metterò in un cantuccio fuori dalla porta e sbircerò per il buco della serratura...
La cuoca rispose:
- Vai pure, ma ritorna fra mezz'ora perché devi levare la cenere dalla stufa e lavare le stoviglie.
Pelle d'asino prese una lucerna, corse nel sottoscala, si levò il mantello di pelli e si lavo ben bene per togliere la fuliggine dal viso e dalle mani e pettinò i lunghi capelli biondi in modo che tutta la sua bellezza fosse visibile. Quindi apri il guscio di noce e ne tolse il vestito d'oro come il sole.
Appena pronta, con il cuore che le batteva d'ansia e di gioia, entrò nella sala da ballo: tutti le fecero largo, pensando che fosse una principessa sconosciuta.
Il re stesso venne da lei e, prendendole la mano, la fece ballare; pensava che mai aveva veduto una fanciulla così bionda, così bella e così gentile. Appena il ballo finì, la fanciulla fece un inchino e, prima che il re se ne rendesse conto, sparì.
Essa era ritornata di corsa nel suo sottoscala e, levatosi presto presto lo splendido vestito, si era di nuovo tinta con la fuliggine il viso e le mani e aveva indossato il mantellaccio di mille pezzi, diventando di nuovo Pelle d'asino.
Era appena giunta in cucina e si era messa a tagliere la cenere dalla stufa, quando la cuoca le disse:
- Lasciala stare fino a domani: piuttosto prepara la cena al re in vece mia, mentre io vado di sopra a dare un'occhiata; ma bada bene di non lasciar cascare un capello nella minestra, perché il re andrebbe su tutte la furie.
Pelle d'asino cucinò la cena del re, preparando la minestra più buona che sapeva fare. Appena fu cotta, la fanciulla andò a prendere il suo anellino d'oro e ve lo buttò dentro.
Quando la festa fu finita il re ordinò che gli servissero la cena, e, assaggiata la minestra, pensò che non aveva mai mangiato nulla di più buono in vita sua. L'aveva quasi finita quando vide un anello d'oro brillare nel piatto e, non riuscendo a capire come mai fosse lì, fece chiamare la cuoca. Quando la cuoca sentì che volevano ebbe paura e disse a Pelle d'asino:
- Sei sicura di non aver lasciato cadere un capello nella minestra?
Tremando, si presentò al re, che le chiese chi aveva cucinato la cena. La cuoca rispose con un filo di voce:
- Sono stata io.
- Non è vero, perché la minestra è migliore del solito.
Allora la cuoca mormorò, facendosi rossa:
- Devo confessare che non sono stata io, ma Pelle d'asino:
Il re fece chiamare Pelle d'asino e, quando la fanciulla fu alla sua presenza, le chiese:
- Chi sei?
- Io sono una povera fanciulla senza padre né madre, che tu hai accolta per pietà - rispose.
Il re domandò di nuovo:
- Dove hai preso questo anello che ho trovato nella minestra e come mai possiedi un gioiello così prezioso?
Pelle d'asino rispose:
- Non ne so niente.
Il re minacciò di cacciarla via se non diceva la verità, ma Pelle d'asino ostinata ripeteva sempre le medesime parole:
- Non ne so niente.
- Torna in cucina - disse infine il re rassegnato.
Pelle d'asino corse a rifugiarsi nel suo sgabuzzino. Passato un po' di tempo vi fu un altro ballo. Bellissime dame con abiti meravigliosi e splendide collane entrarono nei saloni del castello; ma il re non le guardava neppure e continuava a pensare alla fanciulla misteriosa che aveva incontrato durante il primo ballo.
Intanto nella cucina c'era un momento di calma perché tutto quello che era necessario per la festa era già pronto. Allora Pelle d'asino chiese alla cuoca:
- Posso andare a vedere la festa?
- Va pure, Pelle d'asino, ma ritorna presto. Devi cucinare quella minestra che è piaciuta al re, perché io non so farla come te! - rispose la cuoca.
Pelle d'asino, tutta contenta, fece le scale di corsa ed entrò nel suo sgabuzzino. Si sfilò il mantellaccio rattoppato, si lavò e indosso il vestito argenteo come la luna. Si pettinò i bei capelli biondi che nella luce della sera erano ancora più splendenti del solito. Poi, in punta di piedi, sali in fretta le scale e si presentò nella sala da ballo.
