Cappuccetto Rosso
C'era una volta una cara ragazzina; solo a vederla le volevan tutti bene, e specialmente la nonna, che non sapeva piu' cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso, e, poichè le donava tanto ch'essa non volle più portare altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso.
Un giorno sua madre le disse:
- Vieni, Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e si ristorerà. Mettiti in via prima che faccia troppo caldo; e, quando sei fuori, va' da brava, senza uscir di strada; se no, cadi e rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote. E quando entri nella sua stanza, non dimenticare di dir buon giorno invece di curiosare in tutti gli angoli.
-Farò tutto per bene, - disse Cappuccetto Rosso alla mamma e le diede la mano.
Ma la nonna abitava fuori, nel bosco, a una mezz'ora dal villaggio. E quando giunse nel bosco, Cappuccetto Rosso incontrò il lupo. Ma non sapeva che fosse una bestia tanto cattiva e non ebbe paura.
- Buon giorno, Cappuccetto Rosso, - egli disse.
- Grazie, lupo.
- Dove vai cosi presto, Cappuccetto Rosso?
- Dalla nonna.
- Cos 'hai sotto il grembiule?
- Vino e focaccia: ieri abbiamo cotto il pane; così la nonna, che è debole e malata, se la godrà un po' e si rinforzerà.
- Dove abita la tua nonna, Cappuccetto Rosso?
- A un buon quarto d'ora di qui, nel bosco, sotto le tre grosse querce; là c'è la sua casa, è sotto la macchia di noccioli, lo saprai già, - disse Cappuccetto Rosso.
Il lupo pensava: " Questa bimba tenerella è un grasso boccone, sarà piu' saporita della vecchia; se sei furbo, le acchiappi tutt'e due". Fece un pezzetto di strada vicino a Cappuccetto Rosso, poi disse:
- Vedi, Cappuccetto Rosso, quanti bei fiori? perché non ti guardi intorno? Credo che non senti neppure come cantano dolcemente gli uccellini! Te ne vai tutta contegnosa, come se andassi a scuola, ed è così allegro fuori nel bosco!
Cappuccetto Rosso alzò gli occhi e quando vide i raggi di sole danzare attraverso gli alberi, e tutto intorno pieno di bei fiori, pensò: " Se porto alla nonna un mazzo fresco, le farà piacere; è tanto presto, che arrivo ancora in tempo ". Dal sentiero corse nel bosco in cerca di fiori. E quando ne aveva colto uno, credeva che più in là ce ne fosse uno più bello e ci correva e si addentrava sempre più nel bosco.
Ma il lupo andò difilato alla casa della nonna e bussò alla porta.
- Chi è?
- Cappuccetto Rosso, che ti porta vino e focaccia; apri. - Alza il saliscendi, - gridò la nonna: - io son troppo debole e non posso levarmi.
Il lupo alzò il saliscendi, la porta si spalancò e, senza dir molto, egli andò dritto a letto della nonna e la ingoiò.
Poi si mise le sue vesti e la cuffia, si coricò nel letto e tirò le coperte .. Ma Cappuccetto Rosso aveva girato in cerca di fiori, e quando n'ebbe raccolti tanti che più non ne poteva portare, si ricordò della nonna e S'incamminò. Si meravigliò che la porta fosse spalancata ed entrando nella stanza ebbe un'impressione cosi strana che pensò:
" Oh, Dio mio, oggi, che paura! e di solito sto cosi volentieri con la nonna! " Esclamò:
- Buon giorno! - ma non ebbe risposta.
Allora s'avvicinò al letto e scostò le cortine: la nonna era coricata, con la cuffia abbassata sulla faccia e aveva un aspetto strano.
- Oh, nonna, che orecchie grosse!
- Per sentirti meglio.
- Oh, nonna, che occhi grossi!
- Per vederti meglio.
- Oh, nonna, che grosse mani!
- Per meglio afferrarti.
