Dall’ Orlando furioso di Ludovico Ariosto ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni per finire con Il nome Dall’ Dall'Orlando furioso di Ludovico Ariosto ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni per finire con Il nome della rosa e altri 11 libri di Umberto Eco, è a Elena Aleksandrovna Kostioukovitch che i lettori russi devono la conoscenza di molti classici italiani. Mentre in Italia è a lei che si devono le collane russe di Bompiani e Frassinelli e la diffusione di autori come Ljudmila Ulitskaya o Boris Akunin.
Signora Kostioukovitch, Lei è tra quanti decidono quali autori italiani debbano leggere i russi e quali autori russi gli italiani. Che rapporto hanno gli italiani con la letteratura russa?
In Italia vi è una grande curiosità per la letteratura russa, ma nessuno, ad eccezione degli slavisti, la conosce perché è opinione diffusa che esista, ma che la si tenga nascosta. Perciò la si va a cercare in Siberia, nelle ex repubbliche sovietiche, tra la diaspora russa, nell’underground o in rete. I “talent scout” italiani si dannano per scovare scrittori russi inesistenti. Ora, per esempio, tra questi nuovi autori fintorussi sono di moda due scrittori sotto i cui pseudonimi russi si nascondono un noto banchiere italiano e un immigrato moldavo che scrive in italiano.
Dove sta, a suo avviso, il confine tra un libro di successo e un libro di qualità?
Un libro di successo può essere anche un buon libro e un libro di qualità può diventare un libro di successo. Il confine tra letteratura e non letteratura si può solo intuire. A volte si rimane storditi di fronte a certe opere trash e demenziali salvo poi accorgersi che si tratta di parodie e quindi di letteratura. Oppure capita di trovarsi di fronte a un testo pulito, ben costruito e si capisce solo dopo che si tratta invece di un calco, di un simulacro senza un goccia di sangue e senza vita. E non di vera letteratura. Ed evito di soffermarmi sulle bancarelle e sulle librerie russe che traboccano della paccottiglia pubblicata da tanti finti scrittori per i quali non vale neppure la pena interrogarsi se si tratti di vera letteratura o meno, ma che fanno inorridire al pensiero di quanta cartaccia si stampi nelle tipografie.
Le opere letterarie si scrivono da migliaia di anni e le trame, le idee, i procedimenti narrativi si ripetono sempre uguali, ma a volte appare una una personalità luminosa e tutti cominciano a parlare di un nuovo caso letterario. Qual è stata l’ultima volta che le è capitato d’imbattersi in un caso letterario?
Credo che si possa parlare di casi letterari solo quando si manifesta una lingua letteraria nuova. Lei afferma che nella letteratura si narrano sempre le stesse storie, certo, è così, ma il linguaggio usato per incarnare queste storie si reinventa ogni volta. E talvolta accade che questo linguaggio risulti incredibilmente inedito e fresco e che anche vetusti procedimenti stilistici vengano combinati in modo da risultare incredibilmente freschi ed efficaci. Un esempio di questi straordinari raggiungimenti linguistici e culturali è nel mio ricordo l’opera di Dmitrij Prigov nella quale, grazie a una geniale alchimia combinatoria, da dense stratificazioni linguistiche e culturali scaturiscono significati inediti.
Lei collabora con Umberto Eco da oltre vent’anni. Gli ha mai segnalato qualche autore russo?
Come la maggior parte degli italiani, anche Eco non conosce molto della letteratura russa dopo Dostoevskij. I suoi contatti sono casuali ed episodici. Nell’adolescenza, da quel che racconta, amava la prosa di Merezhkovskij. Ora con l’età tende a leggere sempre meno narrativa e sempre più saggistica e letteratura scientifica. Tanto per fare un esempio, Lur’e e Lotman Eco li ha letti e apprezzati e ha anche letto i Protocolli dei Savi di Sion per il suo nuovo romanzo, Il cimitero di Praga , che ora sto traducendo.
Anche se dai Protocolli non è difficile intuire quale sia il tema del romanzo, non posso fare a meno di chiederle di che cosa tratta.
Il romanzo narra di come si fabbrica un falso che poi diventa più reale della realtà vera fino a diventare il pretesto per lo sterminio di milioni di persone. I Protocolli così amati dalle nostre Centurie nere divennero il fondamento della dottrina di Hitler e ispirano ancora oggi l’antisemitismo.
Un traduttore trasforma il testo originale?
Un traduttore deve inventare la lingua del suo autore. Sceglie dal suo vocabolario sterminato il lessico più adeguato, preferendo determinate costruzioni grammaticali ad altre, ma soprattutto, ricreando e riorchestrando il ritmo della prosa per seguire solo poi consapevolmente o intuitivamente la linea traduttiva trovata. Forse anch’io, lavorando da venticinque anni sui testi di Eco, ho ormai elaborato degli automatismi selettivi e ho dato forma a una “lingua echiana”.