Quando entrò tutti tacquero all'istante e i paggi si inchinarono al suo passaggio. Le fanciulle la guardavano con invidia, mentre i giovani non si stancavano di rimirare la sua splendida bellezza.
Il re stesso si alzò dal trono e le venne incontro. Felice di rivederla, la prese per mano e la invitò a danzare. Appena il ballo fu finito la fanciulla, ricordandosi della promessa fatta alla cuoca, s'allontanò in fretta. Il re e i cortigiani non fecero in tempo a seguirla, che ella era già in fondo alle scale.
Entrata nello sgabuzzino si tolse l'abito d'argento e dopo esseri cambiata tornò in fretta in cucina a fare la minestra. Anche questa volta volle prepararla con gran cura. La cuoca intanto era andata di sopra e dal buco della serratura guardava quando accadeva nella sala da ballo. Pelle d'asino approfittò della sua assenza per andare a prendere il suo piccolo fuso d'oro e quindi lo mise nel piatto destinato al re.
Quando il re mangiò la minestrina, la trovò ancora migliore della prima volta e di nuovo mandò a chiamare la cuoca. La donna entrò tremando nella sala del banchetto.
- Chi ha fatto questa minestra ? - le chiese il re.
La cuoca non seppe più cosa rispondere e indietreggiò rossa e confusa in un angolo della stanza.
- Vieni qui! - tuonò il re. - E parla !
La povera cuoca dovette confessare ancora una volta che la minestra l'aveva preparata Pelle d'asino.
- Fatela venire subito alla mia presenza ! - intimò allora ai servi e questi corsero a chiamarla.
Giunta al cospetto del re, la fanciulla, disse di non sapere nulla del fuso d'oro e il re dovette rinunciare a capire da dove provenisse la fanciulla misteriosa.
" Voglio dare ancora una festa da ballo e se questa volta la bella fanciulla fuggirà ancora, la farò ricercare in tutto il regno e la ritroverò a ogni costo " Si disse il re e, infatti, dopo pochi giorni ordinò che venissero fatti i preparativi per il più grande e importante ballo dell'anno.
Pelle d'asino questa volta mise l'abito che luceva come le stelle e con quello entrò nella sala da ballo. Il re, che l'attendeva impaziente ballò di nuovo con lei e guardandola, pensava che non aveva mai visto una fanciulla così bionda, cosi bella, così gentile. Mentre ballavano, senza che la fanciulla se ne accorgesse, le infilò al dito un piccolo anello d'oro. Quando la danza finì il re cercò di trattenerla, ma ella si liberò dalla stretta e corse via così veloce, che scomparve in un baleno agli occhi di tutti né alcuno riuscì a trattenerla.
Pelle d'asino nel frattempo s'era rifugiata nel sottoscala.
Poiché era rimasta al ballo molto più a lungo della solita mezz'ora, non ebbe il tempo di levarsi il bel vestito e quindi cercò di nasconderlo infilandovi sopra il mantello di pelli; non riuscì neanche ad annerirsi bene il viso e le mani e nella fretta un dito rimase bianco.
Corse quindi in cucina, preparò la minestra per il re e, mentre la cuoca era di sopra, vi mese dentro l'aspo d'oro.
Più tardi, quando il re trovò il girello in fondo alla minestra, fece venire Pelle d'asino e vide che aveva un dito bianco... e al dito c'era l'anello che egli le aveva infilato mentre ballavano.
La prese per mano e la tenne stretta, e quando ella cercò di liberarsi e di scappare, il mantello di pelli le scivolò e il vestito lucente come le stelle apparve nel suo splendore, mentre sulle spalle scendevano i bei capelli d'oro: Pelle d'asino, confusa e tremante, era davanti al re, in tutta la sua bellezza, ne poteva più nascondersi. Il re allora disse:
- Non temere, Pelle d'asino, tu sarai la mia cara sposa e noi non ci lasceremo mai più.
Si celebrarono le nozze e gli sposi vissero felici e contenti fino alla fine dei loro giorni.

