«MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Egregio Direttore,
vorrei Lei mi spiegasse e spiegasse ai telespettatori perchè nell'edizione
delle 20 dello scorso 9 agosto Lei ha affermato che Putin avrebbe iniziato la guerra in Georgia
scegliendo proprio il giorno di inizio delle olimpiadi per dare un segnale al mondo. (Che segnale ????)
Perchè Lei ha inteso - spero non deliberatamente - sostenere la montagna di menzogne che
nel nostro paese dagli inizi di agosto si sta deliberatamente versando sui milioni di italiani che
non hanno ne la capacità, ne il tempo e forse neanche la voglia (dato il periodo feriale) di andare a cercarsi
fonti alternative a quelle "ufficiali". Vi è stata una deliberata carneficina georgiana del popolo osseto (Le ricordo 1400 vittime
in un attacco che può essere paragonato a quello di Guernica) con successivo intervento
armato russo. Successivo Direttore!
Delle due l'una: o il TG più importante d'Italia ha informazioni a dir poco superficiali e false
se non appositamente confezionate, oppure siamo di fronte ad accuse gratuite
e con il solo scopo di diffondere gravi notizie FALSE contro un grande Paese qual'è la Russia (naturalmente
non in senso geografico).
Nella Sua amata america, Egregio Direttore, l'avrebbero già cacciata. Non le pare ?
Aspetto, se può una Sua risposta puntuale dato che sarebbe pia illusione
attendersi delle scuse in rete.
Grazie per il tempo che potrà dedicare alla cosa.
RISPOSTA
Gentile ascoltatore,
ci sono prove di operazioni militari condotte dalle forze russe in territorio georgiano, prima dell’inizio del conflitto.
Cordiali saluti
***
senza commento
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Ho letto la lettera che hai inviato al Direttore del TG1, condivido in pieno la tua analisi, non sò dove ci porterà questo rigurgito di guerra fredda, i fatti per adesso sono che finalmente gli USA sono riusciti a smuovere tutti gli ex satelliti dell'URSS (vedi la Polonia, la Lettonia, la R. Ceca e l'Ucraina, tutto era organizzato, comprerso l'immediato raduno di solidarietà alla Georgia da parte dei cagnolini di Bush. Non sò dove si arriverà ma ancora una volta l'UE si è dimostrata il tappeto degli USA. Oggi alla televisione russa hanno mostrato il piccolo duce georgiano mentre parlava con dietro la bandiera dell'Unione Europea, mi sono sentito offeso perchè un assassino che ha bombardato ospedali e scuole e che ha distrutto a tradimento una citta non puo nascondersi dietro la bandiera che sventola anche fuori dal mio Municipio.
Speriamo che in Europa i cervelli comincino a funzionare, qualche anno fà De Gaule c'era arrivato ma per adesso non c'è ancora luce.
Speriamo che in Europa i cervelli comincino a funzionare, qualche anno fà De Gaule c'era arrivato ma per adesso non c'è ancora luce.
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Il Cuore del Mondo
Domenico Savino 13 agosto 2008
Le rivoluzioni colorate hanno travolto uno dopo l’altro i sistemi politici di Serbia, Ucraina, Georgia, Kyrgyzstan.
Se oggi la guerra è nel Caucaso, la colpa è di chi ha scherzato col fuoco, con l’intento di accerchiare la Russia e depredarla della sua sovranità e delle sue risorse neturali.
Halford Mackinder, il fondatore della Geopolitica, aveva posto alla base della sua concezione geopolitica globale una celeberrima massima: «Who rules East Europe commands the Heartland: who rules the Heartland commands the World-Island: who rules the World-Island commands the World» (Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland [letteralmente: il Cuore della Terra]: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola - Mondo [la massa terrestre eurasiatico-africana]: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo»).
Se Josef März poneva nell’eterna contrapposizione tra Terra e Mare (Landmächte e Seemächte), il cuore dello scontro, l’asse centrale della storia e della geopolitica è allora rappresentato dall’Heartland.
E’ lì nel «cuore» dell’Eurasia, contrapposta all’Asia gialla del Medio Oriente e della penisola Arabica, dell’India, dell’Indocina, dell’arcipelago nipponico (a quella serie cioè di isole e penisole che proprio come una «mezzaluna» circondano la massa continentale), lì nel «cuore» dell’Eurasia, fortezza del Mondo, che spesso sono venute linfa ed energia guerriera capace di cambiare nel corso dei secoli la storia del Mondo.
Dalla Russia zarista all’Unione Sovietica di Stalin, l’impero terrestre eurasiatico, l’«Heartland» appunto, ha seguito le direttive geopolitiche d’espansione in grado di contrapporsi alle nuove potenze marittime: Istambul prima, l’impero britannico poi, gli Stati Uniti d’America nel secolo scorso ed oggi.
Ad un tratto la caduta dell’Unione Sovietica sembrava spianare la strada alla conquista dell’Heartland da parte delle potenze marittime.
L’Apocalisse - tante volte Blondet lo ha ricordato - parla di una grande Bestia «che sale dal mare», adorata da «tutti gli abitanti della terra» e di una piccola Bestia che «sale dalla terra», amministratrice della superpotenza satanica che «aveva due corna come l’agnello, ma parlava come il dragone. Esercitava tutta l’autorità della prima Bestia per conto di essa».
Non c’è solo il controllo delle fonti energetiche presenti e future dell’Eurasia nello scontro che sta infiammando il Caucaso, quanto proprio l’intento di sterilizzare per sempre quelle terre che da sempre sono state il grembo di energie guerriere e di culture tradizionali.
Ecco perché la farsa dell’11 settembre e la scusa della «guerra al terrorismo islamico» sono state la scusa perfetta per cominciare con l’invasione dell’Afghanistan la realizzazione di questo piano: dopo gli ultimi lembi d’Europa annientati con le due Guerre mondiali, è nelle democrazie di matrice non liberista ma popolare, che sopravvive una volontà di resistenza alle sirene del modello elaborato dalle «Seemächte», le potenze del mare.
L’erosione dell’«Heartland» è cominciata subito dopo il fatidico 11 settembre: Polonia, Ucraina, Serbia, Georgia, Kirghizstan, Bielorussia, Azerbajan, Mongolia sono state solo le tappe intermedie e convergenti di questo attacco da ovest, da sud, da est per la conquista dell’obiettivo strategico: il retroterra russo-siberiano prima e quello cinese poi.
Non tutte sono rivoluzioni riuscite, ma tutte sono state tentate.
In verità si era cominciato ben prima: mentre si bombardava Belgrado, era a Mosca che si puntava.
E la distruzione dell’ambasciata cinese nella capitale serba fu un avvertimento al colosso asiatico.
Gli eventi contemporanei ci confermano tragicamente in queste previsioni.
Il disegno si sta compiendo.
Mentre dopo l’11 settembre gli USA chiamano il mondo alla «crociata antislamica», i soldati americani entrano in Georgia in sostegno di Eduard Shevardnadze, ieri ministro dell’URSS e poi acerrimo nemico di Mosca, con la scusa che nella regione di Pankisi abbiano trovato rifugio uomini di Al Qaeda.
Proprio dalla patria di Stalin, il moderno, spietato e geniale creatore della potenza russa moderna, proviene ora il pericolo per l’integrità e la sopravvivenza stessa della Russia.
E’ la vendetta di Tbilisi per la tutela che la Russia accorda all’Abkhazia, la Repubblica indipendente autoproclamatasi tale dal 1992, ma non riconosciuta tale da alcuno Stato.
E’ così che la Georgia apre alla NATO dalla confinante Turchia le porte del Caucaso russo.
