Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
«I RACCONTI DI BELKIN» di Aleksandr Pushkin
«ПОВЕСТИ БЕЛКИНА» Александра Пушкина

«LE NOVELLE DEL COMPIANTO IVAN PETROVICH BELKIN»
«ПОВЕСТИ ПОКОЙНОГО ИВАНА ПЕТРОВИЧА БЕЛКИНА»
«THE TALES OF THE LATE IVAN PETROVICH BELKIN»,
il cui titolo è tradotto anche come «Racconti del defunto Ivàn Petróviсh Bélkin». È una raccolta di 5 novelle scritte da Aleksandr Pushkin a Bòldino nel 1830 e pubblicate nel 1831.
«I Racconti di Ivan Petròvich Bèlkin» o di solito si chiamano semplicemente «I Racconti di Bèlkin» («Повести Белкина»). Aleksandr Pushkin ha fatto questo ciclo sotto lo pseudonimo di un certo «Bèlkin» («Белкин»). Questo ciclo fanno parte le seguenti novelle:
I.«Un Colpo di Pistola» («Выстрел») «The Shot»
II.«La Tormenta di Neve» («Метель») «The Blizzard»
III.«Il Fabbricante di Barre» («Гробовщик») «The Undertaker»
IV.«Il Capostazione della Posta» («Станционный смотритель») «The Stationmaster»
V.«La Signorina contadina» («Барышня-крестьянка») «The Squire's Daughter»


Vi consiglio di leggere queste storie di Aleksandr Pushkin. Per fare questo ho inserito qui sotto tutte e cinque le storie in italiano in modo che possiate leggerle. Se stai studiando il russo, verrà il momento in cui potrai ancora leggere queste storie nell'originale, in russo. Nel frattempo vi consiglio di leggerlo in italiano in una buona traduzione. Le storie sono brevi e puoi leggerle tutte a poco a poco.
«Le storie del defunto Ivan Petrovich Belkin» è un ciclo di racconti di Aleksandr Pushkin, composto da 5 racconti e pubblicato da lui senza indicare il nome del vero autore, cioè lo stesso Pushkin. Ivan Petròvich Bèlkin è una maschera letteraria inventata da Pushkin: un giovane proprietario terriero che trascorreva il tempo libero scrivendo e morì nel 1828, all'età di 30 anni, di raffreddore. Pushkin scrisse ogni storia in una direzione o nell'altra esistente nella letteratura russa a quel tempo: «Un Colpo di Pistola» («Выстрел») - romanticismo; «La Tormenta di Neve» («Метель»), «Il Capostazione della Posta» («Станционный смотритель») e «La Signorina contadina» («Барышня-крестьянка») sono sentimentalismo; «Il Fabbricante di Barre» («Гробовщик») - contiene elementi di una storia gotica (romanticismo). Il tema del «piccolo uomo» è facilmente distinguibile nelle opere, manifestato, ad esempio, nel racconto «Il Capostazione della Posta». Nella critica letteraria, è stata fatta una conclusione sul realismo dei «Racconti di Belkin»: Pushkin «gioca» con i tratti tipici di una direzione o dell'altra, ironizzandoli, avvicinandoli così alla realtà.





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Descrizione: «LE NOVELLE DEL COMPIANTO IVAN PETROVICH BELKIN»
«THE TALES OF THE LATE IVAN PETROVICH BELKIN» 
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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
Aleksandr Pushkin
«UN COLPO DI PISTOLA» «ВЫСТРЕЛ»

Ci siamo scontrati alla pistola
Baratynskij
Ho giurato di ammazzarlo in duello
(Egli mi deve ancora il mio colpo).
Sera di bivacco

I.
Eravamo nella piccola località di ***. La vita dell’ufficiale in guarnigione e nota. Al mattino istruzione, maneggio; pranzo dal comandante del reggimento о alla trattoria ebraica; di sera il ponce e le carte. A *** non c’era né una casa aperta, né una fidanzata; ci radunavamo l’uno in casa dell’altro, dove, tranne le nostre divise, non vedevamo nulla. Un uomo soltanto apparteneva alla nostra società senz’essere militare. Era vicino ai trentacinque anni; perció lo si considerava vecchio. L’esperienza gli conferiva ai nostri occhi molti privilegi; inoltre la sua tetraggine abituale, il carattere aspro e la cattiva lingua avevano un gran potere sulle nostre giovani menti. Un certo mistero circondava la sua vita; pareva un russo, eppure portava un nome straniero. Un tempo aveva prestato servizio negli ussari, ed anzi con fortuna; nessuno sapeva il motivo che lo aveva indotto a congedarsi e a stabilirsi nel povero paese dov’egli viveva poveramente e insieme dispendiosamente; andava sempre a piedi, con un nero soprabito liso, eppure teneva tavola imbandita per tutti gli ufficiali del nostro reggimento. Il suo pranzo consisteva, e vero, in due о tre portate, preparate da un soldato in congedo, ma lo sciampagna vi scorreva a fiumi. Nessuno conosceva né la sua sostanza, né le sue rendite, e nessuno osava interrogarlo in proposito. C’erano in casa sua libri, per la maggior parte militari, e romanzi. Egli li prestava volentieri, senza mai chiederli di ritorno; in compenso non restituiva mai al proprietario un libro da lui preso. Il suo principale esercizio consisteva nel tiro alla pistola. Le pareti della sua stanza erano tutte crivellate di pallottole, tutte a fori, come gli alveari. Una ricca collezione di pistole era l’unico lusso della povera casetta di fango e paglia, dov’egli abitava. La maestria ch’egli aveva raggiunta era incredibile, e s’egli avesse proposto di colpire con una pallottola una pera dal berretto di chiunque, nessuno del nostro reggimento avrebbe esitato ad esporgli la propria testa. La conversazione fra noi toe cava spesso i duelli; Silvio (lo chiamerò così) non vi s’intrometteva mai. Richiesto se gli fosse accaduto di battersi, rispondeva in tono asciutto di sì, ma non entrava in particolari e si vedeva che tali domande gli riuscivano spiacevoli. Supponevamo ch’egli avesse sulla coscienza qualche disgraziata vittima della sua terribile maestria. Del resto, non ci veniva neanche in mente di sospettare in lui qualcosa di simile alla timidezza. C’e della gente, il cui solo aspetto allontana sospetti di questo genere. Un caso inaspettato ci sbalordì tutti.
Un giorno pranzavano da Silvio una decina di nostri ufficiali. Bevemmo secondo il solito, cioè moltissimo; dopo il pranzo cominciammo a pregare il padrone di casa di tenere il banco. Egli insiste a lungo nel rifiuto, perché non giocava quasi mai; alla fine ordinò di portargli le carte, verso sulla tavola mezzo centinaio di ducati e sede a tener banco. Lo circondammo, e il gioco s’inizio. Silvio aveva l’abitudine di conservare durante il gioco un perfetto silenzio, non discuteva mai e non dava spiegazioni. Se a chi puntava avveniva di sbagliare il calcolo, egli subito о finiva di pagare il resto о segnava l’eccedenza. Noi lo sapevamo già e non gli impedivamo di spadroneggiare a modo suo; ma fra noi si trovava un ufficiale trasferito da poco nel nostro reggimento. Costui, giocando pure li, raddoppiò per distrazione una posta superflua, Silvio prese il gesso e adeguó il conto secondo la sua abitudine. L’ufficiale, credendo ch’egli si fosse sbagliato, si abbandono a spiegazioni. Silvio continuó a tener banco in silenzio. L’ufficiale, perduta la pazienza, prese la spazzola e cancelló quello che gli pareva segnato inutilmente. Silvio prese il gesso e segno di nuovo. L’ufficiale, scaldato dal vino, dal gioco e dal riso dei camerati, si ritenne crudelmente offeso e, afferrato nella collera di sulla tavola un candeliere di rame, lo lancio contro Silvio che fece appena in tempo a schivare il colpo. Restammo sconcertati. Silvio si alzò, impallidì dalla rabbia e con gli occhi scintillanti disse: - Egregio signore, favorite di andarvene, e ringraziate Dio che ció si è accaduto in casa mia!
Non dubitavamo delle conseguenze e ritenevamo il nuovo camerata già ucciso. L’ufficiale uscì, dopo aver detto ch’era pronto a rispondere dell’offesa nel modo che fosse piaciuto al signor banchiere. Il gioco si protrasse per qualche altro minuto, ma, avvertendo che il padrone di casa aveva altro per la testa, ci ritirammo uno dopo l’altro e ce ne andammo ciascuno alla propria abitazione, discorrendo della prossima licenza.
Il giorno dopo, in maneggio, noi già domandavamo se fosse ancora vivo il povero tenente, quando egli stesso comparve fra noi; gli facemmo la stessa domanda. Egli rispose che da Silvio non aveva ancora ricevuto alcuna notizia. Questo ci meraviglió. Andammo da Silvio e lo trovammo in cortile che piantava una pallottola sull’altra in un asso incollato al portone. Egli ci accolse secondo il solito, senza dir parola di quanto era successo la vigilia. Passarono tre giorni. Il tenente era ancora vivo. Chiedevamo con stupore: «Possibile che Silvio non si batta?» Silvio non si batté. Si contentó di un’assai lieve spiegazione e si riconcilio.
Questo lo aveva danneggiato straordinariamente nell’opinione della gioventù. La mancanza di coraggio viene perdonata meno dai giovani, che nel coraggio vedono di solito il culmine delle virtù umane e la scusa di ogni sorta di vizi. Tuttavia, a poco a poco ogni cosa fu dimenticata, e Silvio acquisto di nuovo il suo prestigio di prima.
Io solo non potevo più avvicinarmi a lui. Avendo da natura un’immaginazione romantica, ero stato, prima di questo fatto, più fortemente di tutti legato all’uomo, la cui vita era un enigma e che mi pareva l’eroe di qualche racconto misterioso. Egli mi voleva bene; se non altro, con me solo tralasciava la sua abituale aspra maldicenza e parlava di vari argomenti con bonarietà e con insolita piacevolezza. Ma, dopo la disgraziata sera, l’idea che il suo onore fosse macchiato e non reintegrato per sua stessa volontà, quest’idea non mi abbandonava e m’impediva di trattarlo come prima: mi vergognavo di guardarlo. Silvio era troppo esperto e intelligente per non accorgersene e non indovinare il motivo. Pareva che ció lo amareggiasse; almeno, avevo notato in lui un paio di volte il desiderio di venir con me ad una spiegazione; ma io evitavo tali casi, e Silvio si ritiró da me. Da allora lo incontrai solo in presenza dei camerati, e i nostri sinceri colloqui di prima cessarono.
I distratti abitanti della capitale non hanno idea di molte emozioni così note agli abitanti dei villaggi о delle piccole città; ad esempio, dell’attesa del giorno d’arrivo della posta. Il martedì e il venerdì la cancelleria del nostro reggimento era piena di ufficiali; chi aspettava denaro, chi una lettera, chi i giornali. I pacchi si aprivano di solito li, ci si comunicavano le novità, e la cancelleria presentava un quadro della più grande animazione.
Silvio riceveva le lettere all’indirizzo del nostro reggimento e di solito si trovava anche lui lì. Un giorno gli fu consegnato un plico da cui egli strappó il sigillo con l’aria della più forte impazienza. Scorrendo la lettera, i suoi occhi scintillavano. Gli ufficiali, occupati ciascuno delle proprie lettere, non si accorsero di nulla.



Ultima modifica di Zarevich il 16 Ago 2018 11:18, modificato 3 volte in totale
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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
- Signori, - disse Silvio: - le circostanze esigono ch’io mi assenti immediatamente; parto stanotte; spero che non rifiuterete di pranzare a casa mia per l’ultima volta. Aspetto anche voi, - prosegui, rivolgendosi a me; - vi aspetto senz’altro.
Detto questo, uscì frettolosamente; e noi, dopo esserci accordati di riunirci da Silvio, ce ne andammo ciascuno per la propria strada.
Arrivai da Silvio all’ora stabilita e trovai in casa sua quasi tutto il reggimento. Tutta la sua roba era già imballata; non restavano che le nude pareti, forate dai proiettili. Sedemmo a tavola; il padrone di casa era di uno straordinario buon итоге, e presto la sua allegria divenne generale; i turaccioli sparavano ogni momento, i bicchieri spumeggiavano e fervevano continuamente, e noi con ogni zelo possibile auguravamo al partente buon viaggio e ogni bene. Ci alzammo da tavola ch’era già sera tarda. Mentre si cercavano i berretti, Silvio, accomiatandosi da tutti, mi prese per una mano e mi fermo nell’attimo stesso in cui mi accingevo a uscire.
- Ho bisogno di parlarvi, - disse piano.
Restai.
Gli ospiti se ne andarono; restammo noi due, seduti l’uno in faccia all’altro e accendemmo in silenzio la pipa. Silvio era preoccupato; non c’era più traccia della sua convulsa allegria. Il pallore сuро, gli occhi scintillanti e il denso fumo che gli usciva di bocca gli conferivano l’aspetto di un autentico demonio. Trascorsero alcuni minuti, e Silvio ruppe il silenzio.
Forse, non ci vedremo più, - mi disse. - Prima del distacco, vorrei spiegarmi con voi. Avete potuto notare ch’io stimo poco l’opinione altrui; ma vi voglio bene, e sento che mi peserebbe lasciare nella vostra mente un’impressione ingiusta.
Si fermo e si mise a riempire la sua pipa che aveva finito di bruciare; io tacevo, con gli occhi bassi.
Vi e parso strano, - riprese, - ch’io non abbia chiesto soddisfazione a quel caposcarico ubriaco di R. Ammetterete che, avendo il diritto di scegliere l’arma, la sua vita era nelle mie mani, e che la mia era quasi immune da pericolo: potrei ascrivere la mia moderazione alla mia magnanimità, ma non voglio mentire. Se avessi potuto punire R. senza esporre affatto la mia vita, non lo avrei perdonato.
Guardavo Silvio con stupore. Una tale confessione mi sconcertó del tutto. Silvio prosegui:
E’ cosi: io non ho il diritto di espormi alla morte. Sei anni fa ho ricevuto uno schiaffo, e il mio nemico e ancora vivo.
La mia curiosità era fortemente eccitata.
Non vi siete battuto con lui? - chiesi. - Le circostanze vi hanno, forse, diviso?
Mi sono battuto con lui, - rispose Silvio: - ed ecco il ricordo del nostro duello.
Silvio si alzo e tolse da una scatola di cartone un berretto rosso, gallonato con la nappa (quello che i Francesi chiamano bonnet de police); se lo mise in testa; era forato due dita più in su della fronte.
Voi sapete, - continue» Silvio, - che ho prestato servizio nel *** reggimento degli Usseri. Il mio carattere vi è noto: sono avvezzo a primeggiare, ma da giovane era la mia passione. Ai nostri tempi la turbolenza era di moda: io его il più scalmanato dell’esercito. Ci vantavamo della nostra ubriachezza: superai nel bere il famoso Burcov, decantato da Denis Davydov. I duelli nel nostro reggimento erano frequenti: a tutti avevo preso parte о come testimonio, о come attore. I camerati mi adoravano, e i comandanti del reggimento, che venivano sostituiti ogni momento, mi riguardavano come un male inevitabile.
«Mi deliziavo quieto (o irrequieto) della mia gloria, quando entro nel nostro reggimento un giovane di ricca e illustre nascita (non voglio fame il nome). In vita mia non avevo incontrato mai un uomo così fortunato e così brillante! Immaginatevi la giovinezza, l’intelligenza, la bellezza, l’allegria più furiosa, il coraggio più spensierato, un nome altisonante, il denaro ch’egli non contava mai e che non gli mancava mai, e figuratevi l’impressione ch’egli doveva produrre fra noi! Il mio primato fu scosso.
Sedotto dalla mia gloria, egli aveva cercato la mia amicizia; ma io l’accolsi freddamente, ed egli si allontanò da me senz’alcun rammarico. Lo odiai.
I suoi successi nel reggimento e fra le donne mi facevano disperare. Cominciai a voler litigare con lui; ai miei epigrammi egli rispondeva con epigrammi che sempre mi parevano più inaspettati e spiritosi dei miei, e che certo erano senza confronto più allegri: lui scherzava, mentre io ci mettevo il rancore. Finalmente, al balio di un possidente polacco, vedendolo oggetto dell’attenzione di tutte le signore, e specialmente della stessa padrona di casa che aveva relazione con me, gli dissi all’orecchio qualcosa di volgarmente sgarbato. Egli avvampò in viso e mi diede uno schiaffo. Ci slanciammo per impugnare le sciabole le signore caddero svenute; fummo separati, e quella stessa notte andammo a batterci.
«Era sul far dell’alba. Io stavo al posto convenuto coi miei tre padrini. Aspettavo il mio avversario con un’inesplicabile impazienza. Il sole primaverile sorse, e il caldo già si faceva sentire. Lo scorsi da lontano. Veniva a piedi, con la giubba issata sulla sciabola, in compagnia di un padrino. Gli andammo incontro. Egli si avvicinò, tenendo in mano il berretto pieno di amarene.
I padrini misurarono per noi venti passi. Dovevo tirare per primo; ma l’agitazione della collera era in me cosi forte che non fidandomi della fermezza della mano, gli cedetti il primo colpo, per avere il tempo di calmarmi; il mio avversario non acconsentì. Fu deciso di tirare a sorte: il primo numero tocco a lui, eterno beniamino della fortuna. Egli prese la mira e mi foró il berretto. Ora toccava a me. La sua vita era finalmente nelle mie mani; io lo guardavo avido, cercando di cogliere in lui almeno un’ombra d’inquietudine.
Egli stava sotto il tiro della pistola, scegliendo dal berretto le amarene mature e sputando i noccioli che arrivavano a me. La sua indifferenza mi esasperò. «А che pro’», pensai, «privarlo della vita, quando egli non le dà valore affatto?» Un pensiero maligno mi balenò nella mente. Abbassai la pistola. «А quanto pare», gli dissi, «avete altro per la testa che la morte: vi degnate di far colazione; non vorrei disturbarvi». «Non mi disturbate affatto», replicò: «Sparate pure; del resto, fate come volete. Il vostro colpo rimane a voi, sono sempre pronto ai vostri ordini». Mi rivolsi ai padrini, dicendo che quel giorno non avevo l’intenzione di sparare, e il duello terminò così…
«Mi congedai e mi ritirai in questa piccola località. Da allora non e passato un solo giorno senza ch’io meditassi la vendetta. Adesso la mia ora è giunta…».
Silvio trasse di tasca la lettera ricevuta la mattina e me la diede da leggere. Qualcuno (forse, un suo incaricato di affari) gli scriveva da Mosca che la nota persona doveva presto contrarre legittime nozze con una giovane e bellissima fanciulla.
- Voi indovinate, - disse Silvio, - chi sia questa nota persona. Parto per Mosca. Vedremo se accoglierà con altrettanta indifferenza la morte prima delle sue nozze, come l’aspettava un giorno, mangiando le amarene!
Cosi dicendo, Silvio si alzò, getto in terra con forza il suo berretto e cominció a camminare su e giù per la stanza, come una tigre nella gabbia. Io lo ascoltavo immobile; strani, opposti sentimenti mi agitavano.
Il servo entró e annunció che i cavalli erano pronti. Silvio mi strinse forte la mano; ci baciammo. Egli sali nella carretta, dov’erano due valigie, una con le pistole, l’altra col suo bagaglio. Ci salutammo ancora una volta, e i cavalli presero il trotto.