di Charles Perrault
  



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Enrichetto dal ciuffo

C'era una volta una Regina, la quale partorì un figliuolo così brutto e così male imbastito, da far dubitare per un pezzo se avesse fattezze di bestia o di cristiano.
Una fata, che si trovò presente al parto, dette per sicuro che egli avrebbe avuto molto spirito: e aggiunse di più, che in grazia di un certo dono particolare, fattogli da lei, avrebbe potuto trasfondere altrettanta dose di spirito e d'intelligenza in quella persona, chiunque si fosse, che egli avesse amato sopra tutte le altre.
Questa cosa consolò un poco la povera Regina, la quale non poteva darsi pace di aver messo al mondo un brutto marmocchio a quel modo!
Il fatto egli è, che appena il fanciullo cominciò a spiccicar parola, disse delle cose molto aggiustate: e in tutto quello che faceva, mostrava un so che di così aggraziato, che piaceva e dava nel genio a tutti. Mi dimenticava di dire che egli nacque con un ciuffettino di capelli sulla testa: e per questo lo chiamarono Enrichetto dal ciuffo: perché Enrichetto era il suo nome di battesimo.
In capo a sette o otto anni, la Regina di uno Stato vicino partorì due bambine.
La prima, che venne al mondo, era più bella del Sole; e la Regina ne sentì un'allegrezza così grande, da far temere per la sua salute.
La stessa fata, che aveva assistito alla nascita di Enrichetto dal ciuffo, si trovò presente anche a quest'altra: e per moderare la gioia della Regina, le dichiarò che la piccola Principessa non avrebbe avuto neppur l'ombra dello spirito, per cui sarebbe stata tanto stupida, quanto era bella.
La Regina rimase molto male di questa cosa: ma pochi momenti dopo ebbe un altro dispiacere anche più grosso, nel vedere che la seconda figlia, che aveva partorito, era talmente brutta da fare paura.
"Non vi disperate, signora", le disse la fata, "la vostra figlia sarà ricompensata per un altro verso; essa avrà tanto spirito, da non avvedersi nemmeno della bellezza che non l'è toccata."
"Dio voglia che sia così!", rispose la Regina, "ma non ci sarebbe modo di fare avere un po' di spirito anche alla maggiore che è tanto bella?"
"Per quanto allo spirito, o signora, io non ci posso far nulla", disse la fata, "ma posso tutto per la parte della bellezza; e siccome non c'è cosa al mondo che non farei per vedervi contenta, così le concederò in dono la virtù di far diventare bella la persona che più sarà di suo genio."
A mano a mano che le due Principesse crescevano, crescevano con esse i loro pregi, fino al punto che non si parlava d'altro che della bellezza della più grande e dello spirito della minore.
È vero però che anche i loro difetti si facevano più vistosi, coll'andare in là degli anni. La minore imbruttiva a occhiate, e la maggiore diventava stupida un giorno più dell'altro, e non sapeva rispondere alle domande che le venivano fatte, o rispondeva delle giuccherie. Oltre a questo ell'era così smanierata e senza garbo né grazia, che non era buona di posare quattro vasi di porcellana sul camminetto senza romperne qualcuno, né d'accostarsi alla bocca un bicchier d'acqua senza versarselo mezzo sul vestito.
Sebbene la bellezza sia un gran vantaggio per una fanciulla, pure è un fatto che la sorella minore aveva sempre il disopra sull'altra, in società e in tutte le conversazioni.
Sul primo, tutti si voltavano dalla parte della più bella per vederla e ammirarla; ma dopo pochi minuti la lasciavano per andare da quella che aveva più spirito, a sentire le cose graziose che diceva: e faceva maraviglia di vedere come in meno di un quarto d'ora la maggiore non avesse più nessuno dintorno a sé, mentre tutti erano a far corona intorno alla sorella minore.
La maggiore, sebbene molto stupida, si avvide di questa cosa: e avrebbe dato volentieri tutta la sua bellezza, per avere la metà dello spirito della sorella.
La Regina, quantunque fosse prudente, non seppe stare dallo sgridarla piu volte delle sue grullerie: e questa cosa fece tanta pena alla povera Principessa, che si sentì come morire.

Un giorno, che era andata nel bosco a piangere la sua disgrazia, vide venirsi incontro un omiciattolo brutto e spiacente quanto mai, ma vestito con grandissima eleganza.
Era il giovane principe Enrichetto dal ciuffo, il quale innamoratosi di lei al solo vederne i ritratti che giravano per tutto il mondo, aveva abbandonato il regno di suo padre per avere il piacere di vederla e di parlarle.
Contentissimo di trovarla sola, si avvicinò a lei con tutto il rispetto e la gentilezza immaginabile. E avendo udito che essa era molto afflitta, dopo i soliti complimenti d'uso le disse:
"Io non so comprendere, o Regina, come essendo voi così bella come siete, possiate essere triste come apparite; perché, sebbene io possa vantarmi di aver veduto un'infinità di belle donne, posso dire di non averne vista una sola, la cui bellezza si avvicinasse alla vostra".
"A voi piace dir così!", rispose la Principessa, e non disse altro.
"La bellezza", riprese Enrichetto dal ciuffo, "è un dono così grande, che deve compensare di tutto il resto; e quando la si possiede, non vedo nessun'altra cosa che possa recarci afflizione."
"Vorrei", rispose la Principessa, "essere brutta quanto voi e avere dello spirito; piuttosto che avere la bellezza che ho, ed essere una stupida come sono."
"Non c'è nulla, o signora, che dia segno di aver dello spirito, quanto il credere di non averne: egli è uno di quei pregi, che per la sua indole singolare, più se ne ha, e più si crede di esserne mancanti."
"Io non m'intendo di queste cose", disse la Principessa, "ma so benissimo che io sono una grande imbecille, ed ecco la cagione del dolore, che mi farà morire."
"Se non è che questo che vi tormenta, o signora, io posso facilmente metter fine alla vostra afflizione."
"E come fare?", disse la Principessa,
"Io ho il potere", disse Enrichetto dal ciuffo, "di trasfondere tutto lo spirito, che può desiderarsi, in quella persona che io dovrò amare sopra le altre; e siccome voi siete quella, così dipende da voi di possedere tanto spirito, quanto se ne può avere, solo che siate contenta di sposarmi."
La Principessa rimase come una statua, e non rispose sillaba.
"Vedo bene", rispose Enrichetto dal ciuffo, "che questa mia proposta non vi è andata punto a genio: e non me ne faccio nessuna meraviglia; ma vi lascio un anno intero, perché possiate prendere una risoluzione."
La Principessa aveva così poco spirito, e al tempo stesso sentiva tanta voglia di averne, che s'immaginò che la fine dell'anno non sarebbe arrivata mai, e così accettò la proposizione che le veniva fatta.