Oggi si sta pensando di creare in Russia un Istituto di traduzione. Dovrebbe trattarsi di una fondazione che ha lo scopo di promuovere la traduzione di opere letterarie non commerciali e di qualità i cui diritti editoriali senza sovvenzioni non verrebbero altrimenti acquistati. A suo avviso, a quali condizioni l’azione dell’Istituto di traduzione potrebbe rivelarsi valida? E quali dovrebbero essere a suo parere i suoi compiti?
Ritengo che per i traduttori la prima condizione imprescindibile sia quella di poter lavorare senza fretta per potere svolgere in modo adeguato ed esaustivo e non approssimativo il proprio compito. Occorre liberare i traduttori dalla fatica della quotidiana lotta per la sopravvivenza e aiutarli a trovare una dimensione di solitudine e di pace, agevolarli nel loro lavoro di ricerca culturologica (nelle aree linguistische di riferimento), fornendo loro i supporti necessari alla creazione linguistica. Per i traduttori poter viaggiare per luoghi simili a quelli letterari del passato nei paesi delle lingue da cui traducono sarebbe il paradiso, così come sarebbe un’esperienza straordinaria soggiornare uno o due mesi senza problemi nel paese di cui hanno studiato la lingua e visitare quando è necessario i luoghi descritti nei libri da tradurre. Ritengo che il compito principale della fondazione dovrebbe essere quello di finanziare questi soggiorni in speciali residenze-club letterari di proprietà della fondazione stessa.
Lei ha scritto un libro sulla filosofia della cucina italiana e sulle sue peculiarità locali. Anche lo spazio culturale è una sorta di brodo nutritivo (o forse non troppo nutritivo) le cui caratteristiche si differenziano da luogo a luogo. Lei è una dei pochi in grado di confrontare lo spazio culturale della Russia con quello dell’Italia. Quali fattori, a suo avviso, incidono sull’efficacia e sull’atmosfera di tale spazio?
L’atmosfera di uno spazio geografico è definita dal suo clima. I paesi mediterranei possiedono un’eccezionale cultura culinaria perché il clima lì è mite e cresce di tutto. Quando tutto cresce così facilmente, la gente ha un carattere più facile e molto più tempo libero a disposizione. E quando il tempo libero è tanto fioriscono anche arte, design e moda. Ecco perché in Italia è così importante l’immediato e perché l’Italia è un bel paese dove si mangia bene. Mentre in Russia dove nevica eternamente e le strade sono eternamente in cattivo stato la gente sta chiusa in casa (o dentro un ingorgo) e pensa all’eternità. Perciò in Russia tutto appare problematico, complesso e profondo. E intriso di spiritualità.
Non starà facendo dell’ironia? La neve e le cattive condizioni delle strade agevolerebbero la spiritualità?
Mah, non saprei… Il caldo e le mosche erano d’aiuto a Pushkin nell’autunno di Boldino, dove, a quanto pare, faceva molto caldo. Pushkin non poteva andare da nessuna parte, non a causa degli ingorghi, ma a causa del colera.
Lei insegna cultura russa e teoria e pratica della traduzione letteraria all’Università di Milano, che cosa dice per prima cosa ai suoi studenti che si accingono a studiare la materia? Quali sono gli aspetti che suscitano più stupore (interesse o timore) negli studenti italiani?
Dico loro che bisogna studiare tutti gli stereotipi (dalla matrjoshka alla Cecenia) per evitare qualsiasi banalizzazione.
E qual è per lei lo stereotipo più esasperante?
Quello secondo il quale i russi non soffrirebbero il freddo. In realtà è tutto il contrario: in Russia per difendersi dal gelo è inevitabile coprirsi molto, mentre in Occidente è normale a qualunque temperatura andarsene per strada a capo scoperto e senza calze.
Ritiene che sia possibile una convivenza pacifica tra persone di culture profondamente diverse? Che cosa ha più a cuore, l’integrazione o la differenza?
Non soltanto la ritengo possibile, ma sono testimone della trasformazione in atto in Italia. Da paese monoetnico l’Italia si è trasformata sotto i miei occhi in un paese multietnico dove tutte le razze convivono pacificamente. Gli ottusi sciovinisti della “Lega Nord” suonano le loro fanfare e pretendono di ripulire l’Italia dagli stranieri. Tuttavia sarebbero i primi a terrorizzarsi se la forza lavoro straniera impiegata nei servizi, nell’industria e nell’agricoltura dovesse scomparire.