- Ma, nonna, che bocca spaventosa!
- Per meglio divorarti!.
E subito il lupo balzò dal letto e ingoiò il povero Cappuccetto Rosso.
Saziato il suo appetito, si rimise a letto, s'addormentò e cominciò a russare sonoramente.
Proprio allora passò li davanti il cacciatore e pensò: " Come russa la vecchia! devo darle un'occhiata, potrebbe star male ".
Entrò nella stanza e, avvicinatosi al letto, vide il lupo.
- Eccoti qua, vecchio impenitente, - disse, - è un pezzo che ti cerco.
Stava per puntare lo schioppo, ma gli venne in mente che il lupo avesse mangiato la nonna e che si potesse ancora salvarla: non sparò, ma prese un paio di forbici e cominciò a tagliare la pancia del lupo addormentato. Dopo due tagli, vide brillare il cappuccetto rosso, e dopo altri due la bambina saltò fuori gridando:
- Che paura ho avuto! com'era buio nel ventre del lupo!
Poi venne fuori anche la vecchia nonna, ancor viva, benché respirasse a stento. E Cappuccetto Rosso corse a prender dei pietroni, con cui riempirono la pancia del lupo; e quando egli si svegliò fece per correr via, ma le pietre erano cosi pesanti che subito s'accasciò e cadde morto.
Erano contenti tutti e tre: il cacciatore scuoiò il lupo e si portò via la pelle; la nonna mangiò la focaccia e bevve il vino che aveva portato Cappuccetto Rosso, e si rianimò; ma Cappuccetto Rosso pensava: " Mai più correrai sola nel bosco, lontano dal sentiero, quando la mamma te l'ha proibito ".
Raccontano pure che una volta Cappuccetto Rosso portava di nuovo una focaccia alla vecchia nonna, e un altro lupo volle indurla a deviare. Ma Cappuccetto Rosso se ne guardò bene e andò dritta per la sua strada, e disse alla nonna di aver incontrato il lupo, che l'aveva salutata, ma l'aveva guardata male:
- Se non fossimo stati sulla pubblica via, mi avrebbe mangiato.
- Vieni, - disse la nonna, - chiudiamo la porta, perché non entri.
Poco dopo il lupo bussò e gridò:
- Apri, nonna, sono Cappuccetto Rosso, ti porto la focaccia.
Ma quelle, zitte, non aprirono; allora Testa Grigia gironzolò un po' intorno alla casa e infine saltò sul tetto, per aspettare che Cappuccetto Rosso, la sera, prendesse la via del ritorno; l'avrebbe seguita di soppiatto, per mangiarsela al buio. Ma la nonna si accorse di quel che tramava. Davanti alla casa c'era un grosso trogolo di pietra, ed ella disse alla bambina:
- Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso, ieri ho cotto le salsicce, porta nel trogolo l'acqua dove han bollito.
Cappuccetto Rosso portò l'acqua, finché il grosso trogolo fu ben pieno.
Allora il profumo delle salsicce sali alle narici del lupo, egli si mise a fiutare e a sbirciare in giù, e alla fine allungò tanto il collo che non poté più trattenersi e cominciò a sdrucciolare: e sdrucciolò dal tetto proprio nel grosso trogolo e affogò.
Invece Cappuccetto Rosso tornò a casa tutta allegra e nessuno le fece del male.
di Jacob e Wilhelm Grimm
Oggetto: «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM»
Oggetto: «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM»
La fanciulla senza mani
Un mugnaio era caduto in miseria e gli erano rimasti soltanto il suo mulino e, dietro il mulino, un grande melo.
Una volta, che era andato nel bosco a far legna, gli si avvicinò un vecchio che non aveva mai visto e gli disse:
“Perché ti stanchi a spaccar legna! Ti farò ricco se mi prometti di darmi quello che sta dietro il tuo mulino”.