Se il Cremlino aveva pensato di sfruttare il sostegno all’invasione americana dell’Afghanistan per avere sostegno e mano libera in Cecenia adesso è servito: le potenze del mare, mentre annientano palestinesi e irakeni, guaiscono di diritti civili per i ceceni.
Tuttavia all’inizio Putin dichiara che la presenza di truppe USA in Georgia non è una tragedia.
Poi la politica di Washington è così aggressiva da divenire insopportabile.
Dopo l’11 settembre si inaugura appunto l’epoca delle rivoluzioni colorate.
Movimenti studenteschi ed organizzazioni non governative, anche utilizzando metodi di disobbedienza civile, ispirati tra l’altro ai testi di Gene Sharp, manifestano contro i governi in carica ritenuti filo-russi, sostenedo le candidature di politici filo-occidentali come Viktor Juščenko, Mikheil Saakašvili e Kurmanbek Bakiyev.
Le rivoluzioni colorate fanno il giro del mondo, adottando uno specifico colore (o fiore) come simbolo e strumenti di marketing politico: dispongono di risorse straordinarie, creano «gruppi di educazione alla democrazia», distribuiscono ogni tipo di gadget (adesivi, ombrelli, impermeabili e altre forme di merchandising).
L’opinine pubblica occidentale è come stregata: le rivoluzioni colorate ottengono successi di velluto in Serbia (la cosiddetta Rivoluzione del 5 ottobre del 2000), Georgia (Rivoluzione delle Rose, 2003), Ucraina (Rivoluzione Arancione, dicembre 2004 e gennaio 2005) e con derive violente in Kirghizistan (Rivoluzione dei Tulipani, 2005).
L’apertura ad occidente si accompagna spesso però ad una delusione per le aspettative sfumate, ad un calo del consenso e a dover fronteggiare nuove manifestazioni di massa, che obbligano i nuovi regimi ad un compromesso con i vecchi nemici (come in Ucraina) o ad una sorta di deriva autoritaria (come in Georgia e Kirghizistan).
Il Cuore del Mondo però è oramai incendiato.
Invano Putin aveva ammonito: «E’ estremamente pericoloso creare un sistema che inneschi una rivoluzione permanente, sia essa rosa, blu, o di qualsiasi altro colore. Le leggi di questi Paesi vanno rispettate».
Ma i nuovi vincitori e gli ingegneri delle rivoluzioni permanenti irridono la pazienza russa dichiarando che questa nuova ondata spazzerà via come uno tsunami personaggi come Vladimir Putin o Loukachenko.
Poi l’Occidente ha alzato la posta: via il Kosovo dalla Serbia.
Putin ammoniva: se vale per il Kosovo, varrà per tutti.
E così un comunicato del ministero degli Esteri russo diffuso mercoledì 16 aprile rendeva noto che il presidente uscente Vladimir Putin aveva dato istruzione ai suoi ministri e ad altre agenzie statali di stabilire «relazioni ufficiali» con le controparti delle regioni secessioniste georgiane d’Abkhazia e Ossezia del Sud.
La Georgia si prepara all’attacco: lunedì 20 aprile un aereo da combattimento russo abbatteva un velivolo da ricognizione georgiano che volava sull’area contesa.
Il 6 maggio Dimitry Rogozin, inviato della Federazione Russa presso la NATO, affermava che «effettivamente la Georgia è molto vicina alla guerra, ma è colpa è della Georgia».
Infatti pesanti armamenti e più di 7.000 soldati venivano concentrati da parte georgiana lungo il confine amministrativo con l’Abkhazia.
In maggio i primi risultati delle elezioni parlamentari georgiane attribuiscono la maggioranza al partito filoamericano di Saakashvili.
Migliaia di manifestanti si radunavano davanti al Palazzo dello Sport di Tbilisi per poi dirigersi verso il Parlamento e protestare contro quelle che ritengono «elezioni con gravi brogli elettorali».
Giovedì 5 giugno iniziava la visita a Tbilisi di Xavier Solana, alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, che incontrava il presidente Mikhail Saakashvili, di fatto per portare la Georgia all’interno della NATO.
Ai primi di luglio in Georgia una serie di attentati e scontri a fuoco provocano diverse vittime e aumentano la tensione nelle regioni secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud.
Secondo il ministro degli Esteri dell’Abkhazia Sergej Šamba, queste esplosioni e le precedenti a Gagra e Suhumi, hanno un unico scopo: dimostrare l’inefficacia dell’attuale sistema di regolamentazione del conflitto da parte delle forze di pace russe.
«Tbilisi non nasconde la volontà di spostare il processo di pace dall’egida ONU a quella dell’Unione Europea, dove la Russia non ha una significativa influenza. Questo non riguarda solo l’Abkhazia, ma anche l’Ossezia del Sud, dove la situazione è ormai al limite. La Georgia fa di tutto per destabilizzare la situazione, ma le conseguenze possono essere inaspettate anche per Tbilisi» dichiarava Šamba a Nezavisimaja Gazeta, confermando inoltre l’accordo di mutuo aiuto militare tra Abkhazia e Ossezia del Sud.
Qualche giorno fa la Georgia decide di attaccare l’Ossezia del sud e oramai è cronaca di questi giorni.
Facciamo un passo indietro.
Torniamo a Bratislava nel febbraio 2005, quando a poche ore dall’incontro Bush-Putin si registrava un provocatorio dietro le quinte, proprio mentre i media occidentali celebravano la dilagante espansione americana come l’inizio di un nuovo periodo di riconciliazione tra Mosca e Washington.
In una stanza riservata dell’Hotel Marriott, la delegazione americana organizzava un cocktail party in forma strettamente privata, a cui venivano però stranamente ammesse le telecamere: era il back-stage delle rivoluzioni colorate di Serbia, Georgia, Ucraina, Kirghizistan.
Quel giorno a Bratislava con gli alleati più stretti di Bush ci sono consiglieri politici, capitani d’industria, lobbisti, ma soprattutto le celebrità della serata: i leader delle rivoluzioni multicolore che hanno rovesciato i regimi pro-moscoviti dell’est.
Tre su tutti mostrano la propria arrogante soddisfazione: Ivan Marovich, capo del movimento studentesco serbo OTPOR, che ha rovesciato il regime di Milosevic; Giga Cokeria, leader di Kmara, movimento studentesco della Georgia che aveva destituito Eduard Shevardnadze e il trentaduenne Vladislav Kaskiv, leader del Movimento Pora, che ha guidato la rivoluzione arancione in Ucraina e che si vanta così: «Diremo a George Bush che dovrebbe ricorrere a noi per portare la democrazia in tutta l’ex Unione Sovietica! In Bielorussia, in Armenia, in Azerbaijan, in Kyrgyzstan... e nella Russia stessa. E’ un’occasione unica per far trionfare la democrazia a livello globale. E ci riusciremo!».
Page Reiffe consigliere della Casa Bianca rilasciava questa dichiarazione: «Questa nuova ondata, indipendentemente da dove essa si trovi, spazzerà via come uno tsunami personaggi come Vladimir Putin o Loukachenko».
Per ora, invece, sta toccando a Saakashvili.
Una coraggiosa giornalista, Milena Gabanelli, su Report ci aveva documentato tutto due anni fa.
Andatevelo a rivedere: nel primo filmato la parte che interessa comincia al minuto 3,45.
Imparateli a memoria quei filmati prima di credere ai titoli de Il Corriere della Sera del duo Mieli-Elkahn e prima che scompaiano da internet.
Grazie a Dio Putin sta tagliando gli artigli del piccolo despota Saakashvili, per dire alla Bestia che sale dal mare che l’Heartland non vuole cedere e ammonire la piccola Bestia, che sale dalla terra, che non tutti sono disposti a lasciarsi impunemente marchiare sulla mano destra e sulla fronte senza avere almeno combattuto.
