AL GOVERNO DELL’URSS
Da Michail Afanas’evič Bulgakov
(Mosca, B. Pirogvskaja, 35-a, int. 6)
Mi rivolgo con la seguente lettera al Governo dell’URSS:
1.
Dopo che le mie opere sono state proibite, tra molti cittadini ai quali è nota la mia attività di scrittore hanno cominciato a diffondersi voci che mi hanno tutte date lo stesso consiglio:
Scrivere “un dramma comunista” (tra virgolette riporto le citazioni), e inoltre rivolgermi al Governo dell’URSS con una lettera di pentimento nella quale dovrei rinnegare le idee espresse nelle mie precedenti opere letterarie e assicurare che d’ora in poi lavorerò come scrittore compagno di strada, fedele all’idea del comunismo.
Lo scopo: salvarmi dalle persecuzioni, dalla miseria e dall’inevitabile rovina finale.
Non ho seguito questo consiglio. Non credo che avrei potuto comparire in una luce favorevole di fronte al Governo dell’URSS scrivendo una lettera falsa, che avrebbe costituito un voltafaccia politico disgustoso oltreché ingenuo. Quanto al dramma comunista, non ho neppure provato a scriverlo, sapendo in partenza che non ci sarei riuscito.
Il desiderio maturato in me di porre fine al mio supplizio di scrittore mi induce a rivolgermi al Governo dell’URSS con una lettera sincera.
2.
Passando in rassegna i miei di ritagli di giornali ho constatato di aver ricevuto dalla stampa sovietica, nei dieci anni della mia attività letteraria, 301 recensioni, di cui 3 favorevoli e 298 ostili e ingiuriose.
Aleksej Turbin, protagonista del mio dramma
I giorni dei Turbin è stato definito in versi sulla stampa un “FIGLIO DI CANE”, mentre l’autore è stato presentato come un “VECCHIO CANE rimbecillito dall’età”. Hanno scritto di me come di uno “SPAZZINO della letteratura”, che raccatta gli avanzi “VOMITATI da una dozzina di commensali”.
Hanno scritto:
“… MICHELACCIO Bulgakov, mio compare e, SCUSATE LA PAROLA, SCRITTORE, fruga NELLA VECCHIA IMMONDIZIA… Che razza di MUSO hai fratellino… Io sono una persona gentile, però BISOGNEREBBE ROMPERTI UN VASO IN TESTA… Avevamo bisogno dei Turbin come UN CANE HA BISOGNO DEL REGGISENO… E invece TURBIN è saltato fuori, QUEL FIGLIO DI CANE, CHE NON ABBIA NÉ SUCCESSO NÉ INCASSI…” (
Žizn’ ISKUSSTVA, n° 44-1927).
Hanno scritto “Di Bulgakov, che rimane quello che era, RAZZA NEOBORGHESE, e schizza la sua saliva velenosa ma impotente sulla classe operaia e sui suoi ideali comunisti”. (
Komsomol’skaja Pravda, 14/X-1926).
Hanno affermato che mi piace “L’ATMOSFERA DA ACCOPPIAMENTI CANINI che aleggia intorno alla rossa moglie di un amico”, (A. Lunačarskij,
Izvestija, 8/X-1926), e che il mio dramma I giorni dei Turbin “PUZZA”, (resoconto stenografico di una riunione dell’Agitprop. Maggio 1927), e così via…
Mi affretto a precisare che non sto a riportando questi giudizi per lamentarmi delle critiche o comunque per entrare in polemica. Il mio scopo è molto più serio.
Intendo provare, documenti alla mano, come tutta la stampa dell’URSS, e con essa tutti gli organismi preposti al controllo del repertorio, durante l’intero arco della mia attività letteraria, all’unanimità e CON STRAORDINARIO ACCANIMENTO, abbiano dimostrato che le opera di Michail Bulgakov nell’URSS non possono esistere.
E io dichiaro che la stampa dell’URSS HA PERFETTAMENTE RAGIONE.
3.
Lo spunto per questa lettera mi è fornito dal mio pamphlet L’isola purpurea.
Tutta la critica sovietica, senza esclusione, ha definito quest’opera “insulsa, debole, meschina” … “una pasquinata contro la rivoluzione”.
L’unanimità si è rotta all’improvviso e in modo sorprendente.
Sul n° 12 del
Repertuarnyj Bjulleten’ (1928) è apparsa una recensione di P. Novickij che definisce
L’isola purpurea “una parodia interessante e acuta” sulla quale “incombe l’ombra funesta del Grande Inquisitore, oppressore dell’arte, fautore di STEREOTIPI DRAMMATICI SERVILI E ASSURDI, DA LECCAPIEDI, che mortificano la personalità dell’attore e dell’autore”, e parla inoltre, a commento de
L’isola purpurea, di “un’oscura forza malefica che educa ILOTI, LECCAPIEDI E PANEGIRISTI…”.