“Che cos’altro può essere se non il mio melo?”, pensò il mugnaio e disse: “Sì”, e per iscritto s’impegnò con lo sconosciuto.
Quello rise beffardamente e disse: “Fra tre anni verrò a prendermi quello che è mio” e se ne andò.
Quando il mugnaio arrivò a casa, sua moglie gli andò incontro e gli disse:
“Dimmi, mugnaio, da dove viene questa improvvisa ricchezza in casa nostra? In un attimo tutte le cassapanche e gli armadi si sono riempiti, eppure non è entrato nessuno; non so da dove venga”.
Il mugnaio rispose: “Da uno sconosciuto che ho incontrato nel bosco e che mi ha promesso grandi tesori, in cambio gli ho dato per iscritto quello che sta dietro al mulino – il vecchio melo glielo possiamo ben dare”
“Ah, marito mio! Quello era il diavolo, non all’albero di mele pensava, ma a nostra figlia, che spazzava il cortile proprio dietro il mulino”.
La figlia del mugnaio era una fanciulla bella e pia che visse quei tre anni nel timor di Dio e senza peccato. Quando il tempo fu trascorso, il giorno in cui il diavolo, il maligno, doveva venire a prenderla, si lavò bene e, col gesso, fece attorno a sé un cerchio.
Il diavolo arrivò di buonora, ma non poté avvicinarla. Arrabbiato disse al mugnaio:
“Porta via tutta l’acqua in modo che non possa più lavarsi, perchè io non ho più potere su di lei”.
Il mugnaio si spaventò e obbedì.
Il mattino seguente tornò il diavolo, ma lei aveva pianto sopra le proprie mani che erano pulite. Di nuovo non poté avvicinarsi a lei, e furioso replicò al mugnaio:
“Tagliale le mani, altrimenti non posso averla”.
Il mugnaio si spaventò e disse: “Come potrei mai tagliare le mani alla mia figliola?”.
Allora il maligno lo minacciò e disse. “Se non lo farai sarai mio e prenderò te”.
Il padre, spaventato, promise di obbedire. Andò dalla fanciulla e le disse:
“Cara figlia, se non ti taglio tutte e due le mani, il diavolo mi porterà via e nello spavento gliel’ho promesso. Salvami da questa angoscia e perdonami il male che ti faccio”.
Lei rispose: “Caro padre, fate di me quello che volete, io sono vostra figlia”.
Porse le mani e se le lasciò tagliare.
Il diavolo venne per la terza volta, ma lei intanto aveva pianto sui suoi moncherini che erano tutti puliti. Allora il diavolo dovette andarsene: aveva perso ogni diritto su di lei.
Il mugnaio disse alla figlia: “Per merito tuo ho guadagnato tante ricchezze, per tutta la vita ti tratterò da regina”.
Ma lei rispose: “Qui non posso più restare, me ne andrò. Gente pietosa mi darà quanto mi sarà necessario”. Si fece legare le braccia tagliate dietro la schiena, e al levar del sole si mise in cammino e camminò tutto il giorno fino a che venne notte. Giunse al giardino di un re, al chiaro di luna vide alberi carichi di frutta; ma non poteva entrare perché il giardino era circondato dall’acqua. E poiché aveva camminato tutto il giorno senza nemmeno un boccone, e la fame la tormentava, pensò: “Potessi entrare là dentro e mangiare un po’ di quella frutta, altrimenti morrò di fame”. Si inginocchiò, invocò il Signore Dio e pregò. Ad un tratto venne un angelo che costruì una chiusa nell’acqua, così che il fosso si asciugò e lei poté attraversarlo. Così entrò nel giardino e l’angelo la seguì.
Videro un albero pieno di frutta, erano pere belle, ma tutte contate. Lei si avvicinò e per saziare la fame ne prese una sola, staccandola con la bocca. Una e non di più. Il giardiniere la vide, ma siccome le stava vicino l’angelo, ebbe paura e pensò che la fanciulla fosse uno spirito. Finita la pera, fu sazia e si nascose fra i cespugli.