Appena ebbe promesso a Enrichetto dal ciuffo che dentro un anno e in quello stesso giorno l'avrebbe sposato, si sentì subito molto diversa da quella di prima; e provò una facilità incredibile a dire tutte le cose che voleva dire, e a dirle in un modo grazioso, spontaneo e naturale. Cominciò da questo momento a metter su una conversazione elegante e ben condotta con Enrichetto dal ciuffo, nella quale essa brillò con tanta vivacità, che a questi nacque il dubbio di averle dato più spirito di quello che se ne fosse serbato per sé.
Ritornata che fu al palazzo, la Corte non sapeva che pensare di un cambiamento così improvviso e straordinario; dappoiché, per quante sguaiataggini le avevano udito dire in passato, ora la sentivano dire altrettante cose spiritosissime e piene di buon senso.
Tutta la Corte n'ebbe un'allegrezza tale da non figurarselo. Non ci fu la sorella minore, che non ne restasse contenta, perché non avendo più sulla maggiore il disopra dello spirito, faceva ora accanto a lei la figura meschinissima d'una bertuccia.
Il Re si lasciava guidare da lei, e qualche volta andava fino a tener consiglio nel suo quartiere.
La diceria di questo cambiamento essendosi sparsa all'intorno, tutti i giovani principi degli Stati vicini fecero a gara per arrivare a farsi amare, e quasi tutti la chiesero in sposa ma essa non trovava chi avesse abbastanza spirito, e faceva lo stesso viso a tutte le offerte di matrimonio, senza impegnarsi con alcuno.
Intanto se ne presentò uno così potente, così ricco, e così spiritoso e bello della persona, che ella non poté stare dal sentire una certa inclinazione per lui.
Suo padre, che se n'era avveduto, le disse che la lasciava padrona di scegliersi lo sposo a modo suo, e che non aveva da far altro che far conoscere la sua volontà.
E siccome accade che più uno ha dello spirito, e più si trova impensierito a pigliare una risoluzione stabile in certe faccende, essa, dopo aver ringraziato suo padre, domandò che le fosse dato un po' di tempo per poterci pensar sopra.
E per caso andò a passeggiare in quel bosco dove aveva incontrato Enrichetto dal ciuffo, per avere il modo di pensare comodamente alla risoluzione da prendere.
Mentr'ella passeggiava tutt'immersa ne' suoi pensieri sentì sotto i piedi un rumore sordo, come di molte persone che vadano e vengano, e si dieno un gran da fare.
Avendo teso l'orecchio con più attenzione, sentì qualcuno che diceva: "Passami codesta caldaia"; e un altro: "Metti della legna sul fuoco".
La terra si aprì in quel momento, ed ella vide sotto i suoi piedi come una gran cucina piena di cuochi, di sguatteri e d'ogni sorta di gente necessaria per allestire una gran festa. E di lì uscì fuori una schiera di venti o trenta rosticcieri, che andarono a piantarsi in un viale del bosco, intorno a una lunghissima tavola, e tutti colla ghiotta in mano e colla coda di volpe sull'orecchio si posero a lavorare a tempo di musica, sul motivo di una graziosa canzone.
La Principessa, stupita di quello spettacolo, domandò loro per chi fossero in tanto lavorìo.
"Lavoriamo", rispose il capoccia della brigata, "per il signor Enrichetto dal ciuffo, che domani è sposo."
La Principessa, sempre più meravigliata, e ricordandosi a un tratto che un anno fa, e in quello stesso giorno, aveva promesso di sposare il principe Enrichetto dal ciuffo, credé di cascare dalle nuvole. La ragione della sua dimenticanza stava in questo che, quando promise, era sempre la solita stupida, e acquistando in seguito lo spirito che il Principe le aveva dato, non si ricordava più di tutte le sue grullerie.
Non aveva fatto ancora trenta passi, seguitando la sua passeggiata, che s'imbatté in Enrichetto dal ciuffo, il quale si faceva avanti tutto sgargiante e magnifico, come un Principe che vada a nozze.
"Eccomi qui, signora", egli disse, "puntuale alla mia parola: e non ho il minimo dubbio che voi siate venuta qui per mantenere la vostra, e per far di me, col dono della vostra mano, il mortale più felice di questa terra."
"Vi confesserò francamente", rispose la Principessa, "che su questa cosa non ho presa ancora nessuna risoluzione; e ho paura che, se dovrò prenderne una, non sarà mai quella che desiderate."
"Voi mi fate stupire, o signora", disse Enrichetto dal ciuffo.