Novickij dice che “se questa oscura forza esiste, ALLORA SONO GIUSTIFICATI LO SDEGNO E IL FEROCE SARCASMO DI QUESTO DRAMMATURGO IDOLATRATO DALLA BORGHESIA”.
Mi sia consentito chiedere — qual è la verità?
Che cos’è, in definitiva,
L’isola purpurea? “Una commedia meschina e insulsa” o “un acuto pamphlet”?
La verità sta nella recensione di Novickij. Non posso giudicare sino a che punto la mia commedia sia acuta, ma riconosco che davvero su di essa incombe l’ombra funesta del Comitato Generale per il Repertorio. Proprio questo Comitato educa gli iloti, i panegiristi, i “servitori” impauriti. Proprio il Comitato uccide il pensiero creativo, soffoca il teatro sovietico e lo annienterà definitivamente.
Queste idee io non le ho mormorate in un angolo. Le ho portate sulla scena in forma di pamphlet teatrale. La stampa sovietica, insorta a difesa del Glavrepertkom, ha scritto che
L’isola purpurea è una pasquinata contro la rivoluzione. Ciò è del tutto privo di senso. La commedia non è una pasquinata contro la rivoluzione per una serie di motivi ma, per brevità, ne indicherò uno solo: scrivere una pasquinata sulla rivoluzione È IMPOSSIBILE, data la straordinaria grandiosità dell’evento. Un pamphlet non è una pasquinata e il Glavrepertkom non è la rivoluzione.
Ma quando la stampa tedesca afferma che
L’isola purpurea è “il primo appello alla libertà di stampa nell’URSS” (
Molodaja Gvardija, n° 1-1929), dice la verità. Questo lo riconosco. La lotta contro la censura, qualunque essa sia, e sotto qualunque potere, è un mio dovere di scrittore, così come gli appelli alla libertà di stampa. Sono un appassionato sostenitore di questa libertà e suppongo che, se un qualsiasi scrittore pensasse di dimostrare che a lui non è necessaria, sarebbe come un pesce che dichiarasse pubblicamente di poter fare a meno dell’acqua.
4.
Ecco dunque una delle caratteristiche della mia opera, già più che sufficiente di per se stessa a far sì che i miei lavori nell’URSS non possano esistere. Ma ad essa sono collegati gli altri elementi presenti nei miei racconti satirici: le tinte cupe e mistiche (io SONO UNO SCRITTORE MISTICO), di cui mi servo per rappresentare le innumerevoli mostruosità della nostra vita quotidiana, il veleno di cui è intrisa la mia lingua, il profondo scetticismo nei confronti del processo rivoluzionario in atto nel mio arretrato paese, processo al quale contrappongo e preferisco una Grande Evoluzione e, soprattutto, la raffigurazione di alcune terribili caratteristiche del mio popolo, le stesse che, prima della rivoluzione, furono causa di profonde sofferenze per il mio maestro M.E. Saltykov-Ščedrin.
Inutile dire che la stampa sovietica non ha neppure pensato di notare seriamente tutto questo, impegnata com’era a diffondere poco credibili giudizi sulle “CALUNNIE” contenute nella satira di M. Bulgakov.
Soltanto una volta, quando il mio nome cominciava appena a farsi conoscere, fu notato con una punta di altezzoso stupore:
“M. Bulgakov VUOLE diventare il satirico della nostra epoca (
Knigonoša, n° 6-1925).
Ahimé, il verbo “volere” è erroneamente usato al presente, mentre bisognava volgerlo al passato: M. Bulgakov È DIVENTATO UNO SCRITTORE SATIRICO proprio in un tempo in cui ogni autentica satira (che affondi in zone proibite) nell’URSS era assolutamente impensabile.
Non è toccato a me l’onore di esprimere sulla stampa questo concetto criminale. Lo ha fatto, con esemplare chiarezza, V. Bljum, in un articolo (
Literaturnaja gazeta, n° 6) il cui senso è racchiuso, con brillante precisione, in una sola formula:
OGNI SCRITTORE SATIRICO NELL’URSS ATTENTA ALL’ORDINE SOVIETICO.
Posso io esistere nell’Unione Sovietica?
5.
E infine l’ultimo tratto distintivo dei miei lavori stroncati, i drammi
I giorni dei Turbin e La corsa e il romanzo La guardia bianca: una ostinata rappresentazione dell’
intelligencija russa come la componente migliore della nostra società. In particolare la rappresentazione di una famiglia di intellettuali della piccola nobiltà, gettata da un’ineluttabile fatalità storica nel campo dei bianchi, negli anni della guerra civile, nella tradizione di Guerra e pace. Una rappresentazione del genere è assolutamente naturale per uno scrittore che abbia legami di sangue con l’
intelligencija.