Il re, padrone del giardino, scese il mattino seguente, contò le pere e vide che ne mancava una e domandò al giardiniere dove fosse finita. Sotto l’albero non c’era. Il giardiniere rispose:
“La scorsa notte venne uno spirito, non aveva mani e ne ha mangiata una staccandola con la bocca”.
Il re disse: “E come è venuto lo spirito passando sopra l’acqua? E dov’è andato dopo aver mangiato la pera?”
Il giardiniere rispose: “E’ arrivato uno con un abito bianco come la neve, ha abbassato la chiusa e arrestato l’acqua, perché lo spirito potesse entrare nel giardino. Doveva essere un angelo, così ho avuto paura, non ho chiesto niente né ho chiamato. Quando lo spirito ebbe mangiato la pera, se ne è andato di nuovo”.
Il re disse: “Se è andata proprio come dici, io veglierò con te questa notte”.
Quando si fece notte, il re andò nel giardino e portò con sé un prete che doveva rivolgere la parola allo spirito. Tutti e tre se ne stettero sotto l’albero in attesa.
A mezzanotte venne la fanciulla dai cespugli, si avvicinò all’albero e mangiò un’altra pera staccandola con la bocca, accanto a lei c’era l’angelo con il vestito bianco. Allora il prete si avvicinò e disse:
“Sei venuta dal cielo o dalla terra? Sei uno spirito o una creatura umana?”
Lei rispose: “Non sono uno spirito, ma una povera creatura, abbandonata da tutti, ma non da Dio”.
E il re disse: “Se tutti ti hanno abbandonata, io non lo farò”.
La prese con sé al castello reale, e perché era tanto bela e buona, la amò con tutto il cuore, le fece costruire delle mani d’argento e la prese in sposa.
Un anno dopo, il re dovette partire per la guerra, affidò la giovane sposa a sua madre dicendole:
“Quando sarà l’ora del parto abbiatene cura e scrivetemi subito una lettera”.
La regina diede alla luce un figlio. La vecchia madre s’affrettò a scrivere al re la bella notizia.
Per la strada il messo si riposò accanto a un cespuglio e, stanco della lunga via, s’addormentò. Allora venne il diavolo, che sempre cercava di fare del male alla buona regina, e cambiò la lettera con un’altra, in cui era scritto che la regina aveva partorito un mostro.
Quando il re lesse la lettera, si spaventò e si rattristò molto, ma rispose che avesse cura della regina fino al suo ritorno.
Il messo tornò con la lettera, si riposò nello stesso luogo e s’addormentò di nuovo. Tornò il diavolo e gli scambiò la lettera in tasca. La lettera ordinava che venissero uccisi sia la regina che il bambino.
La vecchia madre si spaventò leggendo questa lettera e, non potendo crederci, scrisse di nuovo al re. Ma non ricevette altra risposta, perché ogni volta il diavolo dava al messo una falsa lettera. Nell’ultima c’era scritto di conservare la lingua e gli occhi della regina, come prova.
Ma la vecchia madre piangeva all’idea di dover fare uccidere quelle creature innocenti, e di notte mandò a prendere una cerva, le strappò la lingua e gli occhi e li conservò. Poi disse alla regina:
“Non posso farti uccidere come vuole il re, ma non puoi più rimanere qui a lungo; va col tuo bambino nel vasto mondo e non fare più ritorno!”
Le legò il bimbo sulla schiena e la povera madre se ne andò con gli occhi pieni di lacrime.
Arrivò in un bosco, s’inginocchiò a pregare e le apparve l’angelo del Signore e la portò in una piccola casa. Sulla casetta c’era un cartello che diceva: “Qui ognuno può abitare e non pagare”.
Dalla casa uscì una fanciulla bianca come la neve che disse: “Benvenuta, regina”, e la condusse dentro.