Sangue antico scorre ancora nelle vene dei popoli dell’Heartland, il Cuore del Mondo.
Domenco Savino
Domenico Savino 13 agosto 2008
Le rivoluzioni colorate hanno travolto uno dopo l’altro i sistemi politici di Serbia, Ucraina, Georgia, Kyrgyzstan.
Se oggi la guerra è nel Caucaso, la colpa è di chi ha scherzato col fuoco, con l’intento di accerchiare la Russia e depredarla della sua sovranità e delle sue risorse neturali.
Halford Mackinder, il fondatore della Geopolitica, aveva posto alla base della sua concezione geopolitica globale una celeberrima massima: «Who rules East Europe commands the Heartland: who rules the Heartland commands the World-Island: who rules the World-Island commands the World» (Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland [letteralmente: il Cuore della Terra]: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola - Mondo [la massa terrestre eurasiatico-africana]: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo»).
Se Josef März poneva nell’eterna contrapposizione tra Terra e Mare (Landmächte e Seemächte), il cuore dello scontro, l’asse centrale della storia e della geopolitica è allora rappresentato dall’Heartland.
E’ lì nel «cuore» dell’Eurasia, contrapposta all’Asia gialla del Medio Oriente e della penisola Arabica, dell’India, dell’Indocina, dell’arcipelago nipponico (a quella serie cioè di isole e penisole che proprio come una «mezzaluna» circondano la massa continentale), lì nel «cuore» dell’Eurasia, fortezza del Mondo, che spesso sono venute linfa ed energia guerriera capace di cambiare nel corso dei secoli la storia del Mondo.
Dalla Russia zarista all’Unione Sovietica di Stalin, l’impero terrestre eurasiatico, l’«Heartland» appunto, ha seguito le direttive geopolitiche d’espansione in grado di contrapporsi alle nuove potenze marittime: Istambul prima, l’impero britannico poi, gli Stati Uniti d’America nel secolo scorso ed oggi.
Ad un tratto la caduta dell’Unione Sovietica sembrava spianare la strada alla conquista dell’Heartland da parte delle potenze marittime.
L’Apocalisse - tante volte Blondet lo ha ricordato - parla di una grande Bestia «che sale dal mare», adorata da «tutti gli abitanti della terra» e di una piccola Bestia che «sale dalla terra», amministratrice della superpotenza satanica che «aveva due corna come l’agnello, ma parlava come il dragone. Esercitava tutta l’autorità della prima Bestia per conto di essa».
Non c’è solo il controllo delle fonti energetiche presenti e future dell’Eurasia nello scontro che sta infiammando il Caucaso, quanto proprio l’intento di sterilizzare per sempre quelle terre che da sempre sono state il grembo di energie guerriere e di culture tradizionali.
Ecco perché la farsa dell’11 settembre e la scusa della «guerra al terrorismo islamico» sono state la scusa perfetta per cominciare con l’invasione dell’Afghanistan la realizzazione di questo piano: dopo gli ultimi lembi d’Europa annientati con le due Guerre mondiali, è nelle democrazie di matrice non liberista ma popolare, che sopravvive una volontà di resistenza alle sirene del modello elaborato dalle «Seemächte», le potenze del mare.
L’erosione dell’«Heartland» è cominciata subito dopo il fatidico 11 settembre: Polonia, Ucraina, Serbia, Georgia, Kirghizstan, Bielorussia, Azerbajan, Mongolia sono state solo le tappe intermedie e convergenti di questo attacco da ovest, da sud, da est per la conquista dell’obiettivo strategico: il retroterra russo-siberiano prima e quello cinese poi.
Non tutte sono rivoluzioni riuscite, ma tutte sono state tentate.
In verità si era cominciato ben prima: mentre si bombardava Belgrado, era a Mosca che si puntava.
E la distruzione dell’ambasciata cinese nella capitale serba fu un avvertimento al colosso asiatico.
Gli eventi contemporanei ci confermano tragicamente in queste previsioni.
Il disegno si sta compiendo.
Mentre dopo l’11 settembre gli USA chiamano il mondo alla «crociata antislamica», i soldati americani entrano in Georgia in sostegno di Eduard Shevardnadze, ieri ministro dell’URSS e poi acerrimo nemico di Mosca, con la scusa che nella regione di Pankisi abbiano trovato rifugio uomini di Al Qaeda.
Proprio dalla patria di Stalin, il moderno, spietato e geniale creatore della potenza russa moderna, proviene ora il pericolo per l’integrità e la sopravvivenza stessa della Russia.
E’ la vendetta di Tbilisi per la tutela che la Russia accorda all’Abkhazia, la Repubblica indipendente autoproclamatasi tale dal 1992, ma non riconosciuta tale da alcuno Stato.
E’ così che la Georgia apre alla NATO dalla confinante Turchia le porte del Caucaso russo.
Se il Cremlino aveva pensato di sfruttare il sostegno all’invasione americana dell’Afghanistan per avere sostegno e mano libera in Cecenia adesso è servito: le potenze del mare, mentre annientano palestinesi e irakeni, guaiscono di diritti civili per i ceceni.
Tuttavia all’inizio Putin dichiara che la presenza di truppe USA in Georgia non è una tragedia.
Poi la politica di Washington è così aggressiva da divenire insopportabile.
Dopo l’11 settembre si inaugura appunto l’epoca delle rivoluzioni colorate.
Movimenti studenteschi ed organizzazioni non governative, anche utilizzando metodi di disobbedienza civile, ispirati tra l’altro ai testi di Gene Sharp, manifestano contro i governi in carica ritenuti filo-russi, sostenedo le candidature di politici filo-occidentali come Viktor Juščenko, Mikheil Saakašvili e Kurmanbek Bakiyev.
Le rivoluzioni colorate fanno il giro del mondo, adottando uno specifico colore (o fiore) come simbolo e strumenti di marketing politico: dispongono di risorse straordinarie, creano «gruppi di educazione alla democrazia», distribuiscono ogni tipo di gadget (adesivi, ombrelli, impermeabili e altre forme di merchandising).
L’opinine pubblica occidentale è come stregata: le rivoluzioni colorate ottengono successi di velluto in Serbia (la cosiddetta Rivoluzione del 5 ottobre del 2000), Georgia (Rivoluzione delle Rose, 2003), Ucraina (Rivoluzione Arancione, dicembre 2004 e gennaio 2005) e con derive violente in Kirghizistan (Rivoluzione dei Tulipani, 2005).
L’apertura ad occidente si accompagna spesso però ad una delusione per le aspettative sfumate, ad un calo del consenso e a dover fronteggiare nuove manifestazioni di massa, che obbligano i nuovi regimi ad un compromesso con i vecchi nemici (come in Ucraina) o ad una sorta di deriva autoritaria (come in Georgia e Kirghizistan).
Il Cuore del Mondo però è oramai incendiato.
Invano Putin aveva ammonito: «E’ estremamente pericoloso creare un sistema che inneschi una rivoluzione permanente, sia essa rosa, blu, o di qualsiasi altro colore. Le leggi di questi Paesi vanno rispettate».
Ma i nuovi vincitori e gli ingegneri delle rivoluzioni permanenti irridono la pazienza russa dichiarando che questa nuova ondata spazzerà via come uno tsunami personaggi come Vladimir Putin o Loukachenko.
Poi l’Occidente ha alzato la posta: via il Kosovo dalla Serbia.
Putin ammoniva: se vale per il Kosovo, varrà per tutti.
E così un comunicato del ministero degli Esteri russo diffuso mercoledì 16 aprile rendeva noto che il presidente uscente Vladimir Putin aveva dato istruzione ai suoi ministri e ad altre agenzie statali di stabilire «relazioni ufficiali» con le controparti delle regioni secessioniste georgiane d’Abkhazia e Ossezia del Sud.