Ultima modifica di Zarevich il 16 Ago 2018 11:14, modificato 1 volta in totale
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II.
Trascorsero alcuni anni, e circostanze di famiglia mi costrinsero a stabilirmi in un povero villaggio del distretto di ***. Pure occupandomi di amministrazione domestica, io non cessavo di rimpiangere in segreto la mia rumorosa e spensierata vita di prima. Più difficile di tutto era per me abituarmi a trascorrere le sere di primavera e d’inverno nel perfetto isolamento.
Fino all’ora del pranzo riuscivo ancora ad ammazzare il tempo, ragionando con lo starosta, ispezionando i lavori, о visitando i nuovi impianti; ma non appena cominciava ad imbrunire, non sapevo proprio dove batter la testa. I pochi libri, da me trovati sotto gli armadi e in dispensa, li avevo imparati a memoria. Tutte le fiabe che poteva ricordarsi la dispensiera Kirìlovna, mi erano state raccontate; le canzoni delle donne mi empivano di malinconia. Mi ero dato al «liquore non zuccherato», ma mi faceva venire il mal di capo; e poi, confesso, ebbi paura di diventare un bevitore per disperazione, cioè il più disperato bevitore, avendone visto parecchi esempi nel nostro distretto. Di vicini all’intorno non ne avevo, tranne due о tre disperati, la cui conversazione consisteva per lo più nel singhiozzo e in sospiri. L’isolamento era più tollerabile. Perció decisi di andare a letto presto, di pranzare più tardi possibile, in modo da scorciar le serate e da allungare le giornate; e questo mi sembró il miglior partito.
A quattro verste da me c’era una ricca tenuta, appartenente alla contessa B.; ma vi abitava solo l’amministratore, e la contessa aveva visitato la sua proprietà soltanto una volta il primo anno di matrimonio, e non vi aveva trascorso più di un mese. Tuttavia, nella seconda primavera della mia clausura si sparse la voce che la contessa sarebbe venuta col marito nella sua campagna. Infatti, essi arrivarono al principio di giugno.
L’arrivo di un ricco vicino è un avvenimento importante per gli abitanti di campagna. I possidenti e la loro servitù ne parlano un paio di mesi prima e per tre anni dopo. Quanto a me, confesso che la notizia dell’arrivo di una giovane e bellissima vicina aveva agito fortemente su di me; ardevo dall’impazienza di vederla, e perció, la prima domenica dopo il suo arrivo, andai dopo pranzo al villaggio di *** a presentarmi alle Loro Eccellenze, come il vicino piu prossimo e umilissimo servo.
Il lacché m’introdusse nello studio del conte, e andó ad annunciarmi. Il vasto studio era arredato con ogni sfarzo; lungo le pareti stavano scaffali di libri e su ciascuno un busto in bronzo; il camino di marmo era sormontato da un largo specchio; il pavimento tappezzato di stoffa verde e coperto di tappeti: Essendomi disabituato al lusso nel mio povero cantuccio, e non a vendo visto da un pezzo la ricchezza altrui, m’intimidii e rimasi ad aspettare il conte con una specie di trepidazione, come un postulante provinciale attende l’uscita di un ministra.
La porta si aprì, ed entrò un uomo di un trentadue anni, di bellissimo aspetto. Il conte mi si avvicinò con aria franca e affabile: cercai di riprendere animo e feci per presentarmi, ma egli mi prevenne. Sedemmo. Il suo discorso, libero e cortese, dissipó in breve la mia selvatica timidezza; cominciavo già a rientrare nella mia disposizione abituale, quando a un tratto entró la contessa, e la confusione s’impadronì di me più di prima.
In realtà, ella era una bellezza. Il conte mi presentó; volevo apparire disinvolto, ma quanto più cercavo di assumere un’aria spontanea, tanto piu mi sentivo impacciato. Essi, per darmi il tempo di riavermi e di assuefarmi alla nuova conoscenza, si misero a discorrere fra loro, trattandomi come un buon vicino e senza complimenti. Intanto, cominciai a camminare su e giù, osservando i libri e i quadri. Di quadri me ne intendevo poco, ma uno di essi attrasse la mia attenzione. Rappresentava un paesaggio della Svizzera; ma in esso mi colpì non la pittura, bensì il fatto che il quadro era forato da due pallottole, piantate una nell’altra.
Ecco un bel colpo, - dissi, rivolgendomi al conte.
Si, - egli rispose: - e un colpo straordinario. E voi, tirate bene? - prosegui.
Discretamente, - risposi, rallegrandomi che il discorso avesse finalmente toccato un argomento a me familiare. - A trenta passi di distanza non sbaglio una carta da gioco; naturalmente, conoscendo le pistole.
Davvero? - disse la contessa con l’aria di una grande attenzione. - E tu, amico mio, colpiresti una carta a trenta passi di distanza?



Ultima modifica di Zarevich il 16 Ago 2018 11:15, modificato 1 volta in totale
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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
Qualche volta, - rispose il conte, - proveremo. A suo tempo non tiravo male; ma sono già quattro anni che non prendo in mano una pistola.
Oh! - osservai: - in tal caso scommetto che Vostra Eccellenza non colpirebbe una carta nemmeno a venti passi di distanza: la pistola esige un esercizio quotidiano. Lo so per esperienza. Nel nostro reggimento еrо considerato uno dei migliori tiratori. Una volta mi accadde di non prendere in mano la pistola per un mese intero: le mie erano in riparazione; che cose credereste, Eccellenza? La prima volta che ripresi a tirare, mancai quattro volte di seguito una bottiglia a venticinque passi.
«Avevamo un capitano, spiritoso e mattacchione; si ritrovo lì e mi disse: «Si vede, amico mio, che non hai cuore di colpire una bottiglia». No, Eccellenza, non bisogna trascurare questo esercizio; se no, si disimpara addirittura. Il miglior tiratore che mi sia capitato d’incontrare sparava ogni giorno almeno tre volte prima di pranzo. Lo aveva in programma come il bicchierino di vodka.
Il conte e la contessa erano contenti ch’io mi fossi messo a parlare.
E come tirava? - mi domandò il conte.
Ma cosi, Eccellenza: a volte, vedeva che sul muro si era posata una mosca… Voi ridete, contessa? Davvero, ve lo giuro… Scorgeva la mosca e gridava: «Kùzka, la pistola!» Kùzka gli portava la pistola carica. E lui: «Paff!», e conficcava la mosca nel muro!
È sorprendente! - disse il conte. - E come si chiamava?
Silvio, Eccellenza.
Silvio? - esclamò il conte, balzando dal suo posto. - Avete conosciuto Silvio?
Altro che conosciuto, Eccellenza! Eravamo amici; era accolto nel nostro reggimento come un camerata dei nostri; ma sono ormai cinque anni che non ho più notizia di lui. Anche Vostra Eccellenza l’ha, dunque, conosciuto?
L’ho conosciuto, l’ho conosciuto molto bene. Non vi ha raccontato un’avventura molto strana?
Forse lo schiaffo, Eccellenza, che ha ricevuto a un balio da uno scavezzacollo?
E vi ha detto il nome di quello scavezzacollo?
No, Eccellenza, non me l’ha detto… Ah, Eccellenza! - continuai, indovinando la verità. – Scusate… non sapevo… sareste per caso voi?…
- Io stesso, - rispose il conte, con un’aria di straordinario malumore: - e il quadro forato e il ricordo del nostro ultimo incontro.
- Ah, mio caro, - disse la contessa: - non raccontare, per amor di Dio! Avrei paura ad ascoltare.
- No, - risposte il conte: - io racconteró tutto. Egli sa come ho offeso il suo amico: sappia, dunque, come Silvio si è vendicato.
Il conte mi offrì una poltrona, e con la più viva curiosità udii il seguente racconto.
- Cinque anni fa mi sono sposato. Il primo mese, the honey-moon, lo passai qui, in questa campagna. A questa casa devo i più bei momenti della vita e uno dei ricordi più penosi.
«Una sera eravamo usciti a cavallo; il cavallo di mia moglie chi sa perche si era adombrato: ella si spavento, mi diede la briglia e andó a casa a piedi. Io la precedetti. Nel cortilescorsi una vettura da viaggio; mi fu detto che nel mio studio c’era un uomo che non aveva voluto dichiarare il suo nome, ma aveva detto semplicemente di aver da fare con me.
Entrai in questa stanza e scorsi nel buio un uomo, impolverato e con la barba non rasa; egli stava qui, presso il camino. Mi avvicinai a lui, cercando di rawisare i suoi lineamenti.
«Non mi hai riconosciuto, conte?» diss’egli con voce tremante. «Silvio!» esclamai, e, confesso, sentii rizzarmisi a un tratto i capelli. «Precisamente», riprese, «il colpo tocca a me, sono venuto a scaricare la mia pistola; sei pronto?» La pistola gli sporgeva da una tasca laterale.
Misurai venti passi e mi fermai la nell’angolo, pregandolo di sparare al piu presto, prima che tornasse mia moglie. Egli indugiava: chiese un lume. Furono portate le candele. Chiusi la porta, ordinai che nessuno entrasse, e lo pregai di nuovo di sparare. Egli estrasse la pistola e prese la mira… Io contavo i secondi… pensavo a lei… Passo un minuto orribile! Silvio abbassó la mano. «Mi duole», disse, «che la pistola non sia carica di noccioli di amarene… la pallottola e pesante.
«Mi par sempre che il nostro invece di un duello, sia un omicidio: non sono awezzo a mirare contro un inerme. Cominciamo da capo; tiriamo a sorte, chi debba sparar per primo». La testa mi girava… Sembra ch’io non fossi d’accordo… Finalmente, caricammo un’altra pistola, avvolgemmo due biglietti; egli li mise nel berretto, da me forato un giorno; io estrassi di nuovo il primo numero. «Tu conte, sei diabolicamente fortunata», diss’egli con un sorriso che non dimentiche ró mai. Non capisco che cosa avessi, e com’egli avesse potuto indurmi a farlo… ma tirai, e colpii questo quadro.
Il conte indicava col dito il quadro forato; il suo viso ardeva come fuoco. La contessa era piu pallida del suo fazzoletto; io non potei trattenermi da un’esclamazione.
- Io tirai, - prosegui il conte: - e, grazie a Dio, sbagliai; allora Silvio… (in quel momento era davvero orribile) Silvio cominció a puntare contro di me. A un tratto la porta si aprì, Màscia entró e con uno strillo mi si getto al collo. La sua presenza mi restituì tutto il mio coraggio. «Саrа», le dissi: «non vedi, forse, che scherziamo? Come ti sei spaventata! Va’ a bere un bicchier d’acqua e torna qui; ti presenterò un vecchio amico e camerata». Mascia stentava ancora a credere. «Ditemi, mio marito dice la verita?» diss’ella, rivolgendosi al minaccioso Silvio: «E’ vero che tutti e due scherzate?» «Lui scherza sempre, contessa», le rispose Silvio: «Una volta mi ha dato scherzando uno schiaffo, scherzando mi ha forato con una pallottola questo berretto, scherzando ha ora sbagliato contro di me; adesso anche a me e venuta la voglia di scherzare un poco…». Detto ció, voleva prendermi di mira… in presenza di lei! Mascia si getto ai suoi piedi. «Alzati, Mascia; e vergogna!» gridai fuori di me: «Е voi, signore, la smetterete di prendervi gioco di una povera donna? Tirerete о no?» «Non sparerò», risposte Silvio: «sono soddisfatto: ho visto la tua confusione, la tua timidezza; ti ho costretto a tirare contro di me. Mi basta. Mi ricorderai. Ti affido alla tua coscienza».
«Qui fece per andarsene, ma si fermo sulla soglia, si volse a guardare il quadro da me forato, vi tiró contro, quasi senza prendere la mira, e scomparve. Mia moglie giaceva svenuta; la servitù non osava fermarlo e lo guardava con orrore; egli uscì sulla scaletta esterna, chiamò il postiglione e parti prima ch’io fossi riuscito a riavermi.
Il conte tacque. Cosi appresi la fine del racconto, il cui principio mi aveva un tempo impressionato. Col protagonista non mi sono più incontrato. Si dice che Silvio, durante l’insurrezione di Alessandro Ypsilanti, abbia capeggiato un distaccamento di eteristi e sia stato ucciso in battaglia sotto le mura di Skuliany.

 

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Aleksandr Pushkin
«LA TORMENTA DI NEVE» «МЕТЕЛЬ»

«Sui poggi volano i destrieri,
calpestano la profonda neve…
Ecco, in disparte un solitario
tempio di Dio si vede.
……………
A un tratto la tormenta è intorno;
la neve a fiocchi s'abbatte;
fischiando con l'ala un nero corvo
volteggia sulla slitta;
annuncia dolore un profetico lamento!
I frettolosi corsieri
scrutano l'oscura lontananza attenti
sollevando la criniera…»