Le tolse il bimbo dalla schiena e glielo sorresse al petto, così che potesse succhiare, poi lo mise in un lettino già bello e pronto. Alla povera fanciulla rispose:
“Sono un angelo di Dio mandato qui per avere cura di te e del tuo bambino”.
Sette anni ella visse in quella casa e fu accudita e, per la sua bontà, il Signore le fece la grazia e le ricrebbero le mani che le erano state tagliate.
Finalmente il re tornò dalla guerra e chiese subito di vedere la moglie e il bambino. Allora la vecchia madre si mise a piangere e disse:
“Perché, tu, uomo malvagio, mi hai scritto di uccidere due innocenti!”, e gli mostrò le lettere, che il maligno aveva falsificato e continuò: “Ho fatto come mi hai ordinato” e gli fece vedere le prove: lingua e occhi.
Allora il re pianse, e molto più amaramente, sulla sua povera regina e sul figlio, tanto che la vecchia madre ne ebbe pietà e gli disse:
“Calmati, datti pace, è ancora viva! Di nascosto ho fatto uccidere una cerva e da questa ho preso le prove. A tua moglie ho legato il bimbo sulla schiena e le ho detto di andare per il mondo e di non tornare più, perché tu eri così adirato con lei”.
Allora il re disse: “Andrò fino a dove il cielo è azzurro, non mangerò e non berrò fino a che non avrò ritrovato la mia cara moglie e il mio bambino, se nel frattempo non sono morti di fame o di altro”.
Ed errò in quei sette anni e la cercò per rupi e caverne, ma non la trovò e pensò che fosse morta di stenti. In tutto quel tempo non bevve e non mangiò, ma Dio lo mantenne in vita.
Alla fine giunse in un grande bosco e trovò la casetta e sopra il cartello con le parole famose. Uscì una fanciulla bianca, lo prese per mano, lo fece entrare e lui le raccontò:
“Sono quasi sette anni che vago cercando mia moglie e mio figlio, ma non sono riuscito a trovarli”.
L’angelo gli offrì da mangiare e da bere, ma egli rifiutò e volle solo riposare un poco. Si mise a dormire, e si coprì il viso con un fazzoletto.
Allora l’angelo andò nella stanza dove c’erano la regina e il bambino, che lei chiamava Doloroso, e le disse:
“Va con tuo figlio, il tuo sposo è arrivato.”
E lei andò dove era sdraiato il re e il fazzoletto gli cadde dal viso.
Allora lei disse: “Doloroso, raccogli il fazzoletto a tuo padre e coprigli il volto”.
Il bambino lo raccolse e coprì il volto dell’uomo. Il re, nel dormiveglia udì e, apposta, fece di nuovo cadere il fazzoletto. Allora il bambino si spazientì e disse:
”Cara mamma, come posso coprire il volto a mio padre! Io non ho padre sulla terra. Ho imparato la preghiera che dice: “Padre nostro che sei nei cieli”, e tu mi hai detto che mio padre era in cielo e che era il buon Dio. Come potrei riconoscere un uomo così selvaggio? Non è mio padre!”
Quando il re udì ciò si drizzò a sedere e chiese alla donna chi fosse.
Ella rispose: “Sono tua moglie e questo è tuo figlio Doloroso”.
Ed egli vide le sue mani vive e vere e disse: “Mia moglie aveva mani d’argento”.
Ella rispose: “Le mie vere mani me le ha fatte ricrescere Dio misericordioso”, e l’angelo andò nella stanza, prese quelle d’argento e gliele mostrò.v Allora vide con certezza che quelli erano proprio la sua cara moglie e il suo caro bambino, e fu felice e li baciò e disse:
”Un gran peso mi è caduto dal cuore”.
L’angelo di Dio di nuovo diede loro da mangiare, poi andarono a casa della vecchia madre.