Persone di tutte le razze e di tutti i colori convivono piuttosto in armonia. I fatti parlano da soli, il processo d’integrazione è destinato a migliorare e mi ritengo anch’io in certo qualmodo un modello di questa integrazione.
Signora Kostioukovitch, Lei è tra quanti decidono quali autori italiani debbano leggere i russi e quali autori russi gli italiani. Che rapporto hanno gli italiani con la letteratura russa?
In Italia vi è una grande curiosità per la letteratura russa, ma nessuno, ad eccezione degli slavisti, la conosce perché è opinione diffusa che esista, ma che la si tenga nascosta. Perciò la si va a cercare in Siberia, nelle ex repubbliche sovietiche, tra la diaspora russa, nell’underground o in rete. I “talent scout” italiani si dannano per scovare scrittori russi inesistenti. Ora, per esempio, tra questi nuovi autori fintorussi sono di moda due scrittori sotto i cui pseudonimi russi si nascondono un noto banchiere italiano e un immigrato moldavo che scrive in italiano.
Dove sta, a suo avviso, il confine tra un libro di successo e un libro di qualità?
Un libro di successo può essere anche un buon libro e un libro di qualità può diventare un libro di successo. Il confine tra letteratura e non letteratura si può solo intuire. A volte si rimane storditi di fronte a certe opere trash e demenziali salvo poi accorgersi che si tratta di parodie e quindi di letteratura. Oppure capita di trovarsi di fronte a un testo pulito, ben costruito e si capisce solo dopo che si tratta invece di un calco, di un simulacro senza un goccia di sangue e senza vita. E non di vera letteratura. Ed evito di soffermarmi sulle bancarelle e sulle librerie russe che traboccano della paccottiglia pubblicata da tanti finti scrittori per i quali non vale neppure la pena interrogarsi se si tratti di vera letteratura o meno, ma che fanno inorridire al pensiero di quanta cartaccia si stampi nelle tipografie.
Le opere letterarie si scrivono da migliaia di anni e le trame, le idee, i procedimenti narrativi si ripetono sempre uguali, ma a volte appare una una personalità luminosa e tutti cominciano a parlare di un nuovo caso letterario. Qual è stata l’ultima volta che le è capitato d’imbattersi in un caso letterario?
Credo che si possa parlare di casi letterari solo quando si manifesta una lingua letteraria nuova. Lei afferma che nella letteratura si narrano sempre le stesse storie, certo, è così, ma il linguaggio usato per incarnare queste storie si reinventa ogni volta. E talvolta accade che questo linguaggio risulti incredibilmente inedito e fresco e che anche vetusti procedimenti stilistici vengano combinati in modo da risultare incredibilmente freschi ed efficaci. Un esempio di questi straordinari raggiungimenti linguistici e culturali è nel mio ricordo l’opera di Dmitrij Prigov nella quale, grazie a una geniale alchimia combinatoria, da dense stratificazioni linguistiche e culturali scaturiscono significati inediti.
Lei collabora con Umberto Eco da oltre vent’anni. Gli ha mai segnalato qualche autore russo?
Come la maggior parte degli italiani, anche Eco non conosce molto della letteratura russa dopo Dostoevskij. I suoi contatti sono casuali ed episodici. Nell’adolescenza, da quel che racconta, amava la prosa di Merezhkovskij. Ora con l’età tende a leggere sempre meno narrativa e sempre più saggistica e letteratura scientifica. Tanto per fare un esempio, Lur’e e Lotman Eco li ha letti e apprezzati e ha anche letto i Protocolli dei Savi di Sion per il suo nuovo romanzo, Il cimitero di Praga , che ora sto traducendo.
Anche se dai Protocolli non è difficile intuire quale sia il tema del romanzo, non posso fare a meno di chiederle di che cosa tratta.
Il romanzo narra di come si fabbrica un falso che poi diventa più reale della realtà vera fino a diventare il pretesto per lo sterminio di milioni di persone. I Protocolli così amati dalle nostre Centurie nere divennero il fondamento della dottrina di Hitler e ispirano ancora oggi l’antisemitismo.
Un traduttore trasforma il testo originale?
Un traduttore deve inventare la lingua del suo autore. Sceglie dal suo vocabolario sterminato il lessico più adeguato, preferendo determinate costruzioni grammaticali ad altre, ma soprattutto, ricreando e riorchestrando il ritmo della prosa per seguire solo poi consapevolmente o intuitivamente la linea traduttiva trovata. Forse anch’io, lavorando da venticinque anni sui testi di Eco, ho ormai elaborato degli automatismi selettivi e ho dato forma a una “lingua echiana”.