Vassilij Zhukòvskij

Alla fine dell’anno 1811, epoca memorabile per noi, viveva nella sua tenuta di Nienaràdovo il buon Gavrìla Gavrìlovich R. Era famoso in tutto il circondario per l’ospitalità e per la sua cordialità; i vicini andavano continuamente da lui a mangiare e bere, per giocare a boston con sua moglie, rischiando cinque copèche alla volta, e taluni per veder la loro figlia, Màrja Gavrìlovna, una snella e pallida fanciulla di diciassette anni. Ella era considerata una ricca fidanzata, e molti contavano di averla o di darla in moglie ai figli.
Marja Gavrìlovna era stata educata sui romanzi francesi e, per conseguenza, era innamorata. L’oggetto, da lei prescelto, era un povero alfiere di fanteria che si trovava in licenza nel suo villaggio. S’intende di per sé che il giovane ardeva di eguale passione, e che i genitori della sua bella, avendo notato la loro reciproca inclinazione, avevano vietato alla figlia di pensare a lui, e lo ricevevano peggio di un assessore a riposo.
I nostri innamorati erano in corrispondenza, e ogni giorno s’incontravano a quattr’occhi nella pineta о presso una vecchia cappella. La, scambiavano giuramenti di eterno amore, si lagnavano del loro destino e facevano varie previsioni. Scrivendosi e parlando in tal modo, essi (соm’è molto naturale) arrivarono a questa conclusione: «Se non possiamo respirare l’uno senza l’altro, e la volontà di crudeli genitori impedisce il nostro benessere, non potremmo fare a meno di essa?». S’intende che questa felice idea venne prima in testa al giovane, e ch’essa piacque assai all’immaginazione romantica di Màrja Gavrìlovna.
Sopraggiunse l’inverno e interruppe i loro convegni; ma la corrispondenza divento tanto piu viva. Vladimir Nicolajevich in ogni lettera la supplicava di affidarsi a lui, di sposarsi alla chetichella, di nascondersi per qualche tempo, di gettarsi poi ai piedi dei genitori che, certo, sarebbero alla fine stati commossi dall’eroica costanza e dall’infelicità degli amanti, e avrebbero loro detto senza fallo: «Ragazzi! Venite fra le nostre braccia!».
Marja Gavrilovna titubó a lungo: numerosi disegni di fuga erano stati respinti. Finalmente, ella acconsenti: il giorno stabilito ella doveva non cenare, ritirarsi in camera sua col pretesto di un’emicrania. La sua ancella faceva parte della congiura; tutt’e due dovevano uscire in giardino dalia porta di servizio, trovare, fuori del giardino, la slitta pronta, salirvi e andare cinque verste lontano da Nienaràdovo, al villaggio di Zhàdrino, direttamente in chiesa, dove Vladimir doveva già aspettarle.
La vigilia del giorno decisivo, Màrja Gavrìlovna non dormi tutta la notte; ripose la sua roba, rinvolse la biancheria e gli abiti, scrisse una lunga lettera ad una signorina sensibile, sua arnica, un’altra ai propri genitori. Si accomiatava da loro con le espressioni più commoventi, scusava il proprio fallo con l’invincibile forza della passione e finiva col dire che avrebbe ritenuto come il piu felice momento della vita quello in cui le sarebbe stato concesso di gettarsi ai piedi dei suoi carissimi genitori. Sigillate tutt’e due le lettere con un bollo di Tùla, sul quale erano raffigurati due cuori ardenti con una passabile epigrafe, ella si getto sul letto poco prima dell’alba e si assopì; ma anche qui orribili fantasticherie la svegliavano ogni momento. Ora le pareva che proprio nell’istante in cui ella saliva nella slitta per andare a sposarsi, il padre la fermasse, la trascinasse con rapidità tormentosa sulla neve e la gettasse in un oscuro sotterraneo senza fondo… ed ella volava a capofitto con una inesplicabile angoscia al cuore; ora vedeva Vladimir, steso sull’erba, pallido, insanguinato. Egli, morendo, la pregava con voce penetrante di affrettarsi a sposarlo… Altre visioni mostruose, in¬sensate, le passavano uno dopo l’altra davanti agli occhi. Alla fine, ella si alzó, più pallida del solito e con un mal di capo tutt’altro che simulate. Padre e madre notarono la sua inquietudine; la loro sollecitudine e le continue domande: «Che cos’hai, Màscia? Non stai bene, Màscia?» le laceravano il cuore. Ella cercava di calmarli, di sembrare allegra, e non poteva. Sopraggiunse la sera. Il pensiero ch’ella ormai passava per l’ultima volta il giorno nella sua famiglia le opprimeva il cuore.
Ella era più morta che viva; si accomiatava in segreto da tutte le persone, da tutti gli oggetti che la circondavano. Fu servita la cena; il cuore le batte forte. Con voce tremante ella dichiaró che non aveva voglia di cenare, e cominció a salutare il padre e la madre. Essi la baciarono e, secondo l’abitudine, la benedissero: ella per poco non scoppió a piangere.
In camera sua, si getto nella poltrona e s’inondo di lacrime. L’ancella la persuadeva a calmarsi e a farsi coraggio. Tutto era pronto. Tra una mezz’ora Mascia doveva abbandonar per sempre la casa paterna, la sua stanza, la quieta vita di ragazza… Fuori, c’era la tormenta; il vento ululava, le imposte tremavano e sbattevano; tutto le pareva minaccia e triste presagio. Presto la casa tacque e s’immerse nel sonno. Mascia si avvolse in uno scialle, indossó una cappa imbottita, prese in mano il suo scrigno e use! sulla scaletta esterna della porta di servizio. L’ancella portava dietro di lei due fagotti. Esse scesero in giardino. La tormenta non si placava; il vento soffiava in faccia, come sforzandosi di fermare la giovane malfattrice. A stento esse arrivarono in fondo al giardino.
Sulla strada una slitta le aspettava. I cavalli, intirizziti, non stavano fermi; il cocchiere di Vladimir passeggiava davanti alle stanghe, trattenendo i focosi. Egli aiutó la signorina e la sua ancella a sedersi e a riporre i fagotti e lo scrigno, prese le redini e i cavalli volarono. Avendo così affidata la signorina alla tutela della sorte e all’arte del cocchiere Terioshka, volgiamoci al nostro giovane innamorato.
Vladimir era stato in giro tutto il giorno. La mattina era andato dal prete di Zhàdrino; a malapena si accordó con lui; poi era andato a cercare i testimoni tra i possidenti vicini. Il primo, al quale egli si era presentato, il quarantenne alfiere in congedo Dravin, accettó volentieri. Quell’avventura, assicurava lui, gli ricordava i tempi andati e le scappate degli Usseri.
Egli indusse Vladimir a fermarsi a pranzo da lui e lo convinse che non sarebbe stato difficile trovare gli altri due testimoni. In realtà, subito dopo pranzo, comparvero il geometra Schmidt, coi baffi e gli speroni, e il figlio del Capitano Capo della Polizia Distrettuale, un ragazzo di un sedici anni, da poco entrato in un reggimento di Ulani. Essi non solo accolsero la proposta di Vladimir, ma gli giurarono anche di esser pronti a sacrificar la vita per lui. Vladimir li abbracció con entusiasmo e andó a casa a prepararsi.
Si era già fatta sera da un pezzo. Egli mandó il suo fidato Terioshka a Nienaradovo con la sua trojka e con le istruzioni precise, particolareggiate; per se ordinó di attaccare la piccola slitta a un solo cavallo, e solo, senza cocchiere, si diresse verso Zhàdrino, dove, di li a un paio d’ore, doveva giungere anche Màrja Gavrìlovna. La strada gli era nota, e c’erano venti minuti di tragitto in tutto.
Ma non appena Vladimir uscì dalla cinta in aperta campagna, si alzo il vento, e si formo una tale tormenta ch’egli non vide più nulla. In un momento la strada fu cancellata; i dintorni scomparvero nel buio torbido e giallognolo, attraverso il quale volavano bianchi fiocchi di neve; il cielo si fuse con la terra; Vladimir si ritrovo nei campi e inutilmente voleva ritornare sulla strada; il cavallo camminava a caso e continuamente о saliva su un cumulo, о sprofondava in una buca; la slitta si rovesciava ogni momento. Vladimir cercava solo di non perdere la giusta direzione; ma gli pareva che fosse già passata più di mezz’ora, ed egli non era ancora arrivato al bosco di Zhàdrino. Trascorse un’altra decina di minuti: il bosco non si vedeva ancora. Vladimir viaggiava su un campo solcato da profondi borri. La tormenta non si placava, il cielo non si rischiarava. Il cavallo cominciava a stancarsi, e il sudore colava a grosse gocce dal viso di Vladimir, nonostante ogni momento egli fosse nella neve fino alla cintola.
Alla fine, Vladimir si accorse di andare da un’altra parte. Si fermo: cominció a pensare, a ricordare, a raccapezzarsi, e si convinse che doveva prendere a destra. Prese a destra. Il suo cavallo moveva a stento le gambe. Vladimir era in viaggio già da oltre un’ora. Ma andava, andava, e il campo non finiva mai. Sempre cumuli e borri; ogni momento la slitta si rovesciava, ogni momento egli la rialzava. Il tempo passava; Vladimir cominciava a impensierirsi fortemente.
Alla fine, in disparte, qualcosa cominció a nereggiare. Vladimir volto da quella parte. Avvicinandosi, egli scorse un bosco. «Grazie a Dio», pensó, «ora e vicino». Costeggió il bosco, sperando di capitare subito sulla strada nota o di aggirare il bosco: Zhàdrino si trovava lì dietro. Presto trovo la strada ed entró nell’oscurità degli alberi, spogliati dall’inverno. Il vento non poteva infuriare lì: la strada era piana; il cavallo si riebbe, e Vladimir si calmo.
Ma egli viaggiava, viaggiava, e Zhàdrino non si vedeva.
Il bosco non finiva mai. Vladimir si accorse con orrore di essere entrató in un bosco sconosciuto. La disperazione s’impadronì di lui. Egli sferzó il cavallo; il povero animale prese il trotto, ma presto cominció a rallentare e di lì a un quarto d’ora andó al passo, nonostante ogni sforzo del disgraziato Vladimir.
A poco a poco gli alberi cominciarono a diradarsi, e Vladimir usci dal bosco: Zhàdrino non si vedeva. Doveva esser quasi mezzanotte. Le lacrime gli sgorgarono dagli occhi; egli prosegui a caso. La tempesta si era calmata, le nubi se ne andavano; davanti a lui si stendeva la pianura, coperta da un bianco tappeto ondulato. La notte era abbastanza serena. Egli scorse poco lontano un gruppo di quattro о cinque casupole. Vi si diresse. Davanti alla prima capanna salto fuori della slitta, corse alla finestra e comincio a bussare. Dopo qualche minuto l’imposta di legno si alzo, e un vecchio sporse la barba grigia.
- Che vuoi?
- E lontano Zhàdrino?
- Se Zhàdrino e lontano?
- Sì, sì! È lontano?
- No: ci sarà una decina di verste.
A questa risposta Vladimir si mise le mani nei capelli e rimase immobile, come un condannato a morte.
Ma di dove sei? - continuò il vecchio.
Vladimir non aveva animo a rispondere alle domande.
Tu, vecchio, - diss’egli, - potresti procurarmi dei cavalli fino a Zhàdrino?
Che cavalli vuoi che abbiamo? - rispose il contadino.
- Ma non posso prendere almeno una guida? Pagherò quanto vorra.
Aspetta, - disse il vecchio, abbassando l'imposta - ti manderò fuori mio figlio, lui ti accompagnerà.
Vladimir cominciò ad aspettare. Non era passato un minuto ch’egli si mise di nuovo a bussare. L’imposta si alzò, si mostrò la barba.
Che vuoi?
Che fa tuo figlio?
Adesso viene, calza le scarpe. Oppure hai freddo? Vieni dentro a scaldarti!
Grazie; fa’ presto a mandar fuori il figlio!
Il portone cigolò; ne uscì un giovanottone con un randello in mano e andò innanzi, ora mostrando, ora cercando la strada coperta di cumuli di neve.
- Che ora e? - gli chiese Vladimir.
- Ma presto albeggerà, - risposte il giovane contadino. Vladimir non diceva più parola.
Cantavano i galli ed era già chiaro, quando essi raggiunsero Zhàdrino. La chiesa era chiusa. Vladimir pago la guida e andò dal prete. Lì, nel cortile, la sua trojka non c’era. Quale notizia lo attendeva!
Ma torniamo ai buoni possidenti di Nienaràdovo e vediamo quello che succede in casa loro.
Nulla.
I vecchi si svegliarono e scesero in salotto, Gavrìla Gavìlovich col berretto da notte e la giubba di bayette, Prascòvia Petròvna con la vestaglia da camera, imbottita di ovatta. Fu servito il samovàr, e Gavrìla Gavrìlovich mandó una ragazzetta a informarsi da Marja Gavrìlovna come andasse la sua salute e come avesse riposato. La ragazzetta ritornó, dicendo che la signorina aveva riposato male, ma ora stava meglio, e sarebbe subito scesa in salotto. Infatti, la porta si aprì, e Màrja Gavriìlovna si avvicinó a salutare il babbo e la mamma.
- Come va la tua testa, Màscia? - chiese Gavrìla Gavìlovich.
Meglio, babbino, - rispose Mascia.
Ieri, Mascia, devi aver respirato gas di carbone, - disse Prascòvia Petròvna.
Può darsi, mammina, - rispose Mascia.
Il giorno passo felicemente, ma nella notte Mascia si ammalo. Fu mandate in città per un medico. Egli arrivo verso sera e trovo l’ammalata in delirio. Scoppió una gran febbre e la povera malata si trovò per due settimane sull’orlo della tomba.
Nessuno in casa sapeva della fuga da lei prestabilita. Le lettere, da lei scritte alla vigilia, erano state bruciate; la sua cameriera non aveva detto nulla a nessuno, temendo la collera dei padroni. Il prete, l’alfiere in congedo, il baffuto geometra e il piccolo ulano erano discreti, e avevano ragione di esserlo. Il cocchiere Tereshka non diceva mai nulla di superfluo, nemmeno quando era alticcio. In tal modo il segreto fu serbato da piu di mezza dozzina di congiurati. Ma Màrja Gavrìlovna stessa, nel delirio incessante, svelava il suo segreto. Tuttavia, le sue parole erano cosi incongruenti che la madre, la quale non si allontanava dal suo letto, potè capirne solo che sua figlia era mortalmente innamorata di Vladimir Nicolajevich e che, probabilmente l’amore era la causa della sua malattia. Si consiglió col marito, con alcuni vicini, e infine tutti decisero all’unanimità che, evidentemente, tale era il destino di Màrja Gavrìlovna, che «non si evita quello ch’e prescritto dal cielo», che «la povertà non e un vizio», che «с’è da vivere non con la ricchezza ma con la persona» e cose simili. I proverbi morali risultano di un’utilità sorprendente in quei casi, in cui possiamo escogitare da noi ben poco a nostra giustificazione.



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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
Intanto, la signorina cominciò a rimettersi. Vladimir non si vedeva già da un pezzo in casa di Gavrìla Gavrìlovich e fu spaventato dall’insolita accoglienza. Decisero di mandarlo a chiamare e di annunciargli l’inattesa felicità: il consenso alle nozze. Ma quale fu la sorpresa dei possidenti di Nienaràdovo, quando, in risposta al loro invito, essi ricevettero da lui una lettera quasi folie! Egli dichiarava loro che non avrebbe mai più messo piede in casa loro, e pregava di dimenticare l’infelice, per il quale la morte costituiva Tunica speranza. Di lì a pochi giorni essi appresero che Vladimir era partito per raggiungere l’esercito. Ciò avvenne nel 1812.
A lungo non osarono annunciarlo alla convalescente Mascia. Ella non ricordava mai Vladimir. Ma dopo alcuni mesi, avendo trovato il suo nome fra quelli che si erano distinti ed erano stati gravemente feriti a Borodinò, ella svenne, e fece temere che la febbre le tornasse. Però, grazie a Dio, lo svenimento non ebbe seguito.
Un’altra tristezza la visito: Gavrìla Gavìlovich mori, lasciandola erede di tutta la tenuta. Ma l’eredità non la consolava; ella divideva sinceramente l’amarezza della povera Prascòvia Petròvna, giurava di non separarsi mai da lei; tutt’e due lasciarono Nienaràdovo, luogo di tristi ricordi, e andarono ad abitare nella tenuta di ***.
I pretendenti ronzavano anche qui intorno alla graziosa e ricca fidanzata; ma ella non dava a nessuno la minima speranza. La madre la persuadeva a volte di scegliersi un amico; Màrja Gavrìlovna scoteva la testa e restava sopra pensiero. Vladimir non esisteva più; era morto a Mosca, la vigilia dell’entrata dei Francesi. La sua memoria pareva sacra per Màscia; se non altro, ella serbava tutto quanto poteva ricordarlo: libri, da lui letti un giorno, i suoi disegni, la musica e i versi ch’egli aveva copiato per lei. I vicini, appreso tutto, si stupivano della sua costanza e con curiosità aspettavano l'eroe che doveva alla fine trionfare della mesta fedeltà di questa vergine Artemisia.
Intanto la guerra era stata condotta gloriosamente a termine. I nostri eserciti tornavano dall’estero. Il popolo correva loro incontro. La musica sonava le canzoni «conquistate»: Vive Henri Quatre, valzer tirolesi e arie dell’opera Joconde. Gli ufficiali, partiti per il fronte quasi adolescenti, tornavano, divenuti uomini all’aria guerresca, carichi di croci. I soldati discorrevano allegramente tra loro, mescolando continuamente nel discorso parole tedesche e francesi. Tempo indimenticabile! Tempo di gloria e di entusiasmo! Come forte batteva il cuore russo alla parola: Patria! Come dolci erano le lacrime dell’incontro! Con quale unanimità riunivano i sentimenti della fierezza nazionale e dell’amore verso il Sovrano! E per lui, quale momento era!
Le donne, le donne russe erano allora impareggiabili. La loro freddezza abituale era scomparsa. Il loro entusiasmo era davvero inebbriante, quando, accogliendo i vincitori, esse gridavano: «Urra!».
… e lanciavano in aria le cuffiette.
Chi degli ufficiali di allora non confesserà di esser stato debitore alla donna russa del migliore, del più prezioso premio?...
In quell’epoca splendida Màrja Gavrìlovna viveva con la madre nel governatorato di *** e non aveva visto come tutt’e due le capitali avevano festeggiato il ritorno dell’esercito. Ma nei distretti e nei villaggi l’entusiasmo generale era, forse, ancor più forte. La comparsa in quei luoghi di un ufficiale era per essi un’autentica solennità, e il pretendente in frack aveva la peggio, vicino a lui.
Abbiamo già detto che, nonostante la sua freddezza, Màrja Gavrìlovna era come prima circondata da pretendenti. Ma tutti dovettero ritirarsi, quando comparve nel suo castello il ferito colonnello degli Usseri, Burmìn, con la croce di San Giorgio all’occhiello e con un «pallore interessante», come dicevano le signorine laggiù. Era sui ventisei anni. Era venuto in licenza nei suoi possedimenti che si trovavano vicino alla campagna di Màrja Gavrìlovna. Màrja Gavrìlovna lo favoriva assai. In presenza di lui, la sua solita aria pensosa si animava. Non si poteva dire ch’ella civettasse con lui, ma il poeta, notando il suo contegno, avrebbe detto:
… Se amor non e, che e dunque?...
Burmìn era, in realtà un giovane assai simpatico. Aveva appunto quell’intelligenza che piace alle donne: l’intelligenza delle buone regole e dell’osservazione, senz’alcuna pretesa e spensieratamente ironica. Il suo contegno davanti a Màrja Gavrìlovna era semplice e disinvolto; ma, qualunque cosa ella dicesse о facesse, l’anima e gli sguardi di lui la seguivano addirittura. Egli pareva d’indole quieta e modesta, ma la fama assicurava che un tempo egli era stato un terribile scavezzacollo, ne ciò gli nuoceva nell’opinione di Màrja Gavrìlovna, la quale (come tutte le giovani signore in generale) perdonava volentieri le monellerie che rivelassero un carattere audace e focoso.
Ma più di tutto… (più della sua tenerezza, più della piacevole conversazione, più del pallore interessante, più del braccio fasciato) il silenzio del giovane ussero stuzzicava la curiosità e l’immaginazione di lei. Ella non poteva non ammettere di piacergli molto; anche lui, probabilmente, con la sua intelligenza ed esperienza, poteva aver già notato ch’ella lo favoriva; come mai, dunque, ella non lo aveva ancora visto ai suoi piedi,e non aveva ancora udito la sua dichiarazione? Che cosa lo tratteneva? La timidezza, inseparabile dal vero amore, l’orgoglio о la civetteria di uno scaltro corteggiatore? Ciò era per lei un enigma.
Avendoci pensato bene, ella concluse che la timidezza ne era l'unica causa, e stabili d’incoraggiarlo con una maggiore premura e, secondo le circostanze, anche tenerezza. Preparò la soluzione più inaspettata, e con impazienza attese il momento della spiegazione romanzesca.
Il segreto, qualunque sia, pesa sempre a un cuore di donna. Le azioni strategiche di lei ebbero l’esito desiderato: se non altro, Burmìn si era fatto cosi assorto, e i suoi occhi neri si fermavano con un tale fuoco su Màrja Gavrìlovna, che il momento decisivo pareva ormai prossimo. I vicini parlavano delle nozze, come di una faccenda già definita, e Prascòvia Petròvna si rallegrava che sua figlia avesse trovato finalmente un degno fidanzato.
La vecchietta se ne stava un giorno sola nel salotto, spiegando un gran gioco di pazienza, quando Burmìn entro nella stanza e s’informo subito di Màrja Gavrìlovna.
- E’ in giardino, - rispose la vecchietta: - andate da lei, e io vi aspetterò qui.
Burmìn andó, e la vecchietta si fece il segno della croce e pensò: «Chi sa che tutto finisca oggi stesso!».
Burmìn trovo Màrja Gavrìlovna presso il laghetto, sotto un salice, con un libro in mano, e vestita di bianco, come un’autentica eroina di romanzo. Dopo le prime domande. Màrja Gavrìlovna smise a bella posta di sostenere la conversazione, rafforzando cosi l’impaccio reciproco, dal quale si poteva uscire forse solo con una improvvisa e decisiva spiegazione. E cosi avvenne: Burmìn, avvertendo la difficoltà della propria situazione, dichiarò che da un pezzo cercava l’occasione di aprirle il proprio cuore, e chiese un minuto di attenzione. Màrja Gavrìlovna chiuse il libro e abbassó gli occhi in segno di assenso.
- Vi amo, - disse Burmìn: - vi amo appassionatamente…
Màrja Gavrìlovna arrossi e chinò ancor di più la testa.
- Ho agito incautamente, abbandonandomi alla cara abitudine, all’abitudine di vedervi e di ascoltarvi ogni giorno…
Màrja Gavrìlovna ricordó la prima lettera di St. Preux.
- Ormai e tardi per oppormi alla mia sorte; il vostro ricordo, la vostra cara, impareggiabile immagine sarà d’ora innanzi il tormento e il conforto della mia vita; ma mi resta ancora un grave dovere da compiere, da svelarvi un orribile segreto, e da porre fra noi un’insormontabile barriera…
- Essa e sempre esistita, - interruppe vivamente Màrja Gavrìlovna. - Non potrei mai essere vostra moglie…
- Lo so, - le rispose egli sommesso: - lo so che un tempo avete amato, ma la morte e tre anni di rammarichi… Buona, cara Màrja Gavrìlovna! Non cercate di privarmi dell’ultima consolazione: il pensiero che avreste acconsentito a far la mia felicita, se…
- Tacete, per amor di Dio, tacete! Voi mi straziate.
- Sì, lo so, lo sento che sareste mia, ma sono la più infelice delle creature… Sono ammogliato!
Màrja Gavrìlovna lo guardo con meraviglia.
- Sono ammogliato, - prosegui Burmìn: - sono ammogliato da più di tre anni e non so chi sia mia moglie, né dove sia, né se io debba mai vederla!
- Che cosa dite? - esclamò Màrja Gavrìlovna. - Com’e strano! Continuate; vi racconterò poi… ma continuate, per favore!
- Al principio del 1812, - disse Burmìn, - mi affrettavo verso Vìlno, dove si trovava il nostro reggimento. Arrivato un giorno a una stazione di posta a sera tardi, avevo ordinato di attaccare al più presto i cavalli, quando a un tratto si alzo un’orribile tormenta, e il capostazione e i postiglioni mi consigliarono di attendere. Li ascoltai, ma un’inquietudine inesplicabile s'impadronì di me; pareva che qualcuno mi spingesse addirittura. Intanto la tormenta non si placava: perduta la pazienza, ordinai di nuovo di attaccare i cavalli e partii nel colmo della bufera.
Il postiglione pensò di andare lungo il fiume, cosa che doveva abbreviarci la strada di tre verste. Le rive erano coperte di neve; il postiglione passo oltre quel punto in cui si tornava sulla strada e cosi ci ritrovammo in una regione sconosciuta. La bufera non si placava; scorsi un lumino e ordinai di andare là. Giungemmo in un villaggio; in una chiesa di legno c’era il lume. La chiesa era aperta; dentro il recinto stavano alcune slitte; nell’atrio camminava gente. «Qua! Qua!» gridarono alcune voci. Ordinai al postiglione di avvicinarsi. «Abbi pazienza, dove ti sei indugiato?» mi disse qualcuno: «La fidanzata e svenuta; il prete non sa che fare; eravamo pronti a tornarcene a casa. Vieni fuori presto!» Saltai fuori in silenzio dalia slitta ed entrai nella chiesa, debolmente rischiarata da due o tre candele. Una fanciulla era seduta su una panca nell'angolo buio della chiesa; un’altra le strofinava le tempie. «Grazie a Dio», disse questa: «finalmente siete arrivato. Avete quasi fatto morire la signorina». Il vecchio prete mi si accostò eon la domanda; «Comandate di cominciare?» «Cominciate, cominciate, reverendo», risposi distrattamente.
La fanciulla fu sollevata. Mi parve graziosa… Una sventatezza incomprensibile, imperdonabile… Mi misi accanto a lei davanti al leggio: il prete aveva fretta; tre uomini e la cameriera sostenevano la fidanzata e non erano occupati che di lei. Fummo uniti in matrimonio. «Baciatevi», ci fu detto. Mia moglie volse verso di me il suo pallido viso. Volevo baciarla… Ella esclamò: «Ah, non e lui! Non e lui!» e cadde priva di sensi. I testimoni mi sbarrarono addosso gli occhi spaventati. Mi voltai, uscii dalia chiesa senz’alcun impedimento, mi gettai nella slitta postale e gridai: «Via!»
- Dio mio! - esclamò Màrja Gavrìlovna: - e non sapete che cosa sia avvenuto della vostra povera moglie?
- Non lo so, - rispose Burmìn; - non so come si chiami il villaggio in cui mi sono sposato; non ricordo da quale stazione fossi partito. Allora davo così роса importanza alla mia delittuosa birichinata che, lontano dalla chiesa, mi addormentai e mi svegliai la mattina dopo, già alla terza stazione. Il servo che allora era con me mori in guerra, cosi che non ho nemmeno la speranza di rintracciare quella che ho tanto crudelmente beffata, e che ormai e tanto crudelmente vendicata.
- Dio mio! Dio mio! - disse Màrja Gavrìlovna, afferrandogli una mano; - Siete stato dunque voi! E non mi riconoscete?
Burmìn impallidì… e si gettò ai suoi piedi…