Dappertutto ci fu gran gioia e il re e la regina celebrarono un’altra volta le nozze e vissero felici fino alla loro santa morte.
di Jacob e Wilhelm Grimm
Un mugnaio era caduto in miseria e gli erano rimasti soltanto il suo mulino e, dietro il mulino, un grande melo.
Una volta, che era andato nel bosco a far legna, gli si avvicinò un vecchio che non aveva mai visto e gli disse:
“Perché ti stanchi a spaccar legna! Ti farò ricco se mi prometti di darmi quello che sta dietro il tuo mulino”.
“Che cos’altro può essere se non il mio melo?”, pensò il mugnaio e disse: “Sì”, e per iscritto s’impegnò con lo sconosciuto.
Quello rise beffardamente e disse: “Fra tre anni verrò a prendermi quello che è mio” e se ne andò.
Quando il mugnaio arrivò a casa, sua moglie gli andò incontro e gli disse:
“Dimmi, mugnaio, da dove viene questa improvvisa ricchezza in casa nostra? In un attimo tutte le cassapanche e gli armadi si sono riempiti, eppure non è entrato nessuno; non so da dove venga”.
Il mugnaio rispose: “Da uno sconosciuto che ho incontrato nel bosco e che mi ha promesso grandi tesori, in cambio gli ho dato per iscritto quello che sta dietro al mulino – il vecchio melo glielo possiamo ben dare”
“Ah, marito mio! Quello era il diavolo, non all’albero di mele pensava, ma a nostra figlia, che spazzava il cortile proprio dietro il mulino”.
La figlia del mugnaio era una fanciulla bella e pia che visse quei tre anni nel timor di Dio e senza peccato. Quando il tempo fu trascorso, il giorno in cui il diavolo, il maligno, doveva venire a prenderla, si lavò bene e, col gesso, fece attorno a sé un cerchio.
Il diavolo arrivò di buonora, ma non poté avvicinarla. Arrabbiato disse al mugnaio:
“Porta via tutta l’acqua in modo che non possa più lavarsi, perchè io non ho più potere su di lei”.
Il mugnaio si spaventò e obbedì.
Il mattino seguente tornò il diavolo, ma lei aveva pianto sopra le proprie mani che erano pulite. Di nuovo non poté avvicinarsi a lei, e furioso replicò al mugnaio:
“Tagliale le mani, altrimenti non posso averla”.
Il mugnaio si spaventò e disse: “Come potrei mai tagliare le mani alla mia figliola?”.
Allora il maligno lo minacciò e disse. “Se non lo farai sarai mio e prenderò te”.
Il padre, spaventato, promise di obbedire. Andò dalla fanciulla e le disse:
“Cara figlia, se non ti taglio tutte e due le mani, il diavolo mi porterà via e nello spavento gliel’ho promesso. Salvami da questa angoscia e perdonami il male che ti faccio”.
Lei rispose: “Caro padre, fate di me quello che volete, io sono vostra figlia”.
Porse le mani e se le lasciò tagliare.
Il diavolo venne per la terza volta, ma lei intanto aveva pianto sui suoi moncherini che erano tutti puliti. Allora il diavolo dovette andarsene: aveva perso ogni diritto su di lei.
Il mugnaio disse alla figlia: “Per merito tuo ho guadagnato tante ricchezze, per tutta la vita ti tratterò da regina”.
Ma lei rispose: “Qui non posso più restare, me ne andrò. Gente pietosa mi darà quanto mi sarà necessario”. Si fece legare le braccia tagliate dietro la schiena, e al levar del sole si mise in cammino e camminò tutto il giorno fino a che venne notte. Giunse al giardino di un re, al chiaro di luna vide alberi carichi di frutta; ma non poteva entrare perché il giardino era circondato dall’acqua. E poiché aveva camminato tutto il giorno senza nemmeno un boccone, e la fame la tormentava, pensò: “Potessi entrare là dentro e mangiare un po’ di quella frutta, altrimenti morrò di fame”. Si inginocchiò, invocò il Signore Dio e pregò. Ad un tratto venne un angelo che costruì una chiusa nell’acqua, così che il fosso si asciugò e lei poté attraversarlo. Così entrò nel giardino e l’angelo la seguì.