Oggi si sta pensando di creare in Russia un Istituto di traduzione. Dovrebbe trattarsi di una fondazione che ha lo scopo di promuovere la traduzione di opere letterarie non commerciali e di qualità i cui diritti editoriali senza sovvenzioni non verrebbero altrimenti acquistati. A suo avviso, a quali condizioni l’azione dell’Istituto di traduzione potrebbe rivelarsi valida? E quali dovrebbero essere a suo parere i suoi compiti?
Ritengo che per i traduttori la prima condizione imprescindibile sia quella di poter lavorare senza fretta per potere svolgere in modo adeguato ed esaustivo e non approssimativo il proprio compito. Occorre liberare i traduttori dalla fatica della quotidiana lotta per la sopravvivenza e aiutarli a trovare una dimensione di solitudine e di pace, agevolarli nel loro lavoro di ricerca culturologica (nelle aree linguistische di riferimento), fornendo loro i supporti necessari alla creazione linguistica. Per i traduttori poter viaggiare per luoghi simili a quelli letterari del passato nei paesi delle lingue da cui traducono sarebbe il paradiso, così come sarebbe un’esperienza straordinaria soggiornare uno o due mesi senza problemi nel paese di cui hanno studiato la lingua e visitare quando è necessario i luoghi descritti nei libri da tradurre. Ritengo che il compito principale della fondazione dovrebbe essere quello di finanziare questi soggiorni in speciali residenze-club letterari di proprietà della fondazione stessa.
Lei ha scritto un libro sulla filosofia della cucina italiana e sulle sue peculiarità locali. Anche lo spazio culturale è una sorta di brodo nutritivo (o forse non troppo nutritivo) le cui caratteristiche si differenziano da luogo a luogo. Lei è una dei pochi in grado di confrontare lo spazio culturale della Russia con quello dell’Italia. Quali fattori, a suo avviso, incidono sull’efficacia e sull’atmosfera di tale spazio?
L’atmosfera di uno spazio geografico è definita dal suo clima. I paesi mediterranei possiedono un’eccezionale cultura culinaria perché il clima lì è mite e cresce di tutto. Quando tutto cresce così facilmente, la gente ha un carattere più facile e molto più tempo libero a disposizione. E quando il tempo libero è tanto fioriscono anche arte, design e moda. Ecco perché in Italia è così importante l’immediato e perché l’Italia è un bel paese dove si mangia bene. Mentre in Russia dove nevica eternamente e le strade sono eternamente in cattivo stato la gente sta chiusa in casa (o dentro un ingorgo) e pensa all’eternità. Perciò in Russia tutto appare problematico, complesso e profondo. E intriso di spiritualità.
Non starà facendo dell’ironia? La neve e le cattive condizioni delle strade agevolerebbero la spiritualità?
Mah, non saprei… Il caldo e le mosche erano d’aiuto a Pushkin nell’autunno di Boldino, dove, a quanto pare, faceva molto caldo. Pushkin non poteva andare da nessuna parte, non a causa degli ingorghi, ma a causa del colera.
Lei insegna cultura russa e teoria e pratica della traduzione letteraria all’Università di Milano, che cosa dice per prima cosa ai suoi studenti che si accingono a studiare la materia? Quali sono gli aspetti che suscitano più stupore (interesse o timore) negli studenti italiani?
Dico loro che bisogna studiare tutti gli stereotipi (dalla matrjoshka alla Cecenia) per evitare qualsiasi banalizzazione.
E qual è per lei lo stereotipo più esasperante?
Quello secondo il quale i russi non soffrirebbero il freddo. In realtà è tutto il contrario: in Russia per difendersi dal gelo è inevitabile coprirsi molto, mentre in Occidente è normale a qualunque temperatura andarsene per strada a capo scoperto e senza calze.
Ritiene che sia possibile una convivenza pacifica tra persone di culture profondamente diverse? Che cosa ha più a cuore, l’integrazione o la differenza?
Non soltanto la ritengo possibile, ma sono testimone della trasformazione in atto in Italia. Da paese monoetnico l’Italia si è trasformata sotto i miei occhi in un paese multietnico dove tutte le razze convivono pacificamente. Gli ottusi sciovinisti della “Lega Nord” suonano le loro fanfare e pretendono di ripulire l’Italia dagli stranieri. Tuttavia sarebbero i primi a terrorizzarsi se la forza lavoro straniera impiegata nei servizi, nell’industria e nell’agricoltura dovesse scomparire.
Persone di tutte le razze e di tutti i colori convivono piuttosto in armonia. I fatti parlano da soli, il processo d’integrazione è destinato a migliorare e mi ritengo anch’io in certo qualmodo un modello di questa integrazione.
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