 

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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
Aleksandr Pushkin
«IL FABBRICANTE DI BARE» «ГРОБОВЩИК»

Non vediamo ogni giorno bare,
canizie del mondo che invecchia?
Derzhavin


Le ultime masserizie del fabbricante di bare Adriano Pròkhorov furono caricate sul carro funebre, e la sparuta pariglia si triscinó per la quarta volta da via Basmànnaja in via Nikìtskaja, dove il fabbricante di bare si trasferiva con tutta la sua casa. Dopo aver chiuso il negozio, egli inchiodó sul portone l’avviso che la casa era in vendita e si dava anche in affitto, e si avvio a piedi verso la nuova dimora.
Avvicinandosi alla casetta gialla che già da un pezzo seduceva la sua immaginazione e che alla fine era stata da lui comprata per una somma rilevante, il vecchio fabbricante di bare sentiva con stupore che il suo cuore non si rallegrava. Varcata la soglia sconosciuta e trovando nella sua nuova dimora lo scompiglio, egli sospirò la casupola decrepita, in cui durante diciotto anni tutto era andato secondo il più rigido ordine; cominciò a rimproverare tutte e due le proprie figlie e la domestica per la loro lentezza e si accinse ad aiutarle.
Presto l’ordine fu ristabilito; la custodia con le immagini sacre, l’armadio con le stoviglie, la tavola, il divano e il letto occuparono gli angoli a loro destinati nella stanza di fondo; in cucina e nel salotto furono collocati i manufatti del padrone di casa: bare di ogni colore e di ogni misura, cosi pure gli scaffali coi cappelli a lutto, i manti e le fiaccole. A1 di sopra del portone fu issata un’insegna raffigurante un corpulento Amorino con una fiaccola rovesciata in mano, e sotto la scritta: «Qui si vendono e si ricoprono di stoffa bare semplici e colorate, cosi pure si danno a nolo e si aggiustano quelle vecchie».
Le ragazze andarono nella loro stanza: Adriano fece il giro della sua abitazione, sedette alla finestra e ordinò di preparargli il samovàr.
Il lettore colto sa che Shakespeare e Walter Scott hanno tutti e due rappresentato i loro beccamorti come uomini allegri e scherzosi per colpire più fortemente con questo contrasto la nostra immaginazione. Per rispetto alla verità, non possiamo
seguire il loro esempio e siamo costretti a confessare che l’indole del nostro fabbricante di bare corrispondeva perfettamente al suo tetro mestiere. Adriano Pròkhorov era di solito cupo e pensieroso. Rompeva il silenzio soltanto per fare la ramanzina alle figlie, quando le sorprendeva sfaccendate, intente a guardar dalia finestra i passanti, о per chiedere per le sue creazioni un prezzo esagerato a coloro che avevano la disgrazia (e talvolta anche il piacere) di averne bisogno.
E così, Adriano, seduto alla finestra e bevendo la settima tazza di te, secondo l’abitudine, era immerso in meste meditazioni. Pensava alla pioggia dirotta che, una settimana prima aveva bagnato proprio alla barriera i funerali di un brigadiere in congedo. Parecchi manti si erano perció ristretti, parecchi cappelli si erano imbarcati. Prevedeva spese inevitabili, poiché l’antica provvista dei suoi abbigliamenti funebri era ridotta in pietoso stato. Sperava di rifarsi del danno sulla vecchia mercantessa Triùkhin che da circa un anno era moribonda. Ma la Triùkhin moriva a Rasguljaj, e Pròkhorov temeva che i suoi eredi, nonostante la promessa, non mandassero per pigrizia a chiamarlo cosi lontano e si accordassero con l’impresario più vicino.
Tutte queste meditazioni furono interrotte inaspettatamente da tre colpi massonici alla porta.
Chi e? - chiese il fabbricante di bare.
La porta si aprì, e un uomo, in cui al primo sguardo si poteva riconoscere un artigiano tedesco, entrò nella stanza e con aria allegra si avvicino al fabbricante di bare.
Scusate, caro vicino, - diss’egli in quel dialetto russo che non possiamo ancora udire senza riderne: - Scusate se vi ho disturbato… Desideravo di conoscervi al più presto. Sono calzolaio, mi chiamo Gottlieb Schulz, e abito dall’altra parte della via, in quella casetta ch’è di fronte alle vostre finestre. Domani festeggio le mie nozze d’argento, e invito voi e le vostre figliole a voler pranzare da me alla buona.
L’invito fu accolto affabilmente. Il fabbricante di bare prego il calzolaio di sedersi e di bere una tazza di te, e grazie all’indole aperta di Gottlieb Schulz, essi in breve presero a conversare amichevolmente.
Come vanno gli affari di vostra grazia? - domando Adriano.
Eh, eh, eh! - rispose Schulz: - Così e così. Non posso lamentarmi. Sebbene, certo, la mia merce non sia come la vostra: un vivo può fare a meno de le scarpe, mentre un morto non campa senza la bara.
- E proprio vero, - osservo Adriano. - Però, se un vivo non ha di che comprarsi le scarpe, allora, non adirartene, va in giro anche scalzo; ma un morto mendico si prende la bara anche gratis.
Così la loro conversazione si protrasse per qualche tempo; alla fine, il calzolaio si alzo e si accomiatò dal fabbricante di bare, rinnovandogli l’invito.
Il giorno dopo, a mezzogiorno in punto, il fabbricante di bare e le sue figlie uscirono dalla casa acquistata di fresco e andarono dal vicino. Non staro a descrivere né il caffettano russo di Adriano Pròkhorov, né la foggia europea degli abiti di Akulìna e Dàrja, scostandomi in questo caso dall’usanza dei romanzieri contemporanei. Ritengo, tuttavia, non superfluoosservare che tutt’e due le ragazze si erano messe cappellini gialli e scarpette rosse, cosa che facevano soltanto nelle occasioni solenni.
L’angusto appartamento del calzolaio era zeppo di ospiti, per la maggior parte artigiani tedeschi, con le loro mogli e i garzoni. Di funzonari russi c’era solo una guardia di polizia municipale, il finnico Jurko, il quale aveva saputo, nonostante il suo sguardo modesto, cattivarsi una particolare benevolenza del padrone di casa. Aveva servito venticinque anni con fedeltà ed onore in quel grado, come fattorino postale di Pogorièlskij. L’incendio del 1812, avendo distrutto l’antica capitale, aveva annientato anche il suo misero casotto. Ma subito dopo la cacciata del nemico, al posto di quello comparve uno nuovo, grigio con le colonnine bianche di ordine dorico, e Jurko aveva ripreso a passeggiargli davanti con la scure e in divisa di panno grigio. Egli conosceva la maggior parte dei tedeschi che abitavano vicino alla porta di S. Nikìta; ad alcuni di essi accadeva persino di pernottare da Jurko dalla domenica al lunedì.
Adriano fece subito conoscenza con lui, come con l’uomo di cui presto о tardi poteva accadergli di aver bisogno, e non appena gli ospiti andarono a tavola, essi presero posto l’uno accanto all’altro. Il signore e la signora Schulz e la loro figliola la diciassettenne Lottchen, pranzando con gli ospiti tutti insieme, offrivano i cibi e aiutavano la cuoca a servire. La birra scorre va in abbondanza. Jurko mangiava per quattro; Adriano non era da meno di lui; le sue figlie facevano complimenti; la conversazione in lingua tedesca diventava sempre più rumorosa. A un tratto il padrone di casa chiese un momento di attenzione e, stappando una bottiglia incatramata, proferi ad alta voce in russo: «Alla salute della mia buona Luisa!».



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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
Lo sciampagna spumeggió. Il padrone di casa baciò teneramente il fresco viso della sua compagna quarantenne, e gli ospiti bevvero rumorosamente alla salute della buona Luisa.
- Alla salute dei miei cari ospiti! - dichiaro il padrone di casa, stappando un’altra bottiglia, e gli ospiti lo ringraziarono, asciugando di nuovo i bicchieri.
Qui i brindisi cominciarono a susseguirsi; si beveva alla salute di ogni ospite in particolare, si beveva alia salute di Mosca e di un’intera dozzina di piccole città germaniche, si beveva alla salute di tutti i boemi in generale e di ciascuno in particolare, si beveva alla salute degli artigiani e dei garzoni. Adriano beveva con zelo e si era fatto così allegro che propose a sua volta un brindisi scherzoso.
A un tratto uno degli ospiti, un grasso fornaio, alzo il bicchiere ed esclamo:
- Alla salute di coloro, per i quali lavoriamo, unserer Kundleute
La proposta, come tutte, fu accolta con cordiale unanimità. Gli ospiti cominciarono a scambiarsi inchini, il sarto col calzolaio, il calzolaio col sarto, il fornaio con tutti e due loro, tutti col fornaio, e cosi via. Jurko, in mezzo a questi reciproci inchini, gridó, rivolgendosi al suo vicino di tavola:
- Ebbene? Bevi, caro, alla salute dei tuoi morti!
Tutti risero, ma il fabbricante di bare si ritenne offeso e si acciglio. Nessuno se ne accorse; gli ospiti continuarono a bere, e già sonavano i vespri, quando si alzarono da tavola.
Gli ospiti se ne andarono tardi, per la maggior parte brilli. Il grasso fornaio e il rilegatore, il cui viso pareva rilegato in marocchino rosso, condussero a braccetto Jurko al suo casotto, osservando in questo caso il proverbio russo: il debito e bello quand’e pagato. Il fabbricante di bare rincasò ubriaco e in collera.
Che cosa vuol dire, infine? - ragionava ad alta voce. – Perché il mio mestiere non dovrebbe essere onorato come gli altri? Forse che il fabbricante di bare e compagno del boia? Di che ridono gli infedeli? Forse che il fabbricante di bare e un giullare natalizio? Vorrei convitarli nella casa nuova, offrir loro un banchetto coi fiocchi; ma non sia mai! Conviterò quelli per cui lavoro: i morti ortodossi!
Che cosa dici, padron mio? - disse la domestica che intanto gli toglieva gli stivali: - Che fandonie stai inventando? Fatti il segno della croce! Convitare i morti a festeggiar la casa nuova? Che spavento!
- Li conviterò, giuro! - prosegui Adriano: - E per domani stesso. Favorite, miei benefattori, a banchettare in casa mia domani sera; vi offriró quel poco che Iddio mi manda.
Ció dicendo, il fabbricante andó a coricarsi e si mise presto a russare.
Fuori era ancora buio, quando Adriano fu svegliato. La mercantessa Triùkhin era morta quella stessa notte, e un messo del suo amministratore era corso da Adriano con quella notizia. Il fabbricante di bare gli diede dieci copeche di mancia, si veste in fretta, prese un vetturino e andò a Rasguljaj. Davanti al portone della casa della defunta c’era già la polizia e passeggiavano innanzi e indietro i mercanti, come corvi, al sentore del cadavere. La defunta giaceva sulla tavola, gialla come la cera, ma non ancora sfigurata dalia decomposizione. Intorno a lei si accalcavano i parenti, i vicini e i familiari. Tutte le finestre erano aperte, i ceri ardevano; i preti recitavano le preci. Adriano si avvicinò al nipote della Triùkhin, un giovane mercante in soprabito alla moda, dichiarandogli che la bara, i ceri, il drappo e gli altri oggetti funebri gli sarebbero stati subito portati lì in perfetto ordine. L’erede lo ringraziò distrattamente, dicendo ch’egli non tirava di prezzo, ma che in tutto si affidava alla sua coscienza. Il fabbricante di bare, secondo il suo solito, giurò che non avrebbe preso nulla in più del lecito; scambio uno sguardo significativo con l’amministratore e andò a provvedere. Viaggio l’intera giornata da Rasguljaj alla porta di S. Nikìta e indietro; verso sera accomodò tutto e si avvio a piedi verso casa, dopo aver licenziato il vetturino. Era una notte di luna. Il fabbricante di bare arrivo felicemente fino alla porta di S. Nikìta. Davanti alla chiesa dell’Ascensione lo chiamó il nostro conoscente Jurko e, ravvisato il fabbricante di bare, gli augurò la buona notte. Era tardi. Il fabbricante di bare si avvicinava già a casa sua, quando gli sembrò che qualcuno si fosse avvicinato al suo portone, avesse aperto la porta e fosse entrato. «Che cosa vorrà dire?» pensò Adriano: «Chi avrà di nuovo bisogno di me? Che sia entrato un ladro in casa mia? Che vadano degli amanti dalle mie stupide donne? Non ci mancherebbe altro!». E il fabbricante di bare stava per chiamare in aiuto il suo amico Jurko. In quel momento qualcun altro si avvicinò alla porta e si accingeva a entrare, ma, scorto il padrone di casa che veniva di corsa, si fermo e si tolse il tricorno. Ad Adriano il suo viso parve noto, ma nella fretta egli non potè scorgerlo a dovere.
- Avete favorito da me, - disse Adriano, col fiato grosso:
- Entrate, per favore!
- Non far complimenti, caro, - rispose l’altro con voce sorda: — va’ pure avanti; mostra la strada agli ospiti!
Adriano non aveva neanche il tempo di far complimenti. La porta era aperta, egli andò su per la scala, e l’altro dietro. Ad Adriano sembrò che per le sue stanze camminasse gente. «Che diavoleria!» pensó e si affrettò a entrare… Qui le gambe gli si piegarono.
La stanza era piena di morti. La luna attraverso le finestre illuminava i loro volti gialli e azzurri, le bocche infossate, i torbidi occhi socchiusi e i nasi profilati… Adriano ravviso in essi con orrore le persone sepolte dal suo zelo, e nell’ospite, entrato insieme con lui, il brigadiere, sepolto durante la pioggia dirotta. Tutti, uomini e donne, circondarono il fabbricante di bare con inchini e saluti, tranne un poveraccio, sepolto di fresco gratuitamente, il quale, peritandosi e vergognandosi del suo camiciotto, non si avvicinava e stava quieto in un angolo. Gli altri erano tutti vestiti decentemente: le defunte con le cuffiette e i nastri, i defunti funzionari in uniforme, ma con le barbe non rase, i mercanti con i caffettani della domenica.
Vedi, Pròkhorov, - disse il brigadiere a nome di tutta la rispettabile compagnia: - tutti ci siamo alzati al tuo invito. Sono rimasti a casa soltanto quelli che ormai non ne possono più, che si sono addirittura disfatti, e quelli che hanno ormai le sole ossa senza pelle, ma anche di loro uno non ha resistito, tanto desiderava di venir da te…
In quel momento, un piccolo scheletro sguscio tra la folla e si avvicinò ad Adriano. Il suo teschio sorrideva affabilmente al fabbricante di bare. Brandelli di panno rosso e verdechiaro e di vecchio lino gli pendevano qua e là di dosso, come da una pertica, e le ossa dei piedi si dibattevano negli alti stivaloni coi risvolti, come pestelli in mortali.
Non mi hai riconosciuto, Pròkhorov, - disse lo scheletro. - Ricordi il sergente in congedo della Guardia Pietro Petròvich Kurìlkin, quello stesso a cui, nel 1799, vendesti la tua prima bara, e per giunta di abete invece che di quercia?
Ció dicendo, il morto stese verso di lui le ossa delle braccia; ma Adriano, fattosi animo, getto un grido e lo respinse. Pietro Petrovich vacillo, cadde, e si sparse in terra. Tra i morti si alzò un mormorio d’indignazione; tutti s’intromisero per l’onore del loro camerata, assalirono Adriano con ingiurie e minacce, e il povero padrone di casa, assordato dalle loro grida e quasi schiacciato, perse la presenza di spirito, cadde a sua volta sulle ossa del sergente della Guardia in congedo e svenne.
Il sole illuminava da un pezzo il letto su cui giaceva il fabbricante di bare. Alla fine, egli aprì gli occhi e vide davanti a se la domestica che soffiava nel samovàr, sulla carbonella. Con orrore Adriano ricordò tutti gli avvenimenti della vigilia. La Triùkhin, il brigadiere e il sergente Kurìlkin si presentarono confusamente alla sua immaginazione. Egli aspettava in silenzio che la domestica attaccasse discorso con lui e riferisse sulle conseguenze delle avventure notturne.
- Come hai dormito sodo, padron mio, Adriano Prokhorovich! — disse Aksìnja, porgendogli la veste da camera. – E’ stato da te il vicino sarto, e il fornaio di qui e corso a dirti che oggi c’e un onomastico «private», ma tu dormivi, e non abbiamo voluto svegliarti.
- E sono venuti a cercarmi da parte della defunta Triùkhin?
- Defunta? È forse morta?
- Che stupida! Non mi hai forse aiutato tu stessa ieri a preparare i suoi funerali?
- Che cosa dici, padron mio! Sei forse impazzito, o i fumi di ieri non ti sono ancora passati? Che funerali mai ci sono stati ieri? Hai banchettato tutto il giorno dal tedesco, sei tomato ubriaco, ti sei messo a letto, e hai dormito finora, ch’e già sonata la messa.
- Davvero? - disse, rallegrandosi, il fabbricante di bare.
- S’intende ch’e così, - rispose la domestica.
- Be’, se e così, dammi presto il te, e chiama le figliole.