Videro un albero pieno di frutta, erano pere belle, ma tutte contate. Lei si avvicinò e per saziare la fame ne prese una sola, staccandola con la bocca. Una e non di più. Il giardiniere la vide, ma siccome le stava vicino l’angelo, ebbe paura e pensò che la fanciulla fosse uno spirito. Finita la pera, fu sazia e si nascose fra i cespugli.
Il re, padrone del giardino, scese il mattino seguente, contò le pere e vide che ne mancava una e domandò al giardiniere dove fosse finita. Sotto l’albero non c’era. Il giardiniere rispose:
“La scorsa notte venne uno spirito, non aveva mani e ne ha mangiata una staccandola con la bocca”.
Il re disse: “E come è venuto lo spirito passando sopra l’acqua? E dov’è andato dopo aver mangiato la pera?”
Il giardiniere rispose: “E’ arrivato uno con un abito bianco come la neve, ha abbassato la chiusa e arrestato l’acqua, perché lo spirito potesse entrare nel giardino. Doveva essere un angelo, così ho avuto paura, non ho chiesto niente né ho chiamato. Quando lo spirito ebbe mangiato la pera, se ne è andato di nuovo”.
Il re disse: “Se è andata proprio come dici, io veglierò con te questa notte”.
Quando si fece notte, il re andò nel giardino e portò con sé un prete che doveva rivolgere la parola allo spirito. Tutti e tre se ne stettero sotto l’albero in attesa.
A mezzanotte venne la fanciulla dai cespugli, si avvicinò all’albero e mangiò un’altra pera staccandola con la bocca, accanto a lei c’era l’angelo con il vestito bianco. Allora il prete si avvicinò e disse:
“Sei venuta dal cielo o dalla terra? Sei uno spirito o una creatura umana?”
Lei rispose: “Non sono uno spirito, ma una povera creatura, abbandonata da tutti, ma non da Dio”.
E il re disse: “Se tutti ti hanno abbandonata, io non lo farò”.
La prese con sé al castello reale, e perché era tanto bela e buona, la amò con tutto il cuore, le fece costruire delle mani d’argento e la prese in sposa.
Un anno dopo, il re dovette partire per la guerra, affidò la giovane sposa a sua madre dicendole:
“Quando sarà l’ora del parto abbiatene cura e scrivetemi subito una lettera”.
La regina diede alla luce un figlio. La vecchia madre s’affrettò a scrivere al re la bella notizia.
Per la strada il messo si riposò accanto a un cespuglio e, stanco della lunga via, s’addormentò. Allora venne il diavolo, che sempre cercava di fare del male alla buona regina, e cambiò la lettera con un’altra, in cui era scritto che la regina aveva partorito un mostro.
Quando il re lesse la lettera, si spaventò e si rattristò molto, ma rispose che avesse cura della regina fino al suo ritorno.
Il messo tornò con la lettera, si riposò nello stesso luogo e s’addormentò di nuovo. Tornò il diavolo e gli scambiò la lettera in tasca. La lettera ordinava che venissero uccisi sia la regina che il bambino.
La vecchia madre si spaventò leggendo questa lettera e, non potendo crederci, scrisse di nuovo al re. Ma non ricevette altra risposta, perché ogni volta il diavolo dava al messo una falsa lettera. Nell’ultima c’era scritto di conservare la lingua e gli occhi della regina, come prova.
Ma la vecchia madre piangeva all’idea di dover fare uccidere quelle creature innocenti, e di notte mandò a prendere una cerva, le strappò la lingua e gli occhi e li conservò. Poi disse alla regina:
“Non posso farti uccidere come vuole il re, ma non puoi più rimanere qui a lungo; va col tuo bambino nel vasto mondo e non fare più ritorno!”
