Un mese fa Oleg Kashin, cronista del quotidiano russo Kommersant , è stato picchiato quasi a morte nei pressi della sua abitazione nel centro storico di Mosca. Si è trattato solo dell’ultimo caso in ordine di tempo di brutale aggressione a un giornalista in Russia - dall’inizio dell’anno si contano una quarantina di casi analoghi e otto reporter assassinati per la loro “professione” - ma l’episodio stavolta ha scatenato una vera e propria tempesta sul perché in Russia i giornalisti vengano aggrediti e assassinati.
Escluso il Caucaso dove il regolamento di conti con botte e omicidi è prassi comune, le altre regioni russe non sono così politicamente attive da far sì che l’assassinio di un avversario valga il rischio che si corre. Di norma, il vero motivo di queste aggressioni e di questi omicidi va ricercato negli interessi economici - spesso legati alla corruzione del governo – che potrebbero teoricamente essere messi a repentaglio da rivelazioni all’opinione pubblica.
Una riforma e una maggiore tutela legislativa sarebbero naturalmente gradite, ma perché abbiano effetto concreto – e ammesso che diventino leggi vere e proprie – la società russa intera dovrebbe frequentare un corso di “terapia politica” che renda più aperta la società stessa. Il che equivale a: esercitare pressioni sulle autorità affinché rendano note le informazioni; proibire l’uso arbitrario di archivi di documenti “segreti”; far sì che non vi siano documenti e fonti utilizzati esclusivamente dalle autorità; punire sistematicamente coloro che si macchiano di omertà e ignorano le richieste ufficiali provenienti dalla stampa e infine adottare una legge sulla libertà dell’informazione.
Questi provvedimenti, varati simultaneamente, ridurrebbero i rischi che corrono i giornalisti. Quanto più accessibile sarà l’informazione relativa a governo e aziende e quanto più si andrà affermando l’abitudine di parlare con la stampa e di farlo apertamente, con la massima trasparenza e non di nascosto, tanto più fiacche diverranno le motivazioni addotte da chi commissiona l’omicidio di coloro che affermano o scrivono cose che secondo alcuni non andrebbero dette o scritte.
Escluso il Caucaso dove il regolamento di conti con botte e omicidi è prassi comune, le altre regioni russe non sono così politicamente attive da far sì che l’assassinio di un avversario valga il rischio che si corre. Di norma, il vero motivo di queste aggressioni e di questi omicidi va ricercato negli interessi economici - spesso legati alla corruzione del governo – che potrebbero teoricamente essere messi a repentaglio da rivelazioni all’opinione pubblica.
Una riforma e una maggiore tutela legislativa sarebbero naturalmente gradite, ma perché abbiano effetto concreto – e ammesso che diventino leggi vere e proprie – la società russa intera dovrebbe frequentare un corso di “terapia politica” che renda più aperta la società stessa. Il che equivale a: esercitare pressioni sulle autorità affinché rendano note le informazioni; proibire l’uso arbitrario di archivi di documenti “segreti”; far sì che non vi siano documenti e fonti utilizzati esclusivamente dalle autorità; punire sistematicamente coloro che si macchiano di omertà e ignorano le richieste ufficiali provenienti dalla stampa e infine adottare una legge sulla libertà dell’informazione.
Questi provvedimenti, varati simultaneamente, ridurrebbero i rischi che corrono i giornalisti. Quanto più accessibile sarà l’informazione relativa a governo e aziende e quanto più si andrà affermando l’abitudine di parlare con la stampa e di farlo apertamente, con la massima trasparenza e non di nascosto, tanto più fiacche diverranno le motivazioni addotte da chi commissiona l’omicidio di coloro che affermano o scrivono cose che secondo alcuni non andrebbero dette o scritte.
L'articolo di Russia OGGII
In Russia giornalisti come in guerra
Medvedev e i crimini contro i giornalisti