 

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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
Aleksandr Pushkin
«IL CAPOSTAZIONE DELLA POSTA» «СТАНЦИОННЫЙ СМОТРИТЕЛЬ»

Un registratore di collegio
È il dittatore della stazione postale.
Principe Viasemskij


Chi non ha maledetto i capistazione della posta, chi non ha litigato con loro? Chi, in un momento d’ira, non ha chiesto loro il fatale registro per scrivere nel medesimo il proprio inutile reclamo contro il sopruso, lo sgarbo e la scorrettezza? Chi non li reputa rifiuti del genere umano, simili agli scrivani di cancelleria o, per lo meno, ai briganti di Mùrom? Siamo, tuttavia, giusti; cerchiamo di metterci nei loro panni e, forse, li giudicheremo in modo assai più indulgente. Che cos’è un capostazione della posta? Un autentico martire dell’ultima categoria, difeso dalie busse soltanto dal suo grado, e nemmeno sempre (mi rimetto alla coscienza dei miei lettori). Che cos’è la mansione di questo «dittatore», come lo chiama scherzosamente il principe Viàsemskij? Non è forse un’autentica galera? Non ha pace né dì né notte. Tutto il dispetto, accumulate durante il noioso viaggio, il viaggiatore lo sfoga sul capostazione.
È insopportabile il tempo, e cattiva la strada, e caparbio il postiglione, i cavalli non tirano, e la colpa e del capostazione. Entrando nel suo povero abituro, il passeggero lo guarda come un nemico; e ancora assai, s’egli riesce a disfarsi presto dell’ospite inatteso, ma se, per caso, non ha cavalli di ricambio?… Dio! Quali ingiurie, quali minacce si riversano sulla sua testa! Sotto la pioggia e col fango egli e costretto a correre qua e lì per i cortili; con la bufera, col gelo dell’Epifania esce nell’andito per riposarsi almeno un attimo dalie grida e dagli urtoni dell’irritato locatario.
Arriva un generale: il capostazione tremante gli da le due ultimę troike, compresa quella del corriere. Il generale parte, senz’averlo nemmeno ringraziato. Dopo cinque minuti: un sonaglio!… e un corriere di gabinetto gli getta sulla tavola il suo foglio di via! …
Penetriamo ben bene in tutto ciò, e anziché d’indignazione, il nostro cuore si riempirà di sincera compassione. Ancora qualche parola: per vent’anni di seguito, ho percorso la Russia
in ogni direzione; quasi tutte le strade postali mi sono note; conosco alcune generazioni di postiglioni; sono rari i capistazione dei quali non conosco la faccia, sono rari quelli con cui io non abbia avuto a che fare; la curiosa provvista delle mie impressioni di viaggio, spero di poterla pubblicare quanto prima; intanto, dirò solo che il ceto dei capistazione della posta e presentato all’opinione pubblica nella luce più falsa. Questi così calunniati capistazione sono in generale uomini pacifici, servizievoli per natura, inclini alla socievolezza, modesti nell’aspirazione agli onori, e non troppo venali. Dai loro discorsi (che i signori passeggeri sdegnano a sproposito) si può attingere molte cose interessanti e istruttive. Quanto a me, confesso che preferisco la loro conversazione ai discorsi di un qualche funzionario di sesta categoria, in viaggio per servizio governativo.
È facile indovinare che ho degli amici nel rispettabile ceto dei capistazione. In realta, il ricordo di uno di essi mi è carissimo. Le circostanze ci avevano un tempo avvicinati, e appunto di lui ho intenzione di conversare ora coi gentili lettori.
Nel 1816, in maggio, mi avvenne di passare attraverso il governatorato di ***, lungo una strada postale ora soppressa. Rivestivo un grado minimo, viaggiavo coi cavalli di ricambio e pagavo la tariffa per due soli cavalli. Perciò i capistazione non facevano complimenti con me, e spesso prendevo con la forza quanto, a mio avviso, mi spettava di diritto. Essendo giovane e irascibile, m’indignavo della bassezza e della pusillanimità del capostazione, quando quest’ultimo attaccava il tiro a tre preparato per me alla carrozza di un signore titolato. Altrettanto a lungo stentai ad abituarmi anche al fatto che un servo di un certo discernimento mi servisse per ultimo al pranzo del governatore. Oggi l’una e l’altra cosa mi pare naturale. In realtà, che cosa accadrebbe se, invece della regola comoda per tutti: un grado rispetti l’altro, ne entrasse nella consuetudine un’altra, ad esempio: un’intelligenza rispetti l’altra? Quali dispute sorgerebbero! E da chi i servi comincerebbero a servire le portate? Ma mi volgo al mio racconto.
La giornata era calda. A tre verste dalia stazione di *** si era messo a pioviscolare, e di lì a un minuto una pioggia dirotta mi bagno fino alle ossa. Giunto alla stazione, il mio primo pensiero fu quello di cambiarmi; il secondo, di ordinarmi il te.
- Ehi, Dùnia! - gridó il capostazione: - Accendi il samovàr, e va’ a prendere la panna!
A queste parole comparve da dietro a un tramezzo una bambina di un quattordici anni e corse nell’andito. La sua bellezza mi colpì.
È tua figlia? - chiesi al capostazione.
Sissignore, - egli rispose con l’aria dell’amor proprio soddisfatto: - ed è così assennata, così svelta, tutta sua madre buon’anima.
Qui si accinse a trascrivere il mio foglio di via, e io mi misi a osservare dei quadretti che adornavano la sua umile ma linda dimora. Essi raffiguravano la storia del figliol prodigo; nel primo, un vecchio venerando col berretto da notte e la veste da camera congeda l’irrequieto giovane che in fretta riceve la sua benedizione e la borsa col denaro. Nell’altro, a chiare tinte e rappresentato il contegno dissoluto del giovane; costui siede a tavola, circondato da falsi amici e da donnę spudorate. Poi, il giovane squattrinato, vestito di cenci e col tricorno, pascola i porci e divide con essi la mensa; nel suo viso e espressa una profonda tristezza mista di pentimento. Infine e rappresentato il suo ritorno al padre: il buon vecchio con lo stesso berretto da notte e con la solita veste da camera gli corre incontro: il figliol prodigo sta in ginocchio; in prospettiva, il cuoco sgozza un pasciuto vitello, e il fratello maggiore interroga i servi sul motivo di una tale gioia. Sotto ogni quadretto lessi decenti versi tedeschi. Tutto ció si è conservato nella mia memoria, come anche i vasi con la balsamina e il letto dalla tenda sgargiante e gli altri oggetti che mi circondavano allora. Vedo, come se fos¬se oggi, lo stesso padrone di casa, un uomo sulla cinquantina, fresco e arzillo, e il suo lungo soprabito verde con tre medaglie dai nastri sbiaditi.
Non avevo fatto in tempo a regolare i conti col mio postiglione di prima, che Dùnia rientrò col samovàr. La piccola civetta noto sin dalla prima occhiata l’impressione da lei prodotta su di me; abbassò i gran di occhi celesti, io presi a discorrere con lei; mi rispondeva senz’alcuna timidezza, come una ragazza esperta. Offersi a sua padre un bicchiere di ponce; a Dunia diedi una tazza di te, e in tre cominciammo a conversare, come se ci fossimo conosciuti da un secolo.
I cavalli erano pronti da un pezzo, e io non volevo separarmi dal capostazione e da sua figlia. Alla fine, mi accomiatai da loro; il padre mi augurò buon viaggio, e la figlia mi accompagno fino alla carretta. Nell’andito mi fermai e le chiesi il permesso di darle un bacio. Dunia acconsentì… Molti baci posso annoverare
da quando m'occupo di ciò, ma nessuno ha lasciato in me un cosi lungo, un cosi grato ricordo.
Trascorsero alcuni anni, e dalle circostanze fui condotto su quella stessa strada postale, in quegli stessi luoghi. Rammentai la figlia del vecchio capostazione e mi rallegrai al pensiero di rivederla. «Ма», pensai, «il vecchio capostazione sarà stato sostituito, Dunia si sarà maritata». Il pensiero della morte dell’uno о dell’altra mi balenò pure nella mente, e mi avvicinavo alla stazione di *** con un triste presagio. I cavalli si fermarono davanti alla casetta postale. Entrato nella stanza, riconobbi subito i quadretti che raffiguravano la storia del figliol prodigo; la tavola e il letto stavano al posto di prima, ma sui davanzali non c’erano più fiori, e tutto intorno rivelava abbandono e negligenza. Il capostazione dormiva sotto la pelliccia di montone; il mio arrivo lo sveglio; egli si alzò… Era proprio Simeon Vyrin; ma come invecchiato! Mentre si accingeva a trascrivere il mio foglio di via, guardavo la sua canizie, le profonde rughe del viso non raso da un pezzo, la schiena incurvata, e non potevo finire di meravigliarmi come tre о quattro anni avessero potuto trasformare un uomo aitante in un vecchio malaticcio.
Mi hai riconosciuto - gli chiesi. - Siamo vecchi conoscenti.
Può darsi, - rispose egli tetro. - Qui la strada e grande; molta gente di passaggio e stata in casa mia.
Sta bene la tua Dunia? - continuai.
Il vecchio si acciglió.
Lo sa Dio, - rispose.
E dunque maritata? - dissi.
Il vecchio finse di non avere udito la mia domanda, e continuó a leggere sottovoce il mio foglio di via. Troncai le mie domande e ordinai di preparare il te. La curiosità cominciava a inquietarmi, e speravo che il ponce sciogliesse la lingua del vecchio conoscente.
Non mi sbagliai: il vecchio non rifiutó il bicchiere che gli offrivo. Notai che il rum aveva rischiarato la sua tetraggine. Al secondo bicchiere egli divento loquace; si ricordó, o mostró di essersi ricordato di me, e appresi da lui un racconto che allora m’interesso e commosse fortemente.
- Così che avete conosciuto la mia Dunia? - cominciò egli. - E chi non la conosceva? Ah, Dunia, Dunia! Che ragazza era mai! Chiunque venisse, ognuno la lodava, nessuno la biasimava. Le signore le donavano ora un fazzoletto, ora un paio di orecchini. I signori passeggeri si fermavano apposta, col pretesto di pranzare, o di cenare, ma in realtà solo per ammirarla più a lungo. A volte, un signore, per quanto rabbioso, in sua presenza si acquietava e parlava con me in tono clemente. Mi credereste, signore? Messi, corrieri di gabinetto conversavano con lei delle mezz’ore. Su lei si reggeva la casa: quanto c’era da riordinare, quando c’era da preparare, faceva in tempo a far tutto. E io, vecchio imbecille, non mi saziavo diguardarla, di rallegrarmene; amavo forsę poco la mia Dunia, non accarezzavo abbastanza la mia creatura? Non le rendevo bella la vita? Ma no, il guaio non si scongiura: quello ch’e destinato non si evita.
Qui egli si mise a raccontarmi particolareggiatamente il suo dolore. Tre anni prima, una sera d’inverno, mentre il capostazione rigava un registro nuovo, e sua figlia dietro il tramezzo si cuciva un vestito, arrivo una troika, e un passeggero col berretto circasso, un cappotto militare, avvolto in una sciarpa, entró nella stanza, chiedendo i cavalli di ricambio. I cavalli erano tutti in servizio. A questa notizia, il viaggiatore alzò la voce e
staffile; ma Dunia, avvezza a scene simili, corse fuori da dietro al tramezzo e si rivolse affabilmente al passeggero con la domanda se gradisse di mangiar qualcosa. L’apparizione della Dunia produsse il suo solito effetto. L’ira del passeggero si placo; egli acconsenti ad aspettare i cavalli e si ordinó da cena. Toltosi il bagnato, ispido berretto, districata la sciarpa e sfilato
cappotto, il passeggero si rivelo un giovane ussero di bell’aspetto dai baffetti neri. Si assestò dal capostazione, cominciò a discorrere allegramente con lui e con sua figlia. Fu servita la cena. Intanto, arrivarono i cavalli, e il capostazione ordinó che subito, senza dar loro da mangiare, si attaccassero alla vettura del passeggero; ma, tomato, trovo il giovanotto sdraiato quasi privo di sensi sulla panca: si era sentito male, gli era venuta un’emicrania, era impossibile partire… Che fare? Il capostazio¬ne gli cede il proprio letto, e fu stabilito, se il malato non si fosse sentito meglio, di mandare a S. per il medico, la mattina dopo.
Il giorno dopo, l’ussero peggioró. Il suo attendente andò a cavallo in città per il medico. Dunia gli legò in capo un fazzoletto, intriso di aceto, e sede col suo cucito presso il letto di lui. Il malato, in presenza del capostazione, gemeva e non diceva quasi sillaba; tuttavia bevve due tazzine di caffe e, gemendo, si ordinò il pranzo. Dunia non si allontanava da lui. Egli chiedeva ogni momento da bere, e Dunia gli porgeva una caraffa di limonata preparata da lei. Il malato si bagnava le labbra e ogni volta, restituendo la caraffa, in segno di gratitudine, con la Sua debole mano stringeva la mano della Dunia. All’ora di pranzo arrivò il medico. Tastó il polso al malato, parło eon lui in tedesco; e in russo dichiaró che gli occorreva solo riposo, e che di li a un paio di giorni egli avrebbe potuto rimettersi in viaggio. L’ussero gli mise in mano venticinque rubli per la visita, lo invito a pranzo; il medico acconsenti; tutti e due mangiarono con grande appetito, bevvero una bottiglia di vino e si separarono molto soddisfatti l’uno dell’altro.
Passo ancora un giorno, e l’ussero si rianimó del tutto.
Era straordinariamente allegro, celiava senza tregua ora eon Dunia, ora col capostazione; fischiettava canzonette, parlava coi passeggeri, registrava i loro fogli di via nel libro postale, e divenne cosi caro al buon capostazione, che alla mattina del terzo giorno gli rincresceva di separarsi dal suo diletto locatario. Era domenica; Dunia si preparava per la messa. All’ussero fu preparata la vettura. Egli si accomiató dal capostazione, dopo averlo generosamente compensate per l’ospitalità; si accomiatò anche da Dunia e propose di portarla fino alla chiesa che si trovava all’estremità del villaggio. Dunia stava lì perplessa…



