Ho visto oggi questo film e mi è piaciuto nella sua particolarità dall'indefinibile genere: un film sull'amore e sulla morte, intriso di spiritualità e di antiche ritualità, immerso nella sconfinata natura russa. Triste, senz'altro, ma bello e poetico. Lo consiglio senz'altro a chiunque non si aspetta di fare due risate spensierate davanti ad una pellicola leggera.
Ricopio qui la recensione (per altro attinta dalle numerose recensioni esistenti sui siti russi) pubblicata sulla rivista online di informazione cinematografica e culturale nonsolocinema.com:
Nel centro e nel nord della Russia si nascondono popoli, tradizioni e culture sopravvissute alla modernità e al turbine della Storia. Il loro “senso per la neve” e per l’acqua aprono orizzonti inesplorati a noi poveri occidentali…
Una di queste culture è quella dei Merja, popolazione ugrofinnica (come gli estoni e i finlandesi, per capirci) che hanno perso la quasi totalità della loro lingua, resistono in enclavi ormai assimilate, ma continuano a conservare sacralmente la propria ricchezza folklorica. Aist fa il fotografo in un’enorme cartiera ed è appunto membro di questa antica comunità. I Merja, ci dice la sua voce narrante, non si distinguono più per l’attualità del loro vivere quotidiano, ma si riconoscono fra di loro per motivi che vanno oltre la tradizionale razionalità, e nei momenti cruciali mettono in atto riti e funzioni vicine ad un ancestrale paganesimo, che aiutano a superare le crisi e compattano quei lacerti di primitiva comunità.
Quando il suo capo, Miron, perde l’amata moglie, i due intraprendono un affascinante viaggio nelle acquitrinose zone lacustri della Russia centrale, lasciandosi dolcemente cullare dagli usi funerari di cui sono più che attivi esecutori, quasi incantati prigionieri: fra l’altro portano con sé i due “ovsjanki” del titolo originale. Sono due uccellini (in italiano “zigoli”) comunissimi nella zona, e perciò stesso “invisibili” nella loro quotidianità, come lo sono i Merja, com’è anche Aist (il suo nome, curiosamente in russo significa “cicogna”). Ma non per questo meno indispensabili; anzi la loro importanza periferica, eccentrica si rivaluta nei momenti di eccezionalità e di depressione psicologica, attraverso il recupero di ritualità in ostinata lotta per la sopravvivenza, come i piccoli uccellini nel gelido inverno russo.
E’ proprio la ritualità sacrale a costituire il filo rosso di questo piccolo gioiello coscientemente anti-moderno: il lavaggio del “cadavere” (ma forse il termine è riduttivo, se è vero che “solo l’amore non ha fine”, come recita la chiusa del film), il suo rogo silente sulle rive del fiume, il racconto spudorato ed esorcizzante delle intimità sessuali, scevro da ogni sconcezza (lo “sconcio” è un concetto occidentale…), la stessa liturgia colorata per cui i peli pubici della novella sposa vengono abbelliti di fili colorati (il marito li scioglierà la prima notte di nozze, per poi legarli eternamente ad un albero).
Tutto galleggia poi sull’acqua, o meglio su quel rapporto a noi incomprensibile che i Merja vivono con la loro fluida divinità autoctona: i fiumi, i laghi, persino il desiderio struggente di morire affogati per poter essere eternati nei flussi degli specchi acquatici che furono culla di quell’antico popolo. Tutto fluisce, disse qualcuno, ma i Merja vorrebbero bagnarsi eternamente nella stessa acqua…
Il russo Aleksej Fedorčenko (al suo terzo lungometraggio) riesce a farci fondere con il paesaggio e con gli antichi resti di ciò che gli europei hanno distrutto con il loro retaggio “giudaico-cristiano”, e lo fa con lieve maestria spirituale e con il rispetto di chi entra in punta di piedi nella camera dei segreti altrui, aiutandoci ad infrangere i confini di quello che la pruderie e la decenza considerano tabù: davanti alla morte non esiste vergogna, il corpo non è sacro per la sua mera fisicità, ma per la misura in cui riuscirà a ritornare al luogo da cui proviene: la Natura.
(
http://www.nonsolocinema.com/Ovsjan...ksej_20906.html )