La Georgia si prepara all’attacco: lunedì 20 aprile un aereo da combattimento russo abbatteva un velivolo da ricognizione georgiano che volava sull’area contesa.
Il 6 maggio Dimitry Rogozin, inviato della Federazione Russa presso la NATO, affermava che «effettivamente la Georgia è molto vicina alla guerra, ma è colpa è della Georgia».
Infatti pesanti armamenti e più di 7.000 soldati venivano concentrati da parte georgiana lungo il confine amministrativo con l’Abkhazia.
In maggio i primi risultati delle elezioni parlamentari georgiane attribuiscono la maggioranza al partito filoamericano di Saakashvili.
Migliaia di manifestanti si radunavano davanti al Palazzo dello Sport di Tbilisi per poi dirigersi verso il Parlamento e protestare contro quelle che ritengono «elezioni con gravi brogli elettorali».
Giovedì 5 giugno iniziava la visita a Tbilisi di Xavier Solana, alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, che incontrava il presidente Mikhail Saakashvili, di fatto per portare la Georgia all’interno della NATO.
Ai primi di luglio in Georgia una serie di attentati e scontri a fuoco provocano diverse vittime e aumentano la tensione nelle regioni secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud.
Secondo il ministro degli Esteri dell’Abkhazia Sergej Šamba, queste esplosioni e le precedenti a Gagra e Suhumi, hanno un unico scopo: dimostrare l’inefficacia dell’attuale sistema di regolamentazione del conflitto da parte delle forze di pace russe.
«Tbilisi non nasconde la volontà di spostare il processo di pace dall’egida ONU a quella dell’Unione Europea, dove la Russia non ha una significativa influenza. Questo non riguarda solo l’Abkhazia, ma anche l’Ossezia del Sud, dove la situazione è ormai al limite. La Georgia fa di tutto per destabilizzare la situazione, ma le conseguenze possono essere inaspettate anche per Tbilisi» dichiarava Šamba a Nezavisimaja Gazeta, confermando inoltre l’accordo di mutuo aiuto militare tra Abkhazia e Ossezia del Sud.
Qualche giorno fa la Georgia decide di attaccare l’Ossezia del sud e oramai è cronaca di questi giorni.
Facciamo un passo indietro.
Torniamo a Bratislava nel febbraio 2005, quando a poche ore dall’incontro Bush-Putin si registrava un provocatorio dietro le quinte, proprio mentre i media occidentali celebravano la dilagante espansione americana come l’inizio di un nuovo periodo di riconciliazione tra Mosca e Washington.
In una stanza riservata dell’Hotel Marriott, la delegazione americana organizzava un cocktail party in forma strettamente privata, a cui venivano però stranamente ammesse le telecamere: era il back-stage delle rivoluzioni colorate di Serbia, Georgia, Ucraina, Kirghizistan.
Quel giorno a Bratislava con gli alleati più stretti di Bush ci sono consiglieri politici, capitani d’industria, lobbisti, ma soprattutto le celebrità della serata: i leader delle rivoluzioni multicolore che hanno rovesciato i regimi pro-moscoviti dell’est.
Tre su tutti mostrano la propria arrogante soddisfazione: Ivan Marovich, capo del movimento studentesco serbo OTPOR, che ha rovesciato il regime di Milosevic; Giga Cokeria, leader di Kmara, movimento studentesco della Georgia che aveva destituito Eduard Shevardnadze e il trentaduenne Vladislav Kaskiv, leader del Movimento Pora, che ha guidato la rivoluzione arancione in Ucraina e che si vanta così: «Diremo a George Bush che dovrebbe ricorrere a noi per portare la democrazia in tutta l’ex Unione Sovietica! In Bielorussia, in Armenia, in Azerbaijan, in Kyrgyzstan... e nella Russia stessa. E’ un’occasione unica per far trionfare la democrazia a livello globale. E ci riusciremo!».
Page Reiffe consigliere della Casa Bianca rilasciava questa dichiarazione: «Questa nuova ondata, indipendentemente da dove essa si trovi, spazzerà via come uno tsunami personaggi come Vladimir Putin o Loukachenko».
Per ora, invece, sta toccando a Saakashvili.
Una coraggiosa giornalista, Milena Gabanelli, su Report ci aveva documentato tutto due anni fa.
Andatevelo a rivedere: nel primo filmato la parte che interessa comincia al minuto 3,45.
Imparateli a memoria quei filmati prima di credere ai titoli de Il Corriere della Sera del duo Mieli-Elkahn e prima che scompaiano da internet.
Grazie a Dio Putin sta tagliando gli artigli del piccolo despota Saakashvili, per dire alla Bestia che sale dal mare che l’Heartland non vuole cedere e ammonire la piccola Bestia, che sale dalla terra, che non tutti sono disposti a lasciarsi impunemente marchiare sulla mano destra e sulla fronte senza avere almeno combattuto.
Sangue antico scorre ancora nelle vene dei popoli dell’Heartland, il Cuore del Mondo.
Domenco Savino
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Sono senza parole anche io per la cattiva informazione che si sta facendo in Italia su questa guerra. Ho anche l'impressione, forse complice l'Olimpiade o il caldo agostano che ci porta a pensare più alle vacanze che ai problemi del mondo, che a nessuno importa niente di quella guerra. Non c'è un dibattito, non c'è un'inchiesta, non un approfondimento: solo un breve accenno nei titoli del TG e tutti di parte, come se fossimo tutti servi degli americani. Tutto tace.
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Siamo, lo siamo .... :(
Oggetto: Re: MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Il mio disgusto per la politica e l’informazione “occidentali” sta raggiungendo livelli preoccupanti.
Non posso più aprire un giornale o ascoltare un notiziario senza sentirmi ribollire il sangue.
Soltanto menzogne, falsità, ipocrisia, inganno, idiozia, malafede e servilismo.
Che tristezza… e che voglia di andarsene via…
Non posso più aprire un giornale o ascoltare un notiziario senza sentirmi ribollire il sangue.
Soltanto menzogne, falsità, ipocrisia, inganno, idiozia, malafede e servilismo.
Che tristezza… e che voglia di andarsene via…
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Principe! La stessa cosa vale per me ! :(
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Ciao a tutti.
Sulla non informazione condivido il giudizio di tutti voi, che tragedia che farsa e che schifo.
Vi consiglio di vedere sul sito di limes, al seguente link [url=http://temi.repubblica.it/UserFiles/Image/limes/Carte/fronti_mosca720.jpg], questa pianta relativa all'accerchiamento della Russia che nasce gia' a partire dal conflitto per il Kosovo "libero".
Vi segnalo inoltre, riportandone qui solo l'inizio, l'interessante articolo di Astrit Dakli, uscito oggi, su "il manifesto" . Ecco cosa scrive all'inizio del suo articolo, dal titolo Senza ritorno, Dakli: "Dunque Dmitrij Medvedev ha deciso di non prendere tempo, rendendo immediatamente operativo il riconoscimento dell'indipendenza delle due regioni secessioniste georgiane, Abkhazia e Sud-Ossezia, e suscitando un'enorme ondata di scandalo e furore in Occidente. Attenti, però: la decisione del Cremlino non è la causa della gravissima tensione internazionale cui stiamo assistendo, bensì la sua conseguenza. È la presa d'atto che nessun negoziato, nessuna soluzione politica sarà possibile - non in tempi realisticamente prevedibili - visto che l'Occidente non ha la minima intenzione di riconsiderare la propria pretesa di dettar legge al resto del mondo, come sta facendo sin dal fatidico 1989".