"Lo capisco", disse la Principessa, "difatti mi troverei in un grandissimo impiccio, se avessi da fare con un uomo brutale e senza spirito. Una Principessa mi ha dato la sua parola, egli mi direbbe; e una volta che mi ha promesso, bisogna bene che mi sposi. Ma poiché la persona colla quale parlo, è la persona più spiritosa di questo mondo, così sono sicura che vorrà capacitarsi della ragione. Voi sapete che anche allora, quand'ero stupida, non sapevo risolvermi a doversi sposare; e vi par egli possibile che ora, dopo tutto lo spirito che mi avete dato, e che mi ha resa di più difficile contentatura, di quel che fossi prima, possa oggi prendere una risoluzione che non sono stata buona di prendere per il passato? Se vi premeva tanto di sposarmi, avete avuto un gran torto a togliermi dalla mia stupidaggine, e a farmi aprire gli occhi, perché ci vedessi meglio d'una volta."
"Se un uomo senza spirito", rispose Enrichetto dal ciuffo, "sarebbe ben accolto, stando a quello che dite, quando venisse a rinfacciarvi la parola mancata, o perché volete che io non debba valermi degli stessi mezzi, per una cosa nella quale è riposta la felicità di tutta la mia vita? Vi pare egli ragionevole che le persone di spirito debbano trovarsi in peggiore condizione di quelle che non ne hanno? E potete pretenderlo voi? voi che ne avete tanto e che avete tanto desiderato di averne? Ma veniamo al sodo, se vi contentate. All'infuori della mia bruttezza, c'è forse in me qualche cosa che vi dispiaccia? Siete forse scontenta della mia nascita, del mio spirito, del mio carattere, delle mie maniere?"
"Tutt'altro", rispose la Principessa, "anzi, tutte le cose che avete nominate, sono appunto quelle che mi piacciono in voi."
"Quand'è così", rispose Enrichetto dal ciuffo, "sono felice, perché non sta che a voi a fare di me il più bello e il più grazioso degli uomini."
"Ma come può accader questo?", chiese la Principessa.
"Il come è facile", rispose Enrichetto dal ciuffo. "Basta che voi mi amiate tanto, da desiderare che ciò accada: e perché, o signora, non vi nasca dubbio su quello che dico, sappiate che la medesima fata, che nel giorno della mia nascita mi fece il dono di rendere spiritosa la persona che più mi fosse piaciuta, diede a voi pure quello di far diventare bello colui che amerete, e al quale vorrete far di genio e volentieri questo favore."
"Se la cosa sta come la raccontate", disse la Principessa, "vi desidero con tutto il cuore che diventiate il Principe più simpatico e più bello del mondo, e per quanto è da me, ve ne faccio pienissimo dono."
La Principessa aveva appena finito di dire queste parole, che subito Enrichetto dal ciuffo apparve ai suoi occhi il più bell'uomo della terra, e il meglio formato, e il più amabile di quanti se ne fossero mai veduti.
Vogliono alcuni che questo cambiamento avvenisse non già per gl'incanti della fata, ma unicamente per merito dell'amore. E dicono che la Principessa, avendo ripensato meglio alla costanza del suo cuore e della sua mente, non vide più le deformità personali di lui, né la bruttezza del suo viso: talché il gobbo che egli aveva di dietro, le sembrò quella specie di rotondità e di floridezza d'aspetto di chi dà nell'ingrassare: e invece di vederlo zoppicare orribilmente, come aveva fatto fino allora, le parve che avesse un'andatura aggraziata e un po' buttata su una parte, che le piaceva moltissimo. Fu detto fra le altre cose, che gli occhi di lui, che erano guerci, le parvero più brillanti; e che finisse col mettersi in testa che quel modo storto di guardare fosse il segno di un violento accesso di amore: e che perfino il naso di lui, grosso e rosso come un peperone, accennasse a qualche cosa di serio e di marziale.
Fatto sta che la Principessa gli promise, lì sul tamburo, che l'avrebbe sposato, purché ne avesse ottenuto il consenso dal Re suo padre.
Il Re, avendo saputo che la sua figlia aveva moltissima stima per Enrichetto dal ciuffo, che egli del resto conosceva per un Principe spiritosissimo e pieno di giudizio, lo accettò con piacere per suo genero.
Il giorno dipoi furono fatte le nozze, come Enrichetto dal ciuffo aveva preveduto, e a seconda degli ordini che egli medesimo aveva già dato da molto tempo prima.
Questa sembrerebbe una favola; eppure è una storia. Tutto ci par bello nella persona amata, anche i difetti: tutto ci par grazioso, anche le sguaiataggini.
La storia d'Enrichetto dal ciuffo è vecchia quanto il mondo.