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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
- Di che cosa hai paura? - le disse il padre. - Il signore non è un lupo e non ti mangia mica; va’ fino alla chiesa.
Dunia sede nella vettura accanto all’ussero, il servo salto sul predellino, il postiglione diede un fischio, e i cavalli galopparono.
Il povero capostazione non capiva com’egli stesso avesse potuto permettere alla sua Dunia di andare insieme con l’ussero, come gli fosse venuto l’abbaglio, e che cosa fosse successo allora con la sua ragione. Non era passato nemmeno una mezzora che il cuore gli cominció a dolere, a doler forte, e l’inquietudine s’impadroni di lui a tai punto ch’egli non resiste e andó lui stesso alla messa. Avvicinandosi alla chiesa, vide che la gente già ne usciva, ma Dunia non era né dentro il sagrato né nell’atrio. Entrò frettolosamente in chiesa; il sacerdote scendeva dall’altare; il diacono spegneva i ceri; due vecchiette pregavano ancora in un angolo; ma Dunia non era in chiesa. Il povero padre si risolse a stento a domandare al diacono, s’ella fosse stata a messa. Il diacono rispose che non c’era stata. Il capostazione rincasó più morto che vivo. Non gli restava che una speranza: forse, per la sventatezza della gioventù, a Dunia era venuto in mente di fare una gita fino alia prossima stazione, dove abitava la sua madrina. In preda a una tormentosa agitazione, egli aspettó il ritorno della troika con la quale l’aveva lasciata andare. Il postiglione non tornava. Alla fine, arrivo solo e alticcio, con la notizia micidiale: da quella stazione Dunia aveva proseguito il viaggio con l’ussero.
Il vecchio non sopporto la sua sventura: lì per lì cadde malato su quello stesso letto, dove la vigilia era giaciuto il giovane traditore. Ormai, considerando tutte le circostanze, il capostazione indovinava che la malattia era simulata. Il poveraccio si ammalò di una gran febbre; fu portato a S., e al suo posto fu temporaneamente destinato un altro. Lo stesso medico ch’era venuto dall’ussero curava anche lui. Egli assicuró al capostazione che il giovanotto era perfettamente sano, e che sin da allora egli aveva indovinato la sua cattiva intenzione, ma aveva taciuto, temendo il suo staffile. Che dicesse la verità, o che volesse soltanto vantarsi di essere lungimirante, il tedesco non consolò menomamente il povero malato. Non appena guarito, il capostazione ottenne dal maestro della posta di S. una licenza di due mesi, e senz’aver detto parola a nessuno della sua intenzione, partì a piedi alla ricerca di sua figlia. Dal foglio di via egli sapeva che il capitano di cavalleria Mińskij andava da Smolènsk a Pietroburgo. Il postiglione che lo aveva portato aveva detto che per tutta la strada Dunia piangeva, sebbene, a quanto pare, andasse di sua volonta. «Chi sa», pensava il capostazione, «ch’io non riconduca a casa la mia pecorella smarrita». Con questo pensiero, giunse a Pietroburgo, si fermo al reggimento Ismàjlovskij, in casa di un sottufficiale in congedo, suo vecchio compagno d’armi, e iniziò le sue ricerche. In breve apprese che il capitano di cavalleria Mińskij era a Pietroburgo e abitava alla trattoria di Demutov. Il capostazione decise di presentarsi a lui.
La mattina presto venne nella sua anticamera e prego di annunciare al capitano che un vecchio soldato chiedeva di vederlo. Un lacchè in uniforme, lustrando uno stivale in forma, dichiaró che il padrone riposava, e che prima delle undici non riceveva nessuno. Il capostazione se ne andó e tornó all’ora indicata. Miński stesso gli usci incontro, in veste da camera, con un berretto rosso.
- Che vuoi, amico?
Il cuore del vecchio ribollì, le lacrime gli spuntarono sugli occhi, ed egli proferi solo, con voce tremante: - Vostra grazia!… Fate questa gran carita!…
Mińskij gli getto un rapido sguardo, avvampo in viso, lo prese per un braccio, lo condusse nello studio e chiuse dietro di se la porta.
- Vostra grazia! - continuò il vecchio. - Quel ch’e caduto giù dal carro, e perduto. Rendetemi, almeno, la mia povera Dunia. Ve ne siete saziato; non rovinatela inutilmente.
- Cosa fatta capo ha, - disse il giovanotto estremamente confuso. - Sono colpevole davanti a te e sono contento di chiederti perdono, ma non pensare ch’io possa abbandonare Dunia: ella sarà felice, ti do la mia parola d’onore. Perché la rivuoi? Ella mi ama; si e disabituata dalia sua condizione di prima. Ne tu ne lei dimentichereste quello ch’e successo.
Poi, dopo avergli cacciato qualcosa nel risvolto della manica, aperse la porta, e il capostazione, senza ricordare nemmeno lui come, si ritrovo in strada.
A lungo stette immobile; alla fine, scórse nel risvolto della manica un rotolo di carta; lo tolse di li e svolse alcune banconote da cinquanta rubli. Di nuovo le lacrime gli spuntarono sugli occhi: lacrime d’indignazione. Egli gualci le banconote nel pugno, le getto in terra, le calpesto col tacco e si mosse… Allontanandosi di alcuni passi, si fermo, pensò un poco… e tornò… ma le banconote non c’erano più. Un giovanotto ben vestito, scorgendolo, corse a un vetturino, salto in carrozza e gridò: «Via!». Il capostazione non lo insegui. Decise di tornarsene a casa alla sua stazione, ma prima voleva vedere almeno una volta la sua povera Dunia. Per questo, di lì a un paio di giorni, tornó da Mińskij; ma il lacchè in uniforme gli disse severamente che il padrone non riceveva nessuno, lo sospinse col petto fuori dell’anticamera e gli richiuse la porta sul naso. Il capostazione stette lì un pezzo, e poi se ne andó.
In quello stesso giorno, di sera, egli camminava sul corso Litejnyj, dopo aver assistito al Te Deum nella chiesa di Tutti gli Afflitti. A un tratto passo di corsa davanti a lui un elegante calesse, e il capostazione ravvisò Mińskij. Il calesse si fermò davanti a una casa a tre piani, proprio all’ingresso, e l’ussero sali in fretta su per la scaletta esterna. Un’idea felice balenò nella mente del capostazione. Egli tornò sui suoi passi e, raggiunto il cocchiere: - Di chi e il cavallo? - chiese: - Non e di Mińskij?
- Per l’appunto, - rispose il cocchiere: - E tu, che vuoi?
- Ma ecco: il tuo padrone mi ha ordinato di portare alla sua Dunia un biglietto, e io ho dimenticato dove abita la Du¬nia.
- Qui, al secondo piano. Sei venuto in ritardo, amico, col tuo biglietto; ora lui stesso e da lei.
- Non fa nulla, - replicò il capostazione con un batticuore indicibile: - Ti ringrazio di avermi istruito, e io faro quello che devo fare. - E, così dicendo, andò su per la scala. La porta era chiusa; egli suonó. Passarono alcuni secondi in un’attesa penosa per lui. La chiave stride; gli fu aperto.
Abita qui Avdòtia Semiònovna? - egli chiese.
Qui, - rispose la domestica. – Perché la desideri?
Il capostazione, senza darle risposta, entró in sala.
Non si può, non si può! - gli gridò dietro la domestica: - Avdotia Semionovna ha degli ospiti.
Ma il capostazione, senz’ascoltarla, andava oltre. Le due prime stanze erano buie; nella terza c’era il lume. Egli si avvicinò alla porta aperta e si fermò. Nella stanza, magnificamente arredata, Mińskij sedeva assorto. Dunia, vestita con tutto lo sfarzo della moda, sedeva sul bracciolo della poltrona di lui, come una cavallerizza sulla sella inglese. Guardava con tenerezza Mińskij, i suoi opachi e ricciuti capelli neri, le proprie dita scintillanti di anelli. Povero capostazione! Mai sua figlia gli era parsa così bella; era costretto ad ammirarla.
Chi c’è? - chiese ella, senz’alzare il capo.
Lui continuava a tacere. Non ricevendo risposta, Dunia alzo la testa… e con un grido si abbatte sul tappeto. Mińskij, spaventato, si slanciò a sollevarla e a un tratto, scorgendo sulla soglia il vecchio capostazione, lascio Dunia e si avvicino a lui, tremando dalia collera.
- Che cosa vuoi? - gli disse, stringendo i denti: - Perché m’insegui da per tutto di nascosto, come un brigante? О mi vuoi sgozzare? Vattene! - e con la mano robusta afferrò il vecchio per il bavero, lo spinse fuori sulla scala.
Il vecchio torno alla sua abitazione. Il suo amico gli consigliò di sporgere querela; ma il capostazione ci pensò, si scrollò nelle spalle, decise di desistere. Dopo due giorni parti da Pietroburgo di nuovo verso la sua stazione e riprese la sua mansione.
- Ecco che è già il terzo anno, - concluse, - ch’io vivo senza Dunia e che non ne ho nessuna notizia. Se sìa viva, se sìa morta, lo sa Dio. Tante cose succedono. Non e la prima né l’ultima che uno scavezzacollo di passaggio ha sedotto, e poi abbia tenuta con sé un po’ di tempo e abbandonata. Ce ne sono molte a Pietroburgo, di stolte giovanine, oggi in raso e velluto, e domani, magari, spazzano la strada insieme con gli straccioni della bettola. Quando penso a volte che anche Dunia, forse, si perde lì, pecco per forza, e le auguro la morte.
Tale fu il racconto del mio amico, del vecchio capostazione; racconto più di una volta interrotto dalle lacrime ch'egli asciugava pittorescamente col lembo del suo soprabito, come lo zelante Terèntich nella bellissima ballata di Dmìtriev. Quelle lacrime erano in parte provocate dal ponce, di cui aveva tracannato cinque bicchieri durante la sua esposizione; ma, comunque fosse, esse commossero fortemente il mio cuore. Dopo essermi accomiatato da lui, a lungo non potei dimenticare il vecchio capostazione, a lungo pensai alia povera Dunia…
Ancora di recente, passando dalia piccola localita di ***, rammentai il mio amico; appresi che la stazione, della quale egli aveva il comando, era già stata soppressa. Alla mia domanda se fosse vivo il vecchio capostazione, nessuno potè dare una risposta soddisfacente. Decisi di visitare la nota regione, noleggiai dei cavalli e partii per il villaggio di N.
Fu d’autunno. Nubi cenerognole coprivano il cielo; un vento freddo soffiava da campi mietuti, portando via le foglie rosse e gialle dagli alberi che s’incontravano. Arrivai nel villaggio al cader del sole e mi fermai presso la casetta postale. Nell’andito (dove un giorno mi aveva baciato la povera Dunia) comparve una donna grassa, e alle mie domande rispose che il vecchio capostazione era morto da un anno, che nella sua casa era venuto ad abitare un birraio, e ch’ella era la moglie del birraio. Rimpiansi la mia gita inutile e i sette rubli spesi per niente.
Ma di che cosa e morto? - chiesi alla moglie del birraio.
Per il troppo bere, signor mio, - rispose.
E dove e stato sepolto?
Fuori della cinta, accanto alla sua defunta consorte.
Non potrei essere condotto alla sua tomba?
E perché no? Ehi, Vànka! Smettila di giocare col gatto! Accompagna il signore al camposanto, e mostragli la tomba del capostazione.
A queste parole, un ragazzo stracciato, fulvo di capelli e guercio mi corse incontro e subito mi condusse fuori della cinta.
Conoscevi il defunto? - gli domandai, strada facendo.
Come non conoscerlo! Mi ha insegnato a ritagliare dalle canne i pifferi. A volte (pace all’anima sua!) tornava dalia bettola, e noi dietro: «Nonnino, nonnino! Delie noci!» e lui ci dava le noci. Giocava sempre con noi.
E i passeggeri lo ricordano?
Ma, di passeggeri, ormai ce n’è pochi; capita ogni tanto l’assessore, ma ha altro da fare che andare a trovare i morti. D’estate e passata da qui una signora; quella, sì, ha chiesto del vecchio capostazione ed e stata sulla sua tomba.
Quale signora? - domandai con curiosità.
Una bellissima signora, - rispose il ragazzo. - Viaggiava in una carozza chiusa, a sei cavalli, con tre piccoli signorini e con la nutrice e un mastino nero, e quando le dissero che il vecchio capostazione era morto, si mise a piangere e disse ai bambini: «State buoni, e io andrò al camposanto». Mi offersì di accompagnarla. E la signora disse: «So da me la strada». E mi diede cinque copeche d’argento… una signora così buona!
Arrivammo al camposanto: un luogo nudo, senz’alcun recinto, disseminato di croci di legno, non protette da nessun alberello. In vita mia non avevo visto un camposanto cosi triste.
- Ecco la tomba del vecchio capostazione, - mi disse il ragazzo, saltando su un mucchio di sabbia in cui era infissa una croce nera con un’immagine di rame.
E la signora e stata qui? - domandai.
- C’è stata, - rispose Vànka. - Io la guardavo da lontano. Si prostrò qui e rimase prostrata a lungo. E poi la signora andò al villaggio e chiamò il prete, gli diede del denaro e partì, e a me diede cinque copeche d’argento… un’ottima signora!
Anch’io diedi al ragazzo cinque copeche, senza più rimpiangere né la gita né i sette rubli da me spesi.

 

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Descrizione: Aleksandr Pushkin
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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
Aleksandr Pushkin
«LA SIGNORINA CONTADINA» «БАРЫШНЯ-КРЕСТЬЯНКА»

In ogni abito, Dùscenka, sei bella.
Bogdanovich


In uno dei nostri lontani governatorati si trovava il possedimento d’Ivan Petròvich Bèrestov. Nella sua giovinezza egli aveva prestato servizio nella Guardia, si era congedato al principio del 1797, se n’era andato al suo paese e da allora non n’era più uscito. Era sposato con una povera nobile che mori di parto mentr’egli si trovava lontano, a caccia. L’esercizio dell’amministrazione rurale lo consolò presto. Egli si costruì una casa secondo un proprio disegno, impiantò una fabbrica di stoffa, regolò le rendite e cominciò a ritenersi l'uomo più intelligente di tutto il circondario, cosa che non gli smentivano i vicini, i quali venivano a soggiornare da lui con le loro famiglie e i loro cani. Nei giorni feriali egli girava in giubba felpata; le feste, indossava un soprabito di stoffa di fabbricazione casalinga, notava da se la spesa e non leggeva nulla, tranne le Informazioni del Senate. In generale era ben voluto, anche se stimato superbo. Non andava d’accordo con lui soltanto Gregorio Ivànovich Mùromskij, il suo vicino più prossimo. Era un autentico signore russo. Avendo dissipato a Mosca la maggior parte dei suoi possedimenti ed essendo rimasto vedovo a quell’epoca, si era ritirato nella sua ultima campagna, dove continuava a sbizzarrirsi, ma ormai su un altro tono. Si era fatto un giardino inglese, per il quale spendeva quasi tutte le altre rendite. I suoi staffieri erano vestiti da jockey. Sua figlia aveva un’istitutrice inglese. I suoi campi li coltivava alla maniera inglese;
…ma alla maniera altrui non nasce il pane russo…
e, nonostante la note volle diminuzione delle spese, le rendite di Gregorio Ivànovich non aumentavano; anche in campagna egli trovava modo di contrarre nuovi debiti; con tutto ciò, era considerate tutt’altro che stupido, in quanto che fu il primo tra i possidenti del suo governatorato a ipotecare la tenuta al Consiglio di Tutelar operazione che a quel tempo pareva straordinariamente complessa e audace. Tra quelli che lo biasimavano, Bèrestov si esprimeva più severamente di tutti. L’odio per le innovazioni era il tratto distintivo del suo carattere. Egli non poteva parlare con indifferenza dell’anglomania del suo vicino e trovava ogni momento l’occasione di criticarlo. Se mostrava a un ospite i suoi possedimenti, in risposta alle lodi per le norme amministrative: - Sissignore, — diceva con un sorriso malizioso: — io non faccio quello che fa il mio vicino Gregorio Ivanovich. Noi non possiamo rovinarci all’inglese! Ci contentiamo di esser sazi alla russa! - Queste e simili arguzie, per lo zelo dei vicini, venivano portate a conoscenza di Gregorio Ivànovich con aggiùnte e schiarimenti. L’anglomane subiva la critica con la stessa intolleranza dei nostri giornalisti. S’infuriava e aveva soprannominato il suo Zoilo orso e provinciate.
Tali erano i rapporti fra questi due possidenti quando il figlio di Bèrestov venne da lui in campagna. Era stato educato all’università di *** e intendeva di entrare al servizio militare; ma il padre non vi acconsentiva. Per la carriera di funzionario civile il giovanotto si sentiva perfettamente inetto. Nessuno dei due cedeva all’altro, e il giovane Alessio si mise intanto a fare il signore, lasciandosi crescere i baffi per ogni evenienza.
Alessio era, in realtà, un giovane in gamba. Davvero, sarebbe stato peccato se la sua snella vita non fosse mai stata stretta dalla divisa militare, e se, invece di far bella mostra di se a cavallo avesse passato la sua giovinezza curvo sulle carte di cancelleria. Vedendo com’egli galoppava a caccia, sempre in testa a tutti, senza scegliere la strada, i vicini dicevano concordi che non ne sarebbe mai uscito un buon capo ufficio. Le signorine lo sbirciavano, e talvolta non riuscivano a distogliere da lui gli occhi: ma Alessio si occupava poco di loro, ed esse, quale causa della sua insensibilità, supponevano una relazione amorosa. In realtà, girava per le mani la copia di un indirizzo di una delle sue lettere: «Ad Akulìna Petròvna Kùrochkina, a Mosca, di fronte al monastero di Sant’Alessio, in casa del magnano Saveljev, con l’umile preghiera di recapitare questa lettera ad A.N.R.».
Quelli dei miei lettori che non sono vissuti in campagna non possono immaginarsi che bellezza siano queste signorine del distretto! Educate all’aria pura, all’ombra dei meli del loro giàrdino, esse attingono dai libri la conoscenza del mondo e della vita. L’isolamento, la liberta e la lettura sviluppano per tempo in esse i sentimenti e le passioni, ignote alle nostre belle distratte. Per una signorina lo squillo di un sonaglio e già un avvenimento; la gita nella città vicina fa epoca nella vita e la visita di un ospite lascia un lungo ricordo, talvolta anche eterno. Certo, ognuno e libero di ridere di certe loro stranezze; ma le celie di un osservatore superficiale non possono distruggere i loro pregi essenziali, tra cui predomina la particolarità del carattere, l’individualità, senza la quale, a detta di Jean Paul, non esiste nemmeno la grandezza umana. Nelle capitali le don¬ne ricevono, forse, un’educazione migliore; ma la consuetudine mondana livella presto il carattere e fa le anime uniformi come le acconciature dei capelli. Ciò sia detto non per biasimo ne a condanna; tuttavia, nota nostra manet, come scrive un antico chiosatore.
È facile immaginare quale impressione dovesse produrre Alessio nella cerchia delle nostre signorine. Egli per primo comparve dinanzi a loro tetro e deluso; per primo parło loro delle gioie perdute e della sua giovinezza sfiorita; per giunta, portava un anello nero con l’effigie di un teschio. Tutto ciò era straordinariamente nuovo in quel governatorato. Le signorine impazzivano per lui. Ma più di tutte era occupata di lui la figlia del mio anglomane, Lisa (o Betsy, come la chiamava abitualmente Gregorio Ivànovich). I padri non si scambiavano visite; ella non aveva visto Alessio, mentre tutte le giovani vicine non facevano che parlare di lui. Ella aveva diciassette anni. Gli occhi neri ravvivavano il suo viso olivastro e molto piacevole. Era figlia unica e, per conseguenza, viziata. La sua vivacità e le continue malefatte entusiasmavano il padre e facevano disperare la sua istitutrice, miss Jackson, una schizzinosa zitella quarantenne che si dava il belletto e si tingeva le sopracciglia, rileggeva due volte all’anno la Pamela, riceveva per questo duemila rubli, e moriva di noia nella barbara Russia.
L’ancella di Lisa era Nastia; aveva qualche anno di più, ma era sventata non meno della signorina. Lisa le voleva molto bene, le svelava tutti i suoi segreti, meditava insieme con lei tutti i propri disegni; in una parola, Nastia era nel villaggio di Prilùchino un personaggio assai più importante di qualunque confidente della tragedia francese.
— Permettetemi di andare oggi ospite, — diss’ella un giorno, vestendo la signorina.
— Va’ pure; e dove?
— A Tughìlovo, dai Bèrestov. E l’onomastico della moglie del loro cuoco, e ieri lei e venuta a invitarci a pranzo da loro.
— Ecco! — disse Lisa. — I signori sono in lite, e i servi s’invitano a pranzo fra loro.
E che cosa ce ne importa, dei signori! — replica Nastia. — E poi sono vostra, e non del vostro babbo. Voi non avete ancora litigato col giovane Bèrestov; e i vecchi, s’accapiglino pure, se ci hanno gusto.
Cerca, Nastia, di vedere Alessio Bèrestov, e raccontami per bene com’e di aspetto e che uomo e.
Nastia promise, e Lisa aspetto con impazienza tutto il giorno il suo ritorno. La sera Nastia comparve.
Be’, Lisavèta Grigòrjevna, — diss’ella, entrando nella stanza. — Ho visto il giovane Bèrestov; l’ho guardato abbastanza; siamo stati insieme tutto il giorno.
Come mai? Racconta per ordine.
Ecco: siamo andate, io, Anissja Egòrovna, Nenìla, Dùnka…
Va bene, lo so. Be’, e poi?
— Scusate, racconterò tutto per ordine. Siamo arrivate proprio all’ora di pranzo. La stanza era piena di gente. C’erano i Kolbìnskij, gli Zakhàrjevskij, la moglie dell’amministratore con le figlie, i Khlupìnskij…
— Be’, e Bèrestov?
— Aspettate. Ci siamo messe a tavola, la moglie dell’amministratore al posto d’onore, io accanto a lei… e le figlie si sono immusonite, ma io ci sputo sopra…
— Ah, Nàstia, come sei noiosa con i tuoi particolari!
— Ma come siete impaziente! Be’, ci siamo alzati da tavola… e ci avevamo passato un tre ore, e il pranzo era magnifico: il dolce blanc-manger blu, rosso e variegato… Ci siamo alzate da tavola e siamo andate in giardino a giocare a rincorrerci, e il giovane padrone e comparso lì.
— Ebbene? E vero ch’è cosi bello di persona?
— È meravigliosamente bello; si può dire ch’e una bellezza. Snello, alto, tutta la guancia colorita…
— Davvero? E io credevo che avesse il viso pallido. E cosi? Come ti e parso? Triste, pensieroso?
— Che cosa dite? Ma un furioso par suo non l’ho visto in vita mia. Gli e venuto in mente di giocare con noi a rincorrerci.
— Giocare con voi a rincorrervi! Impossibile!
— Possibilissimo! E che cosa ha ancora escogitato! Ti afferra e giù a dar baci!
— Abbi pazienza, Nastia! Tu menti.
— Sia come volete, non mento. Mi sono a stento disfatta di lui. Così ha passato tutto il giorno con noi.