Cari saluti a tutti da Arkhangelsk
Shalun
Sulla non informazione condivido il giudizio di tutti voi, che tragedia che farsa e che schifo.
Vi consiglio di vedere sul sito di limes, al seguente link [url=http://temi.repubblica.it/UserFiles/Image/limes/Carte/fronti_mosca720.jpg], questa pianta relativa all'accerchiamento della Russia che nasce gia' a partire dal conflitto per il Kosovo "libero".
Vi segnalo inoltre, riportandone qui solo l'inizio, l'interessante articolo di Astrit Dakli, uscito oggi, su "il manifesto" . Ecco cosa scrive all'inizio del suo articolo, dal titolo Senza ritorno, Dakli: "Dunque Dmitrij Medvedev ha deciso di non prendere tempo, rendendo immediatamente operativo il riconoscimento dell'indipendenza delle due regioni secessioniste georgiane, Abkhazia e Sud-Ossezia, e suscitando un'enorme ondata di scandalo e furore in Occidente. Attenti, però: la decisione del Cremlino non è la causa della gravissima tensione internazionale cui stiamo assistendo, bensì la sua conseguenza. È la presa d'atto che nessun negoziato, nessuna soluzione politica sarà possibile - non in tempi realisticamente prevedibili - visto che l'Occidente non ha la minima intenzione di riconsiderare la propria pretesa di dettar legge al resto del mondo, come sta facendo sin dal fatidico 1989".
Cari saluti a tutti da Arkhangelsk
Shalun
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Domanda:
Riotta, Saakashvili, il Presidente Estone hanno fatto tutti le Clumbia University.
Ci sarà un motivo ? :mrgreen:
Riotta, Saakashvili, il Presidente Estone hanno fatto tutti le Clumbia University.
Ci sarà un motivo ? :mrgreen:
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
:mrgreen: :mrgreen: :mrgreen: penso proprio di si' :up:
Karenin ha scritto: [Visualizza Messaggio]Domanda:
Riotta, Saakashvili, il Presidente Estone hanno fatto tutti le Clumbia University.
Ci sarà un motivo ? :mrgreen:
:mrgreen: :mrgreen: :mrgreen: penso proprio di si' :up:
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Documento pubblicato oggi su Repubblica:
IL DOCUMENTO
"La nostra scelta inevitabile"
Medvedev scrive all'Occidente
Dmitri Medvedev
Questa è la lettera inviata ieri mattina dal presidente russo ad alcuni capi di stato e governo, fra cui il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, quello francese Nicolas Sarkozy, il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi. Il capo del Cremlino annuncia il riconoscimento dell'indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia
Nello spirito delle nostre relazioni di fiducia reciproca desidero informarLa che la Federazione Russa si trova di fronte alla necessità di prendere la decisione difficile - ma l'unica possibile, in queste condizioni - di riconoscere l'indipendenza e la sovranità dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia.
L'aggressione del regime di Mikhail Saakashvili contro l'Ossezia del Sud ha cancellato le vite di molti dei nostri cittadini, compresi i militari che facevano parte del contingente multinazionale per il mantenimento della pace. Avendo dato l'ordine criminale di attaccare l'Ossezia del Sud, Saakashvili contava di realizzare un'operazione lampo e di mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto di una "sistemazione" del conflitto tra la Georgia e l'Ossezia del Sud alle condizioni di Tbilisi.
Contemporaneamente, lui stava preparando un'azione militare anche contro l'Abkhazia. Questi piani si sono scontrati con la resistenza dei popoli dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia e sono stati stroncati dalle azioni decisive del rafforzato contingente di pace russo.
Da quando, all'inizio degli anni '90, il presidente georgiano Gamsakhurdia lanciò l'appello per una "Georgia per i georgiani" e abolì gli Stati autonomi dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud, ordinando di prendere d'assalto Sukhumi e Tskhinvali, la Russia fece tutto quanto in suo potere per impedire il genocidio e le pulizie etniche. La Russia, come mediatrice e pacificatrice, voleva arrivare a una soluzione politica dei conflitti. Allo stesso tempo, ci siamo sempre basati sul riconoscimento dell'integrità territoriale della Georgia.
Tuttavia la dirigenza georgiana faceva spesso saltare il processo negoziale rinnegando le intese precedenti. Faceva uso di ingegnose provocazioni politiche e militari violando gravemente il regime stabilito con il sostegno dell'Onu e dell'Osce nelle zone del conflitto. Tutto questo era accompagnato da azioni antirusse, attacchi ai militari del contingente di pace, arresti dei nostri ufficiali e deportazioni dei nostri diplomatici.
Non abbiamo raccolto le provocazioni, abbiamo dimostrato fermezza e pazienza, abbiamo cercato in ogni modo di far rinsavire il regime di Tbilisi, farlo tornare al tavolo delle trattative. Non abbiamo abbandonato questa nostra posizione di principio neanche dopo la proclamazione unilaterale dell'indipendenza del Kosovo.
Ciononostante la dirigenza georgiana non ha potuto e non ha nemmeno voluto apprezzare la nostra linea costruttiva, cadendo sempre più nella febbre militarista. Un ruolo chiaramente distruttivo è stato giocato dai protettori esterni di Saakashvili, che l'hanno aiutato a riarmarsi fino ai denti, favorendo di fatto le sue intenzioni aggressive e rafforzando la sua fiducia nell'impunità.
I nostri insistenti appelli a Tbilisi per la stipula di accordi sull'impegno al non uso della forza in Abkhazia e Ossezia del Sud sono stati respinti dalla dirigenza georgiana e ignorati dall'Unione europea e dalla Nato.
Nella notte dell'8 agosto 2008 Tbilisi ha fatto la sua scelta, iniziando la guerra contro il popolo sudosseto il quale - stando alle dichiarazioni di Saakashvili - è considerato una parte del suo Stato. Con il suo ordine criminale di iniziare la guerra, il presidente georgiano ha cancellato di propria mano tutte le speranze per il ristabilimento dell'integrità territoriale e la coesistenza pacifica di sudosseti, abkhazi e georgiani in un unico Stato. I popoli dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud si sono espressi più volte con referendum a favore dell'indipendenza delle proprie Repubbliche. Ciò che è successo in Ossezia del Sud e si stava pianificando di fare anche in Abkhazia ha fatto traboccare il vaso della pazienza.
In questi giorni i presidenti Bagapsh e Kokojty, sulla base della delibera dei loro Parlamenti, si sono rivolti alla dirigenza russa per la richiesta del riconoscimento della sovranità di Stato dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud. Il consiglio della Federazione e la Duma di Stato in modo unanime si sono espresse a sostegno di questo appello. Questa posizione è condivisa dalla stragrande maggioranza dei nostri cittadini. Basandosi sulla situazione che si è venuta a creare, tenendo conto della volontà espressa dai popoli dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud, attenendosi alle disposizioni dello statuto Onu e alla dichiarazione sui principi e il diritto internazionale riguardanti le relazioni amichevoli tra gli Stati, all'atto finale di Helsinki e agli altri documenti internazionali di parte, è stata presa la decisione del riconoscimento da parte della Federazione Russa dell'indipendenza della Repubblica di Abkhazia e della Repubblica dell'Ossezia del Sud. I rispettivi decreti saranno da me firmati il 26 agosto 2008.
Conto sulla Sua comprensione e sul Suo sostegno.
Inoltre spero che i 6 principi concordati a Mosca il 12 agosto per la sistemazione dei conflitti rimarranno in vigore per quanto riguarda l'adozione delle misure contro la riapertura delle attività militari. A tal fine faremo tutto il necessario, comprese la azioni coordinate con gli osservatori dell'Osce. Siamo pronti a concordare un regime efficace per la zona di sicurezza attorno all'Ossezia del Sud affinché sia posta una barriera contro le provocazioni e i nuovi preparativi militari. Saremo a favore di un ruolo dell'Unione europea in questi sforzi sotto l'egida dell'Osce.