traduzione di Carlo Collodi

di Charles Perrault
  



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Messaggio «LE FIABE DI CHARLES PERRAULT» 
 
Barbablù

C'era un a volta un uomo tanto ricco quando brutto.
Egli possedeva palazzi in città, ville in campagna, scuderie piene di cavalli, forzieri colmi di monete d'oro, ma aveva la barba blu, una barba che gli dava un aspetto così terribile che tutte le ragazze scappavano non appena lo vedevano.
Aveva già chiesto la mano di parecchie fanciulle, poiché desiderava sposarsi; ma tutte lo avevano rifiutato.
Tuttavia egli non si stancava e continuava a cercare moglie.
Nella sua stessa città viveva una gran dama che aveva due figlie molto belle, e Barbablù ( tutti lo chiamavano così ) ne chiese una in sposa: non gli importava se la maggiore o la minore.
La gran dama esitò: ella aveva anche due figli maschi ai quali avrebbe voluto preparare l'avvenire; ma, rimasta vedova, era caduta in povertà.
Un matrimonio con un uomo ricco come Barbablù sarebbe stato la fortuna per tutti…Non volendo forzare la volontà delle sue ragazze, le lasciò libere di accettare o no.
Ma nessuna delle due si sentiva il coraggio di compiere quel passo. Tanto più che, si diceva, Barbablù era già stato sposato altre volte, ma non si sapeva dove le sue mogli fossero andate a finire.
Allora Barbablù incominciò a coprire le due ragazze di regali: fiori,gioielli meravigliosi, le invitò insieme alla madre in una sua villa dove, per una settimana, si susseguirono feste da ballo, battute di caccia, banchetti…Infine la figlia minore concluse che quell'uomo non aveva poi la barba tanto blu…e in quattro e quattr'otto decise di sposarlo.
Le nozze furono celebrate con grande sfarzo, e la sposina si sentì molto orgogliosa quando poté mostrare alle sue amiche il meraviglioso palazzo dove abitava.
Un giorno Barbablù annunciò a sua moglie che doveva assentarsi da casa per alcuni affari. Tuttavia desiderava che nel frattempo lei si divertisse con le sue amiche, e le invitasse a palazzo:
- Ti lascio le chiavi di tutte le porte, di tutti i forzieri, di tutti gli armadi - disse togliendo di tasca un tintinnante mazzo di chiavi. - Adopera come vuoi il servizio di vasellami e le posate d'oro e d'argento; fruga nei ripostigli, saccheggia la dispensa. Ma per nessun motivo al mondo dovrai aprire la porticina che si trova in fondo alla galleria e che si apre con questa chiavetta d'oro. Guai a te se entrerai in quello stanzino: dovrai pentirtene amaramente!
Così dicendo, consegnò il mazzo di chiavi alla moglie.
Questa ebbe subito una grande curiosità di vedere che cosa si nascondesse nel misterioso stanzino.
Tuttavia promise di essere ubbidiente e di adoperare tutte le chiavi meno quella d'oro.
Barbablù salì in carrozza e partì; subito dopo la ragazza invitò sua sorella Anna e tutte le sue amiche ad andare a farle visita.
Invitò anche i due fratelli, ma questi promisero che sarebbero venuti soltanto il giorno dopo.
Il corteo delle ragazze, con la sposina in testa, percosse le sale e le gallerie del sontuoso palazzo e di continuo risuonavano degli " Oh " di meraviglia davanti alle ricchezze che venivano alla luce: tazze di diaspro e di cristallo, piatti d'oro e d'argento…Finalmente non restò più da visitare che lo stanzino in fondo alla galleria, e la sposina esitò parecchio, stingendo fra le dita la chiave d'oro…poi pensò che era meglio lasciar partire le amiche; rimasta sola, avrebbe potuto soddisfare la curiosità senza che nessuno se ne accorgesse.
Infatti, dopo i convenevoli. La sorella Anna andò a dormire al piano di sopra, e la sposina poté dirigersi senza far rumore verso la stanza misteriosa.