Ma nell’URSS tali rappresentazioni assicurano all’autore, assimilato ai sui personaggi malgrado egli si sforzi di RIMANERE IMPARZIALE FRA ROSSI E BIANCHI, l’attestato di membro della guardia bianca, cioè di nemico. E una volta bollato con questo marchio è chiaro che nell’URSS egli si può considerare un uomo finito.
6.
Si conclude così il mio ritratto letterario, che è anche un ritratto politico. Non saprei dire quale grave delitto vi si possa scoprire, ma una sola cosa vorrei chiedere: che non si cerchi nulla al di là di ciò che ho esposto in tutta coscienza.
7.
Adesso sono stato annientato.
Il mio annientamento è stato accolto dall’opinione pubblica sovietica con piena soddisfazione e viene definito un “SUCCESSO”.
R. Pikel0, commentando il mio annientamento (
Izvestija, 15/IX-1929), ha espresso un pensiero liberale:
“Con ciò non intendiamo dire che il nome di Bulgakov sia stato cancellato dalla lista dei drammaturghi sovietici”.
E ha voluto lasciare qualche speranza allo scrittore sgozzato aggiungendo che “il provvedimento riguarda soltanto le sue opere teatrali passate”.
Tuttavia la realtà, cioè il Comitato Generale per il Repertorio, ha dimostrato che il liberalismo di R. Pikel’ è privo di ogni fondamento.
Il 18 marzo 1930 ho ricevuto dal Glavrepertkom la laconica comunicazione che È STATA PROIBITA LA RAPPRESENTAZIONE non di un mio vecchio lavoro, ma del nuovo
La cabala dei bigotti (
Molière).
Detto in breve: sotto due righe di linguaggio burocratico sono stati sepolti il lavoro nelle biblioteche, la mia fantasia e un’opera che aveva ricevuto da qualificati esperti di teatro innumerevoli giudizi positivi — un lavoro brillante.
R. Pikel’ si sbaglia. Sono stati distrutti non soltanto i miei lavori passati, ma anche quelli presenti e futuri. Io stesso, con le mie mani, ho gettato nella stufa le bozze di un romanzo sul diavolo, di una commedia e l’inizio di un secondo romanzo,
Il teatro.
Per le mie opere non c’è speranza.
8.
Chiedo al Governo Sovietico di considerare il fatto che io non sono un uomo politico ma un letterato e che ho dato tutta la mia produzione teatrale alle scene sovietiche.
Desidero richiamare l’attenzione sui seguenti due giudizi sul mio conto, apparsi sulla stampa sovietica.
Entrambi provengono da implacabili nemici delle mie opere, per questo sono molto importanti.
Nel 1925 è stato scritto:
“È apparso uno scrittore CHE NON SI PRESENTA NEPPURE SOTTO I COLORI DEI COMPAGNI DI STRADA” (L. Averbach,
Izvestija, 20/IX-1925).
E nel 1929:
“Il suo talento è evidente, tanto quanto la natura socialmente reazionaria della sua arte”. (R. Pikel’,
Izvestija, 15/IX-1929).
Prego di considerare che per me l’impossibilità di scrivere equivale a una sepoltura da vivo.
9.
CHIEDO AL GOVERNO DELL’URSS CHE MI SIA ORDINATO DI LASCIARE CON URGENZA IL TERRITORIO SOVIETICO INSIEME CON MIA MOGLIE LJUBOV’ EVGEN’EVNA BULGAKOVA.
10.
Faccio appello allo spirito umanitario del potere sovietico e chiedo di essere, con magnanimità, lasciato libero, come scrittore che in patria non può più essere utile.
11.
Se ciò che ho scritto non risulterà convincente e io rimarrò condannato al silenzio a vita in URSS, chiedo al Governo Sovietico di assegnarmi un lavoro consono alla mia specializzazione e di destinarmi a un teatro in qualità di regista di ruolo.
Chiedo espressamente UN ORDINE TASSATIVO, UNA DESTINAZIONE D’UFFICIO, poiché tutti i miei tentativi di trovare un lavoro nell’unico campo in cui posso essere utile all’URSS, come specialista altamente qualificato, sono miseramente falliti. Il mio nome è diventato talmente odioso che le mie domande di lavoro hanno suscitato addirittura SPAVENTO, sebbene a Mosca un gran numero di attori, registi e direttori di teatro conosca benissimo le mie eccellenti doti in campo teatrale.
Offro all’URSS la collaborazione di uno specialista — regista e attore — assolutamente onesto, insospettabile di sabotaggio, pronto a mettere in scena qualsiasi lavoro, da quelli shakespeariani ai contemporanei.
Chiedo di essere assegnato come aiuto-regista al 1° Teatro d’Arte, la migliore scuola, diretta dai maestri K. S. Stanislavskij e V. I. Nemirovič-Dančenko.