(27 agosto 2008)
IL DOCUMENTO
"La nostra scelta inevitabile"
Medvedev scrive all'Occidente
Dmitri Medvedev
Questa è la lettera inviata ieri mattina dal presidente russo ad alcuni capi di stato e governo, fra cui il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, quello francese Nicolas Sarkozy, il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi. Il capo del Cremlino annuncia il riconoscimento dell'indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia
Nello spirito delle nostre relazioni di fiducia reciproca desidero informarLa che la Federazione Russa si trova di fronte alla necessità di prendere la decisione difficile - ma l'unica possibile, in queste condizioni - di riconoscere l'indipendenza e la sovranità dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia.
L'aggressione del regime di Mikhail Saakashvili contro l'Ossezia del Sud ha cancellato le vite di molti dei nostri cittadini, compresi i militari che facevano parte del contingente multinazionale per il mantenimento della pace. Avendo dato l'ordine criminale di attaccare l'Ossezia del Sud, Saakashvili contava di realizzare un'operazione lampo e di mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto di una "sistemazione" del conflitto tra la Georgia e l'Ossezia del Sud alle condizioni di Tbilisi.
Contemporaneamente, lui stava preparando un'azione militare anche contro l'Abkhazia. Questi piani si sono scontrati con la resistenza dei popoli dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia e sono stati stroncati dalle azioni decisive del rafforzato contingente di pace russo.
Da quando, all'inizio degli anni '90, il presidente georgiano Gamsakhurdia lanciò l'appello per una "Georgia per i georgiani" e abolì gli Stati autonomi dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud, ordinando di prendere d'assalto Sukhumi e Tskhinvali, la Russia fece tutto quanto in suo potere per impedire il genocidio e le pulizie etniche. La Russia, come mediatrice e pacificatrice, voleva arrivare a una soluzione politica dei conflitti. Allo stesso tempo, ci siamo sempre basati sul riconoscimento dell'integrità territoriale della Georgia.
Tuttavia la dirigenza georgiana faceva spesso saltare il processo negoziale rinnegando le intese precedenti. Faceva uso di ingegnose provocazioni politiche e militari violando gravemente il regime stabilito con il sostegno dell'Onu e dell'Osce nelle zone del conflitto. Tutto questo era accompagnato da azioni antirusse, attacchi ai militari del contingente di pace, arresti dei nostri ufficiali e deportazioni dei nostri diplomatici.
Non abbiamo raccolto le provocazioni, abbiamo dimostrato fermezza e pazienza, abbiamo cercato in ogni modo di far rinsavire il regime di Tbilisi, farlo tornare al tavolo delle trattative. Non abbiamo abbandonato questa nostra posizione di principio neanche dopo la proclamazione unilaterale dell'indipendenza del Kosovo.
Ciononostante la dirigenza georgiana non ha potuto e non ha nemmeno voluto apprezzare la nostra linea costruttiva, cadendo sempre più nella febbre militarista. Un ruolo chiaramente distruttivo è stato giocato dai protettori esterni di Saakashvili, che l'hanno aiutato a riarmarsi fino ai denti, favorendo di fatto le sue intenzioni aggressive e rafforzando la sua fiducia nell'impunità.
I nostri insistenti appelli a Tbilisi per la stipula di accordi sull'impegno al non uso della forza in Abkhazia e Ossezia del Sud sono stati respinti dalla dirigenza georgiana e ignorati dall'Unione europea e dalla Nato.
Nella notte dell'8 agosto 2008 Tbilisi ha fatto la sua scelta, iniziando la guerra contro il popolo sudosseto il quale - stando alle dichiarazioni di Saakashvili - è considerato una parte del suo Stato. Con il suo ordine criminale di iniziare la guerra, il presidente georgiano ha cancellato di propria mano tutte le speranze per il ristabilimento dell'integrità territoriale e la coesistenza pacifica di sudosseti, abkhazi e georgiani in un unico Stato. I popoli dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud si sono espressi più volte con referendum a favore dell'indipendenza delle proprie Repubbliche. Ciò che è successo in Ossezia del Sud e si stava pianificando di fare anche in Abkhazia ha fatto traboccare il vaso della pazienza.
In questi giorni i presidenti Bagapsh e Kokojty, sulla base della delibera dei loro Parlamenti, si sono rivolti alla dirigenza russa per la richiesta del riconoscimento della sovranità di Stato dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud. Il consiglio della Federazione e la Duma di Stato in modo unanime si sono espresse a sostegno di questo appello. Questa posizione è condivisa dalla stragrande maggioranza dei nostri cittadini. Basandosi sulla situazione che si è venuta a creare, tenendo conto della volontà espressa dai popoli dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud, attenendosi alle disposizioni dello statuto Onu e alla dichiarazione sui principi e il diritto internazionale riguardanti le relazioni amichevoli tra gli Stati, all'atto finale di Helsinki e agli altri documenti internazionali di parte, è stata presa la decisione del riconoscimento da parte della Federazione Russa dell'indipendenza della Repubblica di Abkhazia e della Repubblica dell'Ossezia del Sud. I rispettivi decreti saranno da me firmati il 26 agosto 2008.
Conto sulla Sua comprensione e sul Suo sostegno.
Inoltre spero che i 6 principi concordati a Mosca il 12 agosto per la sistemazione dei conflitti rimarranno in vigore per quanto riguarda l'adozione delle misure contro la riapertura delle attività militari. A tal fine faremo tutto il necessario, comprese la azioni coordinate con gli osservatori dell'Osce. Siamo pronti a concordare un regime efficace per la zona di sicurezza attorno all'Ossezia del Sud affinché sia posta una barriera contro le provocazioni e i nuovi preparativi militari. Saremo a favore di un ruolo dell'Unione europea in questi sforzi sotto l'egida dell'Osce.
(27 agosto 2008)
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Interessante analisi sempre pubblicata su Repubblica di oggi.
IL COMMENTO
La linea rossa dell'Occidente
di LUCIO CARACCIOLO
Da ieri Ossezia del Sud e Abkhazia sono tornate nell'impero russo. Riconoscendone l'indipendenza, Mosca le rende totalmente dipendenti da se stessa. Così autolegittimandovi la presenza dei propri soldati in quanto peacekeepers.
Tanto per essere chiaro, il leader sud-ossetino Eduard Kokoity ha annunciato che sul territorio della neorepubblica sarà costruita una base militare permanente dell'Armata russa.
Cala così il sipario sulla prima fase della guerra scatenata fra il 7 e l'8 agosto dal presidente Saakashvili, contro il parere ufficiale del governo americano, e soprattutto contro gli interessi della Georgia, ormai amputata delle province che s'illudeva di recuperare armi in pugno. Per rimettere piede a Tskhinvali e a Sukhumi - e probabilmente anche nell'indefinita "area di sicurezza", ben oltre il confine dell'Ossezia meridionale, conquistata dalle truppe di Mosca - i georgiani dovranno aspettare la prossima guerra mondiale o il suicidio della Russia.
Se localmente la partita sembra chiusa, su scala regionale e globale è appena cominciata. Le poste in gioco sono chiare: si tratta di stabilire se Caucaso e Mar Nero sono zone di primaria influenza americana o russa, ed eventualmente dove passa il confine fra i due mondi. Soprattutto, calerà una nuova cortina di ferro o alla fine prevarrà la logica della pacifica competizione/collaborazione fra le maggiori potenze? Insomma, americani ed europei intendono riconoscere alla Russia, in nome di una "dottrina Monroe" rovesciata, un suo impero esterno, esteso su parte dei territori già sovietici e zaristi, oppure no? E se no, quali sono le nostre "linee rosse"? Una volta stabilito che nessun occidentale intende morire per Tskhinvali, e nemmeno per Tbilisi, per chi e per che cosa saremmo eventualmente disposti a batterci? Se invece intendiamo concedere alla Russia la sua piccola rivincita caucasica, dopo averla umiliata per vent'anni su ogni possibile scacchiere, per poi costruire insieme un nuovo equilibrio eurasiatico, su quali basi intendiamo metterci d'accordo?