Ultima modifica di Zarevich il 18 Ago 2018 13:05, modificato 2 volte in totale
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Oggetto: «I RACCONTI DI BELKIN»
Ma com’e che dicono ch’egli è innamorato e non guarda nessuno?
Non so; ma me, mi ha guardata anche troppo, e anche Tania, la figlia dell’amministratore; e anche Pàscia Kolobìnskij, e bisogna dire che non ha fatto torto a nessuna di noi, un tale birichino!
E sorprendente! E che cosa si dice di lui in casa?
Dicono ch’è un padrone magnifico: cosi buono, cosi allegro. Una sola cosa e brutta: gli piace troppo di correr dietro alle ragazze. Ma, secondo me, non e nemmeno un guaio: col tempo mettera giudizio.
Come vorrei vederlo! — disse Lisa con un sospiro.
Ma che c’è di difficile? Tughìlovo e a due passi da noi, solo tre vèrste: andate a passeggio da quella parte о andateci a cavallo; lo incontrerete certamente. Va tutti i giorni, la mattina presto, a caccia col fucile.
Ma no, non va bene. Può pensare ch’io gli corra dietro. Inoltre, i nostri padri sono in lite, cosi che anch’io non potrò far conoscenza con lui… Ah, Nastia, sai che faccio? Mi vestirò da contadina!
Ma si! Mettetevi una grossa camicia, il cosiume, e andate coraggiosamente a Tughìlovo; vi garantisco che Bèrestov non vi lascerà passare inosservata.
E il dialetto di qui lo so parlare a meraviglia. Ah, Nastia, cara Nastia! Che splendida idea!
E Lisa andò a dormire con l’intenzione di attuare immancabilmente il suo allegro proposito.
Subito il giorno dopo ella si accinse all’esecuzione del suo piano, andò a comprare sul mercato tela grezza, seta cinese azzurra e bottoni di rame; con l’aiuto di Nastia, si ritagliò la camicia e il cosiume, mise a cucire tutte le ragazze della servitù, e per la sera tutto era pronto. Lisa si provo l’abito nuovo e confessò davanti allo specchio di non esser mai parsa cosi bella a se stessa. Ripassò la sua parte. S’inchinava profondamente cammin facendo e poi annuiva alcune volte col capo, a somiglianza dei gatti di terracotta, parlava il dialetto contadinesco, rideva, coprendosi il viso con la manica, e ottenne la piena approvazione di Nastia. Una cosa le riusciva difficile: provo ad attraversare il cortile scalza, ma l’erba pungeva i suoi piedi delicati, e la sabbia e i sassolini le parvero intollerabili. Nastia la soccorse anche in questo: prese la misura del piede di Lisa, corse nei campi dal pastore Trofìm e gli ordinò un paio di ciabatte di tiglio di quella misura. Il giorno dopo, tra il lusco e il brusco, Lisa era già sveglia. Tutta la casa dormiva ancora. Nastia, fuori del portone, aspettava già il pastore. Suono il corno, e il gregge cominciò a sfilare davanti alla casa padronale. Trofìm, passando davanti a Nastia, le consegnò le piccole, variopinte ciabatte e riceve da lei in premio mezzo rublo. Lisa si abbigliò pian piano da contadina, diede sottovoce a Nastia le istruzioni riguardo a miss Jackson, usci sulla scaletta esterna della porta di servizio e, attraverso l’orto, corse nei campi.
L’alba splendeva a levante, e file dorate di nuvole parevano attendere il sole, come i cortigiani aspettano il Sovrano. Il cielo sereno, la frescura mattutina, la rugiada, il venticello, e il canto degli uccelli riempivano il cuore di Lisa di un’allegria infantile; temendo d’incontrare qualche conoscente, pareva ch’ella, invece di camminare, volasse addirittura. Avvicinandosi al bosco, situato al confine della tenuta paterna, Lisa camminò più adagio. Qui ella doveva attendere Alessio. Il suo cuore batteva forte, senza sapere il perché; ma il timore che accompagna le nostre scappatelle giovanili cosiituisce anche il loro principale incanto. Lisa entrò nella penombra del bosco. Il suo sordo rimbombo salutò la fanciulla. La sua allegria si acquietò. A poco a poco ella si abbandonò a una dolce fantasticheria. Pensava… Ma si può forse determinate con esattezza a che cosa pensi una signorina di diciassette anni, sola, nel bosco, verso le sei di una mattina di primavera? E cosi, ella camminava, assorta, sulla strada sormontata da tutti e due i lati dagli alti alberi, quando a un tratto un magnifico cane da caccia le abbaiò contro. Lisa si spaventò e getto un grido. In quel momento si udi una voce: «Tout beau, Sbogar, ici…» e un giovane cacciatore si mostro da dietro a un cespuglio.
— Non aver paura, cara, — diss’egli a Lisa: — il mio cane non morde.
Lisa aveva fatto in tempo a riaversi dallo spavento e seppe subito approfittare delle circosianze.
— Ma no, signore, — disse, fingendosi tra timida e spaurita. — Ho paura; vedi com’e cattivo; si slancerà ancora.
Alessio (il lettore l’ha conosciuto già) guardava intanto fissamente la già vane contadina.
— Ti accompagno, se hai paura, — le disse, — Mi permetti di camminarti accanto?
— E chi te lo impedisce? — rispose Lisa. — Ognuno e libero, e la strada e di tutti.
— Di dove sei?
— Di Prilùchino; sono figlia del fabbro Vassilij, vado per funghi. — Lisa portava un fagotto appeso a uno spago. — E tu, signore? Di Tughìlovo, forse?
Per l’appunto, — rispose Alessio. — Sono il cameriere del giovane padrone.
Alessio voleva livellare i loro rapporti. Ma Lisa lo guardò e rise.
Eppure menti, — disse. — Non hai trovato una stupida. Vedo che anche tu sei un signore.
Come mai pensi cosi?
Ma per tutto l’insieme.
Tuttavia…
Ma come si fa a non distinguere un signore dal suo servo? E non sei vestito cosi, e parli altrimenti, e chiami il cane non alla nostra maniera.
Lisa d’ora in ora piaceva di più ad Alessio. Avvezzo a non far cerimonie con le belle campagnole, fece per abbracciarla; ma Lisa balzo in disparte e assunse a un tratto un’aria cosi fredda e severa che, anche se esilaro Alessio, lo trattenne da ulteriori «attentati».
— Se volete che d’ora innanzi siamo amici, — diss’ella con importanza, — favorite di non perder la testa.
Chi ti ha insegnato codesta saggezza? — chiese Alessio, scoppiando a ridere. — Forse Nàstenka, la mia conoscente, l’ancella della vostra signorina? Ecco per quali vie si diffonde l’istruzione!
Lisa sentì di essere uscita dalla sua parte, e subito si corresse.
— Ma che cosa credi? — disse. — Ch’io non vada mai nella corte padronale? Non aver paura: ho visto e sentito di tutto. Peró, — continuó, — chiacchierando con te, di funghi non se ne raccolgono. Vattene, signore, per la tua strada, e io me ne andrò per la mia. Chiedo licenza…
Lisa voleva allontanarsi; Alessio la trattenne per una mano.
— Come ti chiami, anima mia?
— Aculìna, — rispose Lisa, cercando di liberare le sue dita dalla mano di Alessio. — Ma lasciami andare, signore, e tempo ch’io vada a casa.
— Be’, arnica mia Aculìna, verro senza fallo a trovare tuo padre, il fabbro Vassilij.
— Che cosa dici? — replicò Lisa. — Per amor di Dio, non venirci! Se a casa sapessero che ho chiacchierato nel bosco a quattr’occhi con un signore, me ne verrebbe un guaio: mio padre, il fabbro Vassili, mi batterebbe a morte.
Ma io voglio assolutamente rivederti.
Be’, un giorno verro qui di nuovo per funghi.
Quando?
Magari, domani.
Cara Aquilina, ti coprirei di baci, ma non oso. Allora domani, a quest’ora, nevvero?
Si, si.
E non m’ingannerai?
Non t’ingannero.
Giùra!
Ma il Venerdì Santo ti sia testimone che verro.
I giovani si separarono. Lisa uscì dal bosco, attraverso il campo, penetrò nel giardino e corse a perdifiato in fattoria, dove Nastia l’aspettava. La ella si cambio rispondendo distrattamente alle domande dell’impaziente confidente, e comparve nel salotto. La tavola era apparecchiata, la colazione pronta, e miss Jackson, già imbellettata e stretta dal busto come un bicchierino, tagliava sottili tartine. Il padre lodò Lisa per la passeggiàta mattutina.
Non с’è nulla di più salubre, — disse, — che svegliarsi all’alba.
Qui egli addusse alcuni esempi di longevità umana, desunti da riviste inglesi, osservando che gli uomini vissuti più di un secolo non usavano vodka e si alzavano all’alba d’inverno e d’estate. Lisa non l’ascoltava. Ripeteva mentalmente tutte le circosianze del convegno mattutino, tutto il discorso di Aculìna col giovane cacciatore, e la coscienza cominciava a rimorderle. Invano ella obiettava a se stessa che il loro colloquio non era uscito dai limiti della decenza, che quella monelleria non poteva aver nessuna conseguenza: la sua coscienza parlava più forte della sua ragione. La promessa, da lei fatta per il giorno dopo, la inquietava più di tutto: aveva quasi deciso di non mantenere il suo solenne giuramento. Ma Alessio, dopo aver aspettato inutilmente, poteva andare a cercare nel villaggio la figlia del fabbro Vassilij, la vera Aculìna, una ragazza grassa, butterata, e scoprire in tal modo la sua sventata marachella. Quest’idea fece inorridire Lisa, ed ella risolse di mostrarsi di nuovo, il mattino seguente, nel bosco, sotto le spoglie di Aculìna.