Le legò il bimbo sulla schiena e la povera madre se ne andò con gli occhi pieni di lacrime.
Arrivò in un bosco, s’inginocchiò a pregare e le apparve l’angelo del Signore e la portò in una piccola casa. Sulla casetta c’era un cartello che diceva: “Qui ognuno può abitare e non pagare”.
Dalla casa uscì una fanciulla bianca come la neve che disse: “Benvenuta, regina”, e la condusse dentro.
Le tolse il bimbo dalla schiena e glielo sorresse al petto, così che potesse succhiare, poi lo mise in un lettino già bello e pronto. Alla povera fanciulla rispose:
“Sono un angelo di Dio mandato qui per avere cura di te e del tuo bambino”.
Sette anni ella visse in quella casa e fu accudita e, per la sua bontà, il Signore le fece la grazia e le ricrebbero le mani che le erano state tagliate.
Finalmente il re tornò dalla guerra e chiese subito di vedere la moglie e il bambino. Allora la vecchia madre si mise a piangere e disse:
“Perché, tu, uomo malvagio, mi hai scritto di uccidere due innocenti!”, e gli mostrò le lettere, che il maligno aveva falsificato e continuò: “Ho fatto come mi hai ordinato” e gli fece vedere le prove: lingua e occhi.
Allora il re pianse, e molto più amaramente, sulla sua povera regina e sul figlio, tanto che la vecchia madre ne ebbe pietà e gli disse:
“Calmati, datti pace, è ancora viva! Di nascosto ho fatto uccidere una cerva e da questa ho preso le prove. A tua moglie ho legato il bimbo sulla schiena e le ho detto di andare per il mondo e di non tornare più, perché tu eri così adirato con lei”.
Allora il re disse: “Andrò fino a dove il cielo è azzurro, non mangerò e non berrò fino a che non avrò ritrovato la mia cara moglie e il mio bambino, se nel frattempo non sono morti di fame o di altro”.
Ed errò in quei sette anni e la cercò per rupi e caverne, ma non la trovò e pensò che fosse morta di stenti. In tutto quel tempo non bevve e non mangiò, ma Dio lo mantenne in vita.
Alla fine giunse in un grande bosco e trovò la casetta e sopra il cartello con le parole famose. Uscì una fanciulla bianca, lo prese per mano, lo fece entrare e lui le raccontò:
“Sono quasi sette anni che vago cercando mia moglie e mio figlio, ma non sono riuscito a trovarli”.
L’angelo gli offrì da mangiare e da bere, ma egli rifiutò e volle solo riposare un poco. Si mise a dormire, e si coprì il viso con un fazzoletto.
Allora l’angelo andò nella stanza dove c’erano la regina e il bambino, che lei chiamava Doloroso, e le disse:
“Va con tuo figlio, il tuo sposo è arrivato.”
E lei andò dove era sdraiato il re e il fazzoletto gli cadde dal viso.
Allora lei disse: “Doloroso, raccogli il fazzoletto a tuo padre e coprigli il volto”.
Il bambino lo raccolse e coprì il volto dell’uomo. Il re, nel dormiveglia udì e, apposta, fece di nuovo cadere il fazzoletto. Allora il bambino si spazientì e disse:
”Cara mamma, come posso coprire il volto a mio padre! Io non ho padre sulla terra. Ho imparato la preghiera che dice: “Padre nostro che sei nei cieli”, e tu mi hai detto che mio padre era in cielo e che era il buon Dio. Come potrei riconoscere un uomo così selvaggio? Non è mio padre!”
Quando il re udì ciò si drizzò a sedere e chiese alla donna chi fosse.
Ella rispose: “Sono tua moglie e questo è tuo figlio Doloroso”.
Ed egli vide le sue mani vive e vere e disse: “Mia moglie aveva