Per avere una risposta, occorrerà probabilmente attendere il prossimo presidente americano. A meno di altre follie o incidenti sempre possibili quando le linee di demarcazione fra gli schieramenti militari restano vaghe. Per adesso, ai fatti russi gli occidentali oppongono parole o gesti poco più che simbolici. "Deplorazioni" di rito a parte, l'arco delle reazioni euroatlantiche al riconoscimento russo delle repubbliche separatiste va dalla proposta di una coalizione internazionale "contro l'aggressione russa in Georgia", lanciata dal ministro degli Esteri britannico David Miliband, all'annuncio (ironico?) del suo collega italiano che Roma fornirà uno dei dodici osservatori europei da schierare ai confini dell'Ossezia del Sud.
Certo, Washington ha mandato qualche nave militare a battere bandiera nel Mar Nero e a garantire forniture umanitarie. Se non ha già cominciato a farlo, si dedicherà presto a rimettere in sesto le Forze armate georgiane, che pure aveva foraggiato e addestrato, non intuendo che il governo di Tbilisi, nel suo solipsismo irredentista, le avrebbe mandate al massacro. Di qui a compiere scelte strategiche su come fronteggiare Mosca, molto ne corre.
Oggi solo la Russia può sconfiggere se stessa in una partita di cui ha stravinto la prima mano. Grazie ai georgiani. Ma non troverà sempre un Saakashvili ad invitarla a nozze. Finora Putin ha fatto quanto annunciato urbi et orbi dopo l'indipendenza del Kosovo. Attingendo, certo non per caso, alla stessa retorica usata dagli americani a difesa della causa kosovara, accuse di "genocidio" incluse. Da adesso in poi Mosca dovrà però calcolare con molta prudenza le ripercussioni di ogni sua mossa nell'area contesa fra sé e la Nato. Sapendo di non disporre, nel medio-lungo periodo, né del soft power né delle altre risorse utili a sfidare l'America in un gioco a somma zero. E non volendo certo ridursi a super-Stato canaglia, come nei sogni dei più scatenati fra i russofobi baltici.
La prossima partita si gioca in Ucraina. Per Putin quello non è nemmeno uno Stato, ma un insieme di territori eterogenei di cui alcuni a suo tempo ceduti da Mosca in prestito con diritto di riscatto. A cominciare dalla strategica Crimea, non meno russofila di Abkhazia e Ossezia del Sud, offerta in comodato nel 1954 da Krusciov all'Ucraina sovietica. Se Kiev vorrà entrare nella Nato, ha lasciato intendere Putin durante l'ultimo vertice atlantico, lo farà senza le sue regioni "russe". Considerando che finora la maggioranza degli ucraini è contraria all'ingresso nell'Alleanza Atlantica - e visto il "tradimento" della già "pasionaria" arancione, Yulia Timoshenko, a quanto pare disposta a scambiare l'appoggio russo alle prossime elezioni presidenziali con la rinuncia a sfidare Mosca sulla Nato - Putin parte in vantaggio. Rafforzato dalla dimostrazione di saper impiegare la forza per difendere le sue "linee rosse" e dalla parallela ostentazione di impotenza degli Stati Uniti.
Gli attuali successi russi sono figli anzitutto della debolezza americana e delle divisioni fra gli europei. Mosca sa quel che vuole. E agisce di conseguenza. Americani ed europei no, probabilmente perché in fondo intuiscono di volere cose diverse. Solo ricompattandosi l'Occidente potrà recuperare parte del terreno perduto. Non è facile, visto il vuoto di leadership a Washington e le radicate differenze di percezioni e di interessi fra "Vecchia" e "Nuova Europa" riguardo alla Russia. La storia insegna che per mettere d'accordo europei e americani serve una minaccia esterna. A suo tempo, quella sovietica. Oggi le nostre opinioni pubbliche non appaiono troppo sensibili alle zampate dell'orso russo. A meno che, a torto o a ragione, non ci sentissimo minacciati nella continuità degli approvvigionamenti di idrocarburi che via Russia alimentano le nostre economie. Certo, dopo la spartizione della Georgia, i progetti occidentali di oleodotti e gasdotti alternativi a quelli di classica matrice russa appaiono piuttosto fantasiosi. Ma è anche possibile che polacchi, svedesi e baltici, con l'appoggio americano, si rivalgano sabotando Nord Stream, il grandioso progetto di gasdotto sottomarino russo-tedesco, dai forti connotati geopolitici.
Oggi va di moda richiamare la guerra fredda. Il paragone è deviante. Per mille motivi, ma in specie per due. Nel mondo bipolare, Saakashvili e i suoi pari non avrebbero mai potuto disobbedire ai rispettivi padrini (una volta, sul fronte opposto, ci provò Castro e per poco non scoppiò la guerra atomica). E soprattutto, mentre a quei tempi americani e sovietici erano l'alfa e l'omega dell'alfabeto globale, oggi americani e russi sono protagonisti fondamentali (i primi ben più dei secondi), ma non unici, sul palcoscenico internazionale. Negli ultimi anni a Washington ci si è infatti pochissimo occupati di Russia, molto più di Cina, India o radicalismo islamico. Nell'illusione di aver messo l'orso in gabbia, dopo avergli tagliato le unghie. Ma un impero di quelle dimensioni e con quella storia o viene totalmente distrutto o è destinato a rinascere, entro limiti e condizioni nuove.
La sorpresa non è il ritorno di Mosca. È il fatto che non ce l'aspettassimo. Finché non decideremo se abbracciare o soffocare il nuovo impero russo, e faremo seguire alle parole i fatti, sarà solo l'ingordigia o l'imprudenza del Cremlino a frenarne la scalata ai vertici delle gerarchie globali. Mentre l'Occidente resterà una figura retorica, pallida memoria del vittorioso schieramento che fu.
(27 agosto 2008)
IL COMMENTO
La linea rossa dell'Occidente
di LUCIO CARACCIOLO
Da ieri Ossezia del Sud e Abkhazia sono tornate nell'impero russo. Riconoscendone l'indipendenza, Mosca le rende totalmente dipendenti da se stessa. Così autolegittimandovi la presenza dei propri soldati in quanto peacekeepers.
Tanto per essere chiaro, il leader sud-ossetino Eduard Kokoity ha annunciato che sul territorio della neorepubblica sarà costruita una base militare permanente dell'Armata russa.
Cala così il sipario sulla prima fase della guerra scatenata fra il 7 e l'8 agosto dal presidente Saakashvili, contro il parere ufficiale del governo americano, e soprattutto contro gli interessi della Georgia, ormai amputata delle province che s'illudeva di recuperare armi in pugno. Per rimettere piede a Tskhinvali e a Sukhumi - e probabilmente anche nell'indefinita "area di sicurezza", ben oltre il confine dell'Ossezia meridionale, conquistata dalle truppe di Mosca - i georgiani dovranno aspettare la prossima guerra mondiale o il suicidio della Russia.