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Dal canto suo Alessio era entusiasta; pensò tutto il giorno alla nuova conoscente: di notte, l’immagine della bella olivastra perseguito anche nel sonno la sua immaginazione. L’alba sorgeva appena, ch’egli era già vestito. Senza prendersi il tempo di caricare il fucile, egli usci nei campi col suo fedele Sbogar e corse al luogo del convegno promesso. Trascorse quasi mezz’ora in un’attesa per lui insostenibile; alla fine, scorse tra i cespugli balenare il costume azzurro e si slanciò incontro alla cara Aculìna. Ella sorrise all’entusiasmo della sua riconoscenza; ma Alessio noto subito sul suo viso tracce di abbattimento e d’inquietudine. Voile saperne la cagione. Lisa confessò che il suo atto le pareva leggero, ch’ella se ne pentiva, che per stavolta non aveva voluto non mantenere la parola data, ma che quell’incontro sarebbe stato anche l’ultimo, e ch’ella lo pregava di troncare la loro conoscenza, che non poteva portarli a nulla di buono. Tutto ció, naturalmente, fu detto in dialetto contadinesco; ma i pensieri e i sentimenti, insoliti in una semplice ragazza, colpirono Alessio. Egli adoperò tutta la sua eloquenza per distogliere Aquilina dalla sua intenzione; le spiegò l’innocenza dei propri desideri, promise di non darle mai occasione di pentirsi, di obbedirle in tutto, la scongiùrò di non privario dell’unico conforto: della gioia di vederla a quattr’occhi, magari un giorno si e uno no, magari due volte la settimana. Parlava il linguaggio della vera passione, e in quel momento era come innamorato. Lisa lo ascoltava in silenzio.
— Dammi la parola, — disse finalmente, — che non mi cercherai mai nel villaggio ne andrai a chiedere di me. Dammi la parola di non cercare con me altri incontri, tranne quelli ch’io stessa fisserò.
Alessio glielo giùrò per il Venerdì Santo, ma ella lo fermo con un sorriso.
— Non mi occorrono giuramenti, — disse Lisa. — Mi basta la tua sola promessa.
Dopo di che, conversarono amichevolmente, passeggiando insieme nel bosco, finchè Lisa gli disse: «Е ora». Si separarono, e Alessio, rimasto solo, non poteva capire come una sem¬plice ragazza Campagnola fosse riuscita in due incontri a prender su di lui un vero potere. I suoi rapporti con Aculìna avevano per lui il fascino della no vita, e sebbene le prescrizioni della strana contadina gli paressero gravose, tuttavia l’idea di non mantenere la sua parola non gli venne nemmeno in mente. Il fatto era che Alessio, nonostante il fatale anello, la corrispondenza misteriosa e la tetra aria di deluso, era un giovanotto focoso e buono e aveva un cuore puro, capace di sentire le delizie dell’innocenza.
Se dessi retta soltanto al mio estro, descriverei immancabilmente e in ogni particolare i convegni dei due giovani, la erescente, reciproca inclinazione e confidenza, le occupazioni, i discorsi; ma so che la maggior parte dei miei lettori non condividerebbe con me il mio piacere. Questi particolari in generale devono parere sdolcinati, e cosi li tralascio, dopo aver detto in breve che non erano passati nemmeno due mesi che il mio Alessio era già innamorato alla follia, e Lisa non era più indifferente di lui, anche se era più taciturna. Tutti e due erano felici del presente e poco pensavano al futuro.
L’idea di un vincolo indissolubile balenava spesso nella loro mente; ma non ne parlavano mai fra loro. La cagione era chiara: Alessio, quantunque affezionato alla sua cara Aculìna, ricordava sempre la distanza che esisteva tra lui e la povera contadina; e Lisa sapeva quale odio ci fosse tra i loro padri, e non osava sperare in una reciproca riconciliazione. Inoltre, il suo amor proprio era stuzzicato segretamente dall’oscura, romanzesca speranza di vedere alfine il possidente di Tughìlovo ai piedi della figlia del fabbro di Priluchino.
A un tratto un importante avvenimento per poco non cambio i loro rapporti.
In una serena, fredda mattina (di quelle di cui abbonda il nostro autunno russo), Ivan Petròvich Bèrestov usci a cavallo per una passeggiata; aveva preso con se per ogni evenienza tre paia di levrieri, il palafreniere e alcuni ragazzetti della servitù con le raganelle. Nello stesso tempo, Gregorio Ivànovich Mùromskij, lasciandosi tentare dalla bella stagione, ordinó di sellare la sua cavallina dalla coda mozza e andò al trotto lungo i suoi possedimenti inglesizzati. Avvicinandosi al bosco, scórse il suo vicino, seduto fieramente a cavallo, in soprabito di foggiò cosacca, guarnito di volpe, in attesa di una lepre che i ragazzi con le grida e le raganelle cacciavano fuori da dietro un cespuglio. Se Gregorio Ivànovich avesse potuto prevedere quest’incontro, avrebbe certo svoltato da un’altra parte; ma si era imbattuto in Bèrestov del tutto inaspettatamente e si era a un tratto ritrovato a distanza di un colpo di pistola da lui. Non c’era nulla da fare: Mùromskij, come europeo colto, si avvicino al suo avversario e lo salutò cortesemente. Bèrestov rispose con lo stesso zelo con cui un orso da catena s’inchina ai signori per ordine della sua guida. In quel momento la lepre salto fuo¬ri del bosco e corse per i campi. Bèrestov e il palafreniere gridarono a squarciagola, sguinzagliarono i cani e galopparono a briglia sciolta all’inseguimento. La cavalla di Mùromskij, la quale non era mai stata a caccia, si adombrò e corse all’impazzata. Mùromskij, che si era proclamato un cavaliere eccellente, la lasciò fare e, fra se, era contento del caso che lo liberava dallo sgradito interlocutore. Ma la cavalla, giunta al galoppo fino al borro, da lei non visto prima, a un tratto diede uno scarto, e Mùromskij non resiste in sella. Caduto abbastanza dolorosamente sulla terra indurita dal gelo, giacque, maledicendo la sua cavallina dalla coda mozza che, come rinsavita si fermo subito, non appena si sentì senza il cavaliere. Ivan Petrovich si avvicinò a lui di gran carriera, informandosi s’egli si fosse fatto male. Intanto, il palafreniere condusse li la cavalla colpevole, tenendola per la briglia. Aiutò Mùromskij ad arrampicarsi in sella; e Bèrestov lo invito a casa sua. Mùromskij non pote rifiutarsi, perché si sentiva obbligato, e cosi Bèrestov rincasò gloriosamente, avendo catturata la lepre e portando il proprio avversario ferito e quasi in stato di prigioniero di guerra.
I vicini, a colazione, attaccarono discorso abbastanza amichevolmente. Mùromskij chiese a Bèrestov un barroccino, confessando che, per la botta, non era in grado di arrivare a cavallo fino a casa. Bèrestov lo accompagnó fin sulla scaletta esterna, e Mùromskij parti non senza aver preso da lui la parola d’onore di venire il giorno dopo (e con Alessio Ivànovich) a pranzare da amici a Prilucino. In tal modo, l’ostilita antica e profondamente radicata pareva che fosse pronta a cessare per la timidezza di una cavallina dalla coda mozza.
Lisa corse incontro a Gregorio Ivànovich.
— Che cosa avete, babbo? — disse con stupore. — Perché zoppicate? Dov’e la vostra cavalla? Di chi e questo barroccino?
— Non la indovini su mille, my dear, — le rispose Gregorio Ivànovich, e le racconto tutto quanto era successo.
Lisa non credeva ai propri orecchi. Gregorio Ivànovich, senz’averle dato il tempo di riaversi dalla sorpresa, le annunciò che il giorno dopo avrebbero pranzato da lui tutti e due i Bèrestov.
— Che cosa dite? — diss’ella, impallidendo. — I Bèrestov, padre e figlio! Domani a pranzo da noi! No, babbo, fate come volete; io non mi mostrerò per nulla al mondo.
— Ma dì: sei pazza? — ribatte il padre. — Da quando ti sei fatta così timida, oppure nutri per loro un odio ereditario, come un’eroina da romanzo? Basta, non far la stupida…
— No, babbo, per nulla al mondo, per nessun tesoro comparirò davanti ai Bèrestov.
Gregorio Ivànovich si strinse nelle spalle e non discusse più con lei, poiché sapeva che, contraddicendola, non avrebbe ottenuto da lei nulla, e andò a riposarsi della sua memorabile passeggiata.
Lisavèta Grigòrjevna andò nella propria stanza e chiamò Nastia. Tutt’e due ragionarono a lungo della visita imminente. Che cosa avrebbe pensato Alessio, se avesse riconosciuto nella signorina bene educata la sua Aculìna? Quale opinione si sarebbe formata della sua condotta e dei suoi principii, della sua assennatezza? D’altra parte, Lisa aveva una gran voglia di vedere quale impressione avrebbe prodotto su di lui un incontro cosi inaspettato… A un tratto le balenò un’idea. La comunicò a Nastia; tutt’e due se ne rallegrarono come di una trovata e stabilirono di attuarla immancabilmente.
Il giorno dopo, a colazione, Gregorio Ivànovich chiese alla figlia s’ella fosse sempre dell’awiso di nascondersi ai Bèrestov.
— Babbo, — rispose Lisa. — Li accogliero’, se volete, ma a un patto: comunque io mi presenti davanti a loro, qualunque cosa io faccia, voi non mi rimprovererete e non darete alcun segno di meraviglia o di scontentezza.
— Di nuovo qualche gherminella! — disse, ridendo, Gregorio Ivànovich. — Sì, va bene, va bene: sono d’accordo, fa’ quel che vuoi, mia monella dagli occhi neri!
Così dicendo, la baciò in fronte, e Lisa corse a prepararsi.
Alle due in punto, una carrozza di fattura casalinga, col tiro a sei, entrò in cortile e giro intorno all’aiola di un denso verde. Il vecchio Bèrestov sali la scaletta esterna con l’aiuto di due lacche in livrea di Mùromskij. Dopo di lui giunse suo figlio a cavallo e insieme con lui entrò nella sala da pranzo, dove la tavola era già apparecchiata. Mùromskij accolse i suoi vicini nel modo più affabile, propose loro di visitare, prima di pranzo, il parco e il giàrdino zoologico e li condusse per viottoli diligentemente scopati e cosparsi di sabbia. Il vecchio Bèrestov rimpiangeva fra se e se il lavoro e il tempo perso per capricci cosi inutili, ma taceva per cortesia. Suo figlio non condivideva ne l’insoddisfazione del possidente calcolatore, ne l’entusiasmo dell’anglomane dal grande amor proprio; ma aspettava con impazienza l’apparizione della figlia del padrone di casa, di cui aveva sentito dir molte cose; e sebbene il suo cuore, come ci è noto, fosse già preso, tuttavia una giovane bellezza aveva sempre il diritto sulla sua immaginazione.



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Tornati in salotto, sedettero tutti e tre: i vecchi ricordarono i tempi andati e gli aneddoti della loro carriera, e Alessio meditò intorno alla parte da recitare in presenza di Lisa. Decise che una fredda distrazione conveniva di più in ogni caso, e in seguito a ció assunse un contegno. La porta si apri: egli volse la testa con una tale indifferenza, con una negligenza cosi altera che il cuore della pi ii impenitente civetta avrebbe dovuto immancabilmente dare un tuffo. Disgraziatamente, invece di Lisa, entrò la vecchia miss Jackson, imbellettata, stretta dal busto, con gli occhi bassi e con una piccola riverenza, e il magnifico movimento strategico di Alessio andò a vuoto. Egli non fece in tempo a concentrarsi di nuovo, che la porta si apri, e stavolta entrò Lisa. Tutti si alzarono; il padre fece per presentarle gli ospiti, ma a un tratto si fermo e si affretto a mordersi un labbro… Lisa, la sua Lisa olivastra, era imbellettata fino agli orecchi, con le sopracciglia tinte anche più di quelle di miss Jackson; i riccioli falsi, assai più chiari dei suoi capelli naturali, erano alzati come la parrucca di Luigi XIV; le maniche a l’imbecile sporgevano come il gonnellino di madame de Pompadour; la vita era stretta come un X, e tutti i brillanti di sua madre, non ancora impegnati al Monte di Pietà, splendevano sulle sue dita, al collo e negli orecchi. Alessio non poteva riconoscere la sua Aculìna in questa ridicola e brillante signorina. Suo padre le baciò la mano, ed egli ne segui con dispetto l’esempio; quando sfioró le sua bianche dita, gli parve che tremassero. Intanto, riusci a scorgere il piedino, sporto a bella posta e calzato con ogni possibile civetteria. Questo lo riconcilio alquanto col resto del suo abbigliamento. Quanto al belletto e all’antimonio, per la semplicità del suo cuore, a dir la verith, non li noto al primo sguardo, e non li sospettó nemmeno poi. Gregorio Ivànovich rammentò la sua promessa e cercò di non mostrare nemmeno un’ombra di meraviglia; ma la monelleria di sua figlia gli pareva così divertente ch’egli potè a stento trattenersi dalle risa. Tutt’altro che da ridere aveva la schizzinosa inglese. Ella indovinava che l’antimonio e il belletto erano stati rapiti dal suo canterale, e un vermiglio rossore di stizza traspariva attraverso il bianco artificiale del suo viso. Ella gettava occhiate di fuoco alla giovane birichina che, rimandando ad altro tempo ogni spiegazione, fingeva di non accorgersene.
Andarono a tavola; Alessio continuava a sostener la parte di distratto e pensoso. Lisa posava, parlava fra i denti, con la cantilena, e solo in francese. Il padre la fissava ogni momenta, non comprendendo il suo scopo, ma trovando tutto ció molto divertente. L’inglese s’infuriava e taceva. Il solo Ivan Petrovich era come a casa sua: mangiava per due, beveva alla sua stregua, rideva del suo riso e sempre più amichevole parlava e rideva.
Alla fine, si alzarono da tavola; gli ospiti partirono, e Gregorio Ivànovich diede la stura alle risate e alle domande.
Come mai ti è venuto in mente di prenderli in giro? — chiese a Lisa. — Ma sai che cosa ti diró? Il belletto, davvero, ti dona; non entro nei segreti della toilette femminile, ma al tuo posto comincerei a imbellettarmi; ben inteso, non troppo, ma leggermente.
Lisa era entusiasta della sua trovata. Abbraccio il padre, gli promise di ripensare al suo consiglio e corse a rabbonire l’irritata miss Jackson che a stento acconsenti ad aprirle la porta e ad ascoltare le sue giustificazioni. Lisa si era vergognata di mostrarsi a degli sconosciuti cosi nera; non aveva osato chiedere… era convinta che la buona, cara miss Jackson l’avrebbe perdonata… e così via. Miss Jackson, convinta che Lisa non avesse pensato a deriderla, si calmo, baciò Lisa e, in pegno di riconciliazione, le regalo un vasetto di belletto inglese che Lisa accolse con l’espressione di una sincera gratitudine.
Il lettore avra indovinato che, la mattina dopo, Lisa non tardò a comparire nel bosco dei convegni.
Sei stato, signore, ieri dai nostri padroni? — disse subito ad Alessio. — Come ti è parsa la signorina?
Alessio rispose di non averla notata.
Peccato, — replicò Lisa.
E perché? — chiese Alessio.
Ma perché volevo domandarti se è vero quel che dicono…
Che cosa dicono?
Ch’io somiglio alla signorina…
Che assurdità! Al tuo confronto e un mostro.
Ah, signore, fai peccato a dirlo; la nostra signorina e così elegante! Come posso pareggiarla!
Alessio le giuro ch’ella era meglio di tutte le signorine di pelle bianca e, per rassicurarla definitivamente, comincio a descrivere la sua padrona con tratti così buffi che Lisa ne rise di cuore.
Pero, — disse con un sospiro, — anche se la signorina e buffa, io sono sempre al suo confronto una stupida analfabeta.
Ih! — disse Alessio: — C’e di che affliggersi! Ma, se vuoi, t’insegno subito a leggere!
Davvero, — disse Lisa, — Dobbiamo provarci?
Ma sì, cara; cominciamo anche subito.
Sedettero. Alessio trasse di tasca una matita e il taccuino, e Aculìna imparò l’alfabeto meravigliosamente presto. Alessio non potè saziarsi di stupirsi della sua comprensione.
La mattina seguente, ella desidero di provarsi anche a scrivere; da principio la matita non le obbediva, ma dopo alcuni minuti ella cominciò a tracciare discretamente anche le lettere.
— Quale prodigio! — diceva Alessio. — Ma il nostro insegnamento va più rapido che col sistema di Lancaster!
In realtà, alla terza lezione Aculìna compitava già Natalia, figlia del boiardo, interrompendo la lettura con osservazioni che stupivano sinceramente Alessio, e scarabocchio un intero foglio di aforismi tolti dallo stesso racconto.
Passo una settimana, e tra loro s’ingaggio una corrispondenza. L’ufficio postale fu istituito nel cavo di un tronco di quercia. Nastia in segreto adempiva la mansione del portalettere. Là Alessio portava le lettere scritte a grossi caratteri e la pure trovava, su semplice carta azzurra, gli sgorbi della sua diletta. Aquilina si abituava evidentemente a uno stile migliore, e la sua mente si sviluppava e s’istruiva a vista d’occhio.
Intanto, la recente conoscenza tra Ivan Petròvich Bèrestov e Gregorio Ivànovich Mùromskij andó sempre più rafforzandosi e presto si convert! in amicizia per le seguenti circosianze. Mùromskij pensava spesso al fatto che, dopo la morte d'Ivan Petrovich, tutta la sua tenuta sarebbe passata nelle mani di Alessio Ivànovich; che in tal caso Alessio Ivànovich sarebbe diventato uno dei più ricchi possidenti di quel governatorato, e ch’egli non avrebbe avuto nessun motivo di non sposare Lisa. Il vecchio Bèrestov, dal canto suo, anche se riscontrava nel suo vici- no qualche rotella fuori di posto (o, secondo la sua espressione, una cretineria inglese), tuttavia non gli negava anche molti meriti eccellenti, fra l’altro, una rara abilita di rigirarsi: Grego¬rio Ivànovich era un prossimo parente del conte Prònskij, uomo illustre e influente; il conte poteva essere molto utile ad Alessio, e Mùromskij (così pensava Ivan Petròvich), probabilmente, si sarebbe rallegrato dell’occasione di maritare vantaggiosamente sua figlia. I vecchi meditarono su tutto ciò ognuno per suo conto, finche non ne parlarono fra loro: si abbracciarono, promisero di elaborare la faccenda a dovere e si accinsero ad adoperarcisi ognuno dal suo lato. Mùromskij aveva una difficoltà: quella d’indurre la sua Betsy a conoscere più da vicino Alessio ch’ella non vedeva sin dal memorabile pranzo. Pareva ch’essi non si piacessero troppo a vicenda; almeno, Alessio non era più tomato a Priluchino, e Lisa se ne andava in camera sua ogni qualvolta Ivan Petrovich li onorava di una sua visita. «Ма», pensava Gregorio Ivànovich, «se Alessio verrà da me ogni giorno, Betsy dovrà innamorarsene. E nell’ordine delle cose. Il tempo aggiusterà tutto».
Ivan Petrovich si preoccupava meno del successo delle proprie intenzioni. La sera stessa chiamò il figlio nel suo studio, accese la pipa e, dopo un breve silenzio, disse:
Come mai, Alioscia, non parli da un pezzo del servizio militare? Oppure la divisa di ussero non ti alletta più?
No, babbo, — rispose rispettosamente Alessio. — Vedo che non vi e gradito ch’io vada negli Usseri; il mio dovere e quello di obbedirvi.
Va bene, — rispose Ivan Petrovich. — Vedo che sei un figlio docile. Questo mi conforta. Non voglio nemmeno sforzare te: non ti obbligo a entrare… per ora… nella camera civile; e intanto, ho l’intenzione di darti moglie.
Chi, babbo? — domandò Alessio, sorpreso.
Lisaveta Grigorjevna Mùromskij, — rispose Ivan Petrovich. — Una fidanzata coi fiocchi, nevvero?
Babbo, io non penso ancora a sposarmi.
Se non ci pensi tu, ci ho pensato e strapensato per te.
Sia come volete. Lisa Mùromskij non mi piace.
Poi ti piacerà. Con la sopportazione vien l’amore.
Non mi reputo capace di far la sua felicita.
Non ti riguarda la sua felicita. Che? Cosi tratti la volonta di tuo padre? Bada!
Sia come volete: non voglio sposarmi e non mi sposeró.
Ti sposerai, o ti maledirò, e la tenuta, com’e vero Dio, la vendo о la perdo al gioco, e non ti lascerò un soldo. Ti do tre giorni per pensarci, e intanto non osare di venirmi davanti agli occhi!
Alessio sapeva che, se suo padre si metteva qualcosa in testa, non lo si poteva, secondo l’espressione di Taras Skotìnin, cacciare nemmeno con un chiodo; ma Alessio somigliava al padre, ed era altrettanto difficile piegarlo. Se ne andó in camera sua, e comincio a meditare sui limiti della patria potesta, su Lisaveta Grigorjevna, sulla solenne promessa di suo padre di lasciarlo mendico e, infine, su Aculìna. Per la prima volta, vedeva chiaramente di esserne appassionatamente innamorato; l’idea romanzesca di sposare una contadina e di vivere col proprio lavoro gli venne in mente, e quanto più pensava a questo atto decisivo, tanto più lo trovava ragionevole. Da qualche tempo gli incontri nel bosco erano stati interrotti, a causa del tempo piovoso. Egli scrisse ad Aculìna una lettera con la più chiara scrittura e con lo stile più furioso, le annunció la rovina incombente su di loro e li stesso le offri la propria mano. Porto subito la lettera alla posta, nel cavo della quercia, e andò a dormire assai contento di se.
Il giorno dopo, fermò nella sua intenzione, Alessio andò la mattina presto da Mùromskij per spiegarsi francamente con lui. Sperava di stuzzicare il suo amor proprio e di piegarlo dalla sua.
È in casa Gregorio Ivànovich? — chiese, fermando il cavallo davanti all’ingresso del castello di Priluchino.
No, — rispose il servo: — Gregorio Ivànovich e fuori dall’alba.
«Che disdetta!» pensó Alessio. — E in casa almeno Lisaveta Grigorjevna?
Sì, e in casa.
E Alessio salto giù dal cavallo, diede la briglia in mano al lacchè ed entro senza farsi annunciare.
«Tutto sarà deciso», pensava, avvicinandosi al salotto. Mi spiegherò con lei in persona». Entro… e rimase di stucco!
Lisa… no, Aculìna, la cara, olivastra Aculìna, non in costume, ma in abito bianco da mattina, sedeva alla finestra e leggeva la sua lettera; era così occupata che non lo udì nemmeno entrare. Alessio non potè trattenere un’esclamazione di gioia. Lisa trasali, alzo la testa, getto un grido e fece per fuggir via. Egli si slanciò a trattenerla.
— Aculìna, Aculìna!
Lisa cercava di liberarsi da lui…
— Mais laissez moi done, Monsieur: mais etes-vous fou? — ripeteva, volgendosi dall’altra parte.
— Aculìna! Amica mia, Aculìna! — ripeteva lui, baciandole le mani.
Miss Jackson, testimone di questa scena, non sapeva che cosa pensare. In quel momento la porta si apri, e Gregorio Ivànovich entrò.
— Ah! — disse Mùromskij. — Ma, a quanto pare, avete combinato tutto…
I lettori mi dispenseranno dall’obbligo superfluo di descrivere la soluzione.

 

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