Infilò la chiave nella toppa, la girò dolcemente, entrò, ma…orrore!
Un grosso cespo ancora insanguinato e una scure affilata gettata sulla paglia stavano a dimostrare che in quello stanzino si entrava soltanto per morire…Ora sul ceppo ballavano i topi, ma in un angolo giacevano diversi corpi di donne: tutte con la testa tagliata.
Le mogli scomparse di Barbablù…Inorridita, la sposina si portò le mani agli occhi per non vedere più; ma in quel gesto la chiavetta le sfuggi di mano e cadde in una pozza di sangue.
La raccolse e fuggì via, dopo aver richiuso accuratamente la porta; poi si rifugiò in camera sua tremando da capo a piedi.
Guardò la chiavicina maledetta e vide che era sporca di sangue.
Subito cercò di asciugarla e di pulirla, ma non vi riuscì.
La chiave era fatata, e le macchie di sangue cancellate da una parte, ricomparivano da un'altra. Atterrita, pensava di fuggire dal palazzo, ma proprio quella notte Barbablù vi fece ritorno.
La sposina simulò di accoglierlo lietamente, ma in cuor suo si sentiva morire per la paura.
Barbablù non chiese la restituzione delle chiavi e andò a dormire senza domande, ma al mattino dopo, assumendo un piglio che non prometteva niente di buono, chiese:
-Hai adoperato la chiave che ti avevo proibito di usare? Vuoi restituirmela, ora?
La ragazza porse la chiave con mani tremanti, e Barbablù vide subito che era macchiata.
- Perché c'è del sangue su questa chiave?
- Proprio non lo so…
- Ebbene, lo so io! - gridò ferocemente l'uomo. - Tu mi hai disobbedito e sei entrata nello stanzino. Perciò vi ritornerai, e questa volta per sempre, perché io ti taglierò la testa e ti metterò a fianco delle altre donne che furono curiose come te.
La povera ragazza a quelle parole divenne pallida come una morta e si buttò in ginocchio:
- Perdonatemi! - singhiozzo. - Io non lo dirò a nessuno ciò che ho veduto.
- Tutte le donne sono pettegole così come sono curiose; solo quando ti avrò tagliato la testa, sarò veramente sicuro che non parlerai. - Vi prometto che vi obbedirò sempre! Vi prometto che non dirò una sola parola.
Barbablù ridendo sgangheratamente, disse:
- Ti ho veduto alla prova! E adesso sono stanco di ciarle: vieni con me perché la tua ultima ora è suonata.
Fece per afferrare la giovane per i capelli, ma ella si ritrasse:
- Non potete farmi morire senza che io abbia prima raccomandato la mia anima a Dio. Lasciatemi sola, affinché io possa pregare in pace.
Barbablù esitò, ma sebbene fosse un uomo crudele e feroce, non osò opporre un rifiuto.
- Va bene, - replicò. - Ti concedo un quarto d'ora di tempo: non di più. Io, intanto, andrò ad affilare la scure.
Si allontanò verso il terribile stanzino, e la povera moglie corse a svegliare la sorella Anna.
- Mia cara sorella - supplicò - sali sulla torre e guarda se vedi i nostri fratelli. Dovrebbero arrivare questa mattina. Se li vedi fa cenno che si affettino, per carità.
La sorella Anna corse subito alla finestra della torre, mentre la sposina aspettava col cuore in gola.
Nel frattempo Barbablù, che aveva finito di affilare la scure, incominciò a gridare.
- Il quarto d'ora è ormai trascorso. Affrettati a scendere: altrimenti salgo io!
- Ancora un attimo - rispose l'infelice, e chiese con ansia:
- Cara sorella Anna, non vedi nessuno?
- Nessuno - rispondeva Anna. - Vedo soltanto i ruscelli luccicare e l'erba verdeggiante.
- Hai finito si o no? Sono stanco di aspettare. Se non scendi tu,salirò io. Urlava intanto Barbablù. - Un momento, un solo momento - rispondeva la sposina piangendo. E ancora domandava :
-Sorella Anna, vedi nessuno?
- Vedo un nuvolose di polvere…Ma si tratta di pecore che vanno al pascolo.
In quel momento si udirono i passi pesanti di Barbablù che saliva le scale.
Egli spalancò la porta con un calcio, mentre la sposa chiedeva un'ultima volta:
- Sorella Anna, vedi nessuno?
- Vedo…due cavalieri…Si, si, sono proprio i nostri fratelli!
Anna si strappo la sciarpa dalle spalle e incominciò da agitarla dalla finestra facendo cenno ai due giovani di affrettarsi.
Essi irruppero nel cortile e salirono i gradini a quattro a quattro…
Appena in tempo, perché Barbablù aveva afferrato la sposa per i capelli e stava trascinandola verso l'orribile stanzino.
I giovani gli balzarono addosso con le spade sguainate, e un attimo dopo egli giaceva a terra morto, mentre la sorella con le mani ancora giunte sul cuore, non sapeva se ridere o piangere.
Poi quel terribile spavento passò, e anche Barbablù fu dimenticato, come succede sempre ai cattivi.
La moglie ereditò tutti i suoi beni, e con quelli poté regalare una dote alla sorella Anna che sposò un gentiluomo buono e ricco; aiutò i due bravi fratelli a crearsi un avvenire; Infine anche lei scelse un onesto e affettuoso marito che la consolò di tutti i dispiaceri provati con Barbablù.