Se localmente la partita sembra chiusa, su scala regionale e globale è appena cominciata. Le poste in gioco sono chiare: si tratta di stabilire se Caucaso e Mar Nero sono zone di primaria influenza americana o russa, ed eventualmente dove passa il confine fra i due mondi. Soprattutto, calerà una nuova cortina di ferro o alla fine prevarrà la logica della pacifica competizione/collaborazione fra le maggiori potenze? Insomma, americani ed europei intendono riconoscere alla Russia, in nome di una "dottrina Monroe" rovesciata, un suo impero esterno, esteso su parte dei territori già sovietici e zaristi, oppure no? E se no, quali sono le nostre "linee rosse"? Una volta stabilito che nessun occidentale intende morire per Tskhinvali, e nemmeno per Tbilisi, per chi e per che cosa saremmo eventualmente disposti a batterci? Se invece intendiamo concedere alla Russia la sua piccola rivincita caucasica, dopo averla umiliata per vent'anni su ogni possibile scacchiere, per poi costruire insieme un nuovo equilibrio eurasiatico, su quali basi intendiamo metterci d'accordo?
Per avere una risposta, occorrerà probabilmente attendere il prossimo presidente americano. A meno di altre follie o incidenti sempre possibili quando le linee di demarcazione fra gli schieramenti militari restano vaghe. Per adesso, ai fatti russi gli occidentali oppongono parole o gesti poco più che simbolici. "Deplorazioni" di rito a parte, l'arco delle reazioni euroatlantiche al riconoscimento russo delle repubbliche separatiste va dalla proposta di una coalizione internazionale "contro l'aggressione russa in Georgia", lanciata dal ministro degli Esteri britannico David Miliband, all'annuncio (ironico?) del suo collega italiano che Roma fornirà uno dei dodici osservatori europei da schierare ai confini dell'Ossezia del Sud.
Certo, Washington ha mandato qualche nave militare a battere bandiera nel Mar Nero e a garantire forniture umanitarie. Se non ha già cominciato a farlo, si dedicherà presto a rimettere in sesto le Forze armate georgiane, che pure aveva foraggiato e addestrato, non intuendo che il governo di Tbilisi, nel suo solipsismo irredentista, le avrebbe mandate al massacro. Di qui a compiere scelte strategiche su come fronteggiare Mosca, molto ne corre.
Oggi solo la Russia può sconfiggere se stessa in una partita di cui ha stravinto la prima mano. Grazie ai georgiani. Ma non troverà sempre un Saakashvili ad invitarla a nozze. Finora Putin ha fatto quanto annunciato urbi et orbi dopo l'indipendenza del Kosovo. Attingendo, certo non per caso, alla stessa retorica usata dagli americani a difesa della causa kosovara, accuse di "genocidio" incluse. Da adesso in poi Mosca dovrà però calcolare con molta prudenza le ripercussioni di ogni sua mossa nell'area contesa fra sé e la Nato. Sapendo di non disporre, nel medio-lungo periodo, né del soft power né delle altre risorse utili a sfidare l'America in un gioco a somma zero. E non volendo certo ridursi a super-Stato canaglia, come nei sogni dei più scatenati fra i russofobi baltici.
La prossima partita si gioca in Ucraina. Per Putin quello non è nemmeno uno Stato, ma un insieme di territori eterogenei di cui alcuni a suo tempo ceduti da Mosca in prestito con diritto di riscatto. A cominciare dalla strategica Crimea, non meno russofila di Abkhazia e Ossezia del Sud, offerta in comodato nel 1954 da Krusciov all'Ucraina sovietica. Se Kiev vorrà entrare nella Nato, ha lasciato intendere Putin durante l'ultimo vertice atlantico, lo farà senza le sue regioni "russe". Considerando che finora la maggioranza degli ucraini è contraria all'ingresso nell'Alleanza Atlantica - e visto il "tradimento" della già "pasionaria" arancione, Yulia Timoshenko, a quanto pare disposta a scambiare l'appoggio russo alle prossime elezioni presidenziali con la rinuncia a sfidare Mosca sulla Nato - Putin parte in vantaggio. Rafforzato dalla dimostrazione di saper impiegare la forza per difendere le sue "linee rosse" e dalla parallela ostentazione di impotenza degli Stati Uniti.
Gli attuali successi russi sono figli anzitutto della debolezza americana e delle divisioni fra gli europei. Mosca sa quel che vuole. E agisce di conseguenza. Americani ed europei no, probabilmente perché in fondo intuiscono di volere cose diverse. Solo ricompattandosi l'Occidente potrà recuperare parte del terreno perduto. Non è facile, visto il vuoto di leadership a Washington e le radicate differenze di percezioni e di interessi fra "Vecchia" e "Nuova Europa" riguardo alla Russia. La storia insegna che per mettere d'accordo europei e americani serve una minaccia esterna. A suo tempo, quella sovietica. Oggi le nostre opinioni pubbliche non appaiono troppo sensibili alle zampate dell'orso russo. A meno che, a torto o a ragione, non ci sentissimo minacciati nella continuità degli approvvigionamenti di idrocarburi che via Russia alimentano le nostre economie. Certo, dopo la spartizione della Georgia, i progetti occidentali di oleodotti e gasdotti alternativi a quelli di classica matrice russa appaiono piuttosto fantasiosi. Ma è anche possibile che polacchi, svedesi e baltici, con l'appoggio americano, si rivalgano sabotando Nord Stream, il grandioso progetto di gasdotto sottomarino russo-tedesco, dai forti connotati geopolitici.
Oggi va di moda richiamare la guerra fredda. Il paragone è deviante. Per mille motivi, ma in specie per due. Nel mondo bipolare, Saakashvili e i suoi pari non avrebbero mai potuto disobbedire ai rispettivi padrini (una volta, sul fronte opposto, ci provò Castro e per poco non scoppiò la guerra atomica). E soprattutto, mentre a quei tempi americani e sovietici erano l'alfa e l'omega dell'alfabeto globale, oggi americani e russi sono protagonisti fondamentali (i primi ben più dei secondi), ma non unici, sul palcoscenico internazionale. Negli ultimi anni a Washington ci si è infatti pochissimo occupati di Russia, molto più di Cina, India o radicalismo islamico. Nell'illusione di aver messo l'orso in gabbia, dopo avergli tagliato le unghie. Ma un impero di quelle dimensioni e con quella storia o viene totalmente distrutto o è destinato a rinascere, entro limiti e condizioni nuove.
La sorpresa non è il ritorno di Mosca. È il fatto che non ce l'aspettassimo. Finché non decideremo se abbracciare o soffocare il nuovo impero russo, e faremo seguire alle parole i fatti, sarà solo l'ingordigia o l'imprudenza del Cremlino a frenarne la scalata ai vertici delle gerarchie globali. Mentre l'Occidente resterà una figura retorica, pallida memoria del vittorioso schieramento che fu.
(27 agosto 2008)
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
Vorrei sapere: quella Scienza infusa di Dalema dov'era quando SERVO degli USA riconosceva il Kossovo ?
E si che basterebbe leggere qualche buon libro per sapere che la Russia non è l'Italietta dove "Francia o Spagna, purché se magna" .....
Mai arrivati più in basso di così .....
Kar
E si che basterebbe leggere qualche buon libro per sapere che la Russia non è l'Italietta dove "Francia o Spagna, purché se magna" .....
Mai arrivati più in basso di così .....
Kar
Oggetto: «MAIL AL DIRETTORE TG1 RIOTTA»
forse in barca a vela?? :roll: :roll: :roll:
Karenin ha scritto: [Visualizza Messaggio]Vorrei sapere: quella Scienza infusa di Dalema dov'era quando SERVO degli USA riconosceva il Kossovo ?
E si che basterebbe leggere qualche buon libro per sapere che la Russia non è l'Italietta dove "Francia o Spagna, purché se magna" .....
Mai arrivati più in basso di così .....
Kar
forse in barca a vela?? :roll: :roll: :roll:
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