Se non mi verrà accordato di lavorare come regista, chiedo di essere assunto come comparsa. Se neppure questo mi sarà consentito, chiedo di poter fare l’assistente di scena.
Se neppure questo è possibile, chiedo al Governo Sovietico di agire nei miei confronti come ritenga necessario, ma di agire in qualche modo, poiché IN QUESTO MOMENTO io, drammaturgo autore di cinque lavori teatrali, noto nell’URSS e all’estero, ho davanti a me la miseria, la strada e la rovina.
Mosca
28 marzo 1930
M. Bulgakov
Una ventina di giorni dopo la spedizione di questa lettera vi fu la famosa telefonata di Stalin a Bulgakov. Ecco come Ljubov’ Evgenievna, seconda moglie dello scrittore, ricordò questo episodio nelle sue memorie, scritte verso la fine degli anni ’60. “… Andai io a rispondere al telefono. Era Tovstucham il segretario di Stalin, dal Comitato Centrale del Partito. Chiamai Michail Afanas’evič e continuai le mie faccende domestiche. Michail Afanas’evič prese il ricevitore e subito esclamò: «Ljubaša!» con voce così forte e nervosa che io mi precipitai al telefono (che aveva una cuffia di derivazione). Sono sicuramente l’unica ad aver ascoltato questo dialogo.
All’altro capo c’era Stalin. Parlava con voce un po’ sorda, con un chiaro accento georgiano, e si nominava in terza persona. Chiese a Bulgakov: «Desiderate forse lasciare il paese?» […] Ma Michail Afanas’evič preferì rimanere nell’URSS”
La terza moglie di Bulgakov ,Elena Sergeevna, nelle sue memorie (1956) fornì di questo episodio una descrizione più particolareggiata.
“Il 18 aprile, verso le 6-7 di sera arrivò a casa nostra (mia e di mio marito E. A. Šilovskij) nel vicolo Bol’šoj Rževskij; era agitato, e raccontò quanto segue. Come sempre dopo pranzo era andato a riposare, ma improvvisamente squillò il telefono e Ljuba lo chiamò dicendo che dal Comitato Centrale chiedevano di lui. Michail Afanas’evič non vi credette, pensava che fosse uno scherzo (allora queste cose si facevano), arruffato e irritato, afferrò il ricevitore e udì:
— Michail Afanas’evič Bulgakov?
— Sì, sì.
— Adesso parlerà con Voi il compagno Stalin.
— Chi? Stalin? Stalin?
E subito udì una voce dal forte accento georgiano:
— Sì, parla Stalin. Salve, compagno Bulgakov (o Michail Afanas’evič, non ricordo esattamente).
— Salve, Iosif Vissarionovič.
— Abbiamo ricevuto la Vostra lettera. L’abbiamo letta coi compagni. Riceverete una risposta positiva… Ma davvero volete lasciare il paese? Vi siamo venuti tanto a noia?
Michail Afanas’evič disse che questa domanda era giunta per lui così inattesa (come del resto la telefonata stessa), che rimase per un attimo interdetto, quindi rispose:
— Ho riflettuto molto negli ultimi tempi, se uno scrittore russo possa vivere fuori dalla patria. E ritengo che non possa.
— Avete ragione. Anch’io la penso così. Dove volete lavorare? Al Teatro d’Arte?
— Sì, mi piacerebbe. Ma, l’ho già detto, non mi è stato permesso.
— Presentate domanda. Credo che acconsentiranno. Dovremmo incontrarci e parlare.
— Sì, sì Iosif Vissarionovič, ho molto bisogno di parlare con Voi.
— Sì, dobbiamo trovare il tempo di incontrarci, assolutamente. Per ora Vi auguro ogni bene.”
In un’intervista radiofonica rilasciata nel 1967, Elena Sergeevna diede una versione leggermente diversa del colloquio, senza la promessa, da parte di Stalin, di un incontro:
“Stalin disse: «I compagni e io abbiamo ricevuto la Vostra lettera, avrete una risposta positiva.» Poi, dopo un breve silenzio aggiunse: «Ma davvero dobbiamo lasciarVi andare all’estero? Vi siamo venuti tanto a noia?»
Era una domanda inattesa. Ma Michail Afanas’evič rispose subito: «Ho riflettuto a lungo, e ho capito che uno scrittore russo non può vivere fuori dalla patria». Stalin disse: «Anch’io la penso così. Dunque, andrete a lavorare in un teatro?» «Sì, mi piacerebbe.» «Ma in quale?» «Al Teatro d’Arte. Ma non mi prendono.» Stalin disse: «Presentate domanda ancora una volta. Credo che Vi accetteranno…»
Mezz’ora dopo telefonarono dal Teatro d’Arte: Michail Afanas’evič fu assunto.”