Charles Perrault
  



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Messaggio «LE FIABE DI CHARLES PERRAULT» 
 
Charles Perrault Шарль Перро
«FIABE» «СКАЗКИ»
Traduzione dal francese di Tamara Gabbe e Aleksandr Fiodorov
Illustrazioni di Anatolij Itkin (Анатолий Иткин)
Casa Editrice «Macaon» Mosca 2017 (Pagine 144)
Издательство «Махаон» Москва 2017

Le fiabe di Charles Perrault (Шарль Перро, 1628-1703) da secoli sono le opere classiche ed entrano nella riserva aurea della letteratura mondiale per bambini. Ogni nuova generazione come prima è affascinato dalla bizzarra fantasia del celebre autore. I migliori pittori e illustravano le sue storie magiche. Anatolij Itkin (Анатолий Иткин) è un noto pittore e illustratore russo, il fine maestro delle illustrazioni per libri che ha fatto tutta la galleria dei personaggi della letteratura classica. Anatolij Itkin ha raffigurato dei personaggi delle fiabe di Charles Perrault, vestiti nei costumi dell’epoca del re francese Luigi XIV di Borbone, detto il Re Sole («Le Roi Soleil») o Luigi il Grande (1638-1715). È un ponte al paese meraviglioso, dove vivono le varie principesse e le diverse fate, i malvagi stregoni e i veri prodi.  

  

Charles Perrault 1.jpg
Descrizione: Charles Perrault «FIABE»
Traduzione dal francese di Tamara Gabbe e Aleksandr Fiodorov
Illustrazioni di Anatolij Itkin
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Descrizione: Charles Perrault «FIABE»
Traduzione dal francese di Tamara Gabbe e Aleksandr Fiodorov
Illustrazioni di Anatolij Itkin
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Descrizione: Charles Perrault «FIABE»
Traduzione dal francese di Tamara Gabbe e Aleksandr Fiodorov
Illustrazioni di Anatolij Itkin
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Zarevich
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«ШАРЛЬ ПЕРРО» «CHARLES PERRAULT»
Charles Perrault è nato il 12 gennaio 1628. Non si è laureato all'università, non ha usato la licenza di avvocato acquistata, ma ha scoperto in se stesso un dono letterario ed è riuscito a indirizzarlo nella giusta direzione. L'ode, dedicata al matrimonio di Luigi XIV, aiutò lo scrittore a salire ai piedi del trono, entrare nella cerchia ristretta del «re sole» e diventare l'assistente personale di Jean Colbert, che allora era primo ministro ad interim di Francia. Perrault era il segretario dell'Accademia francese di belle arti, supervisionava la letteratura, si assicurava rigorosamente che scrittori e poeti lodassero adeguatamente il monarca e disponeva di un sostanzioso fondo monetario che aiutava a regolare il livello di lode. In molti modi, sotto la sua guida, il Louvre fu rinnovato e fu portata avanti la costruzione di Versailles. Certo, ha composto anche il funzionario culturale francese, ma le sue poesie e odi sono quasi completamente scomparse nel corso dei secoli. E Charles Perrault ha iniziato a scrivere fiabe quando era in pensione. Non la considerava una grande letteratura e ha persino firmato la prima raccolta con il nome di suo figlio. La storia può essere imprevedibile: oggigiorno poche persone ricordano Perrot il politico. Ma la cultura mondiale non può essere immaginata senza «I racconti di mamma oca»: dramma, musica, teatro, cinema sarebbero molto più noiosi senza «Il gatto con gli stivali», «Cappuccetto rosso», «Cenerentola» e «La bella addormentata».

  




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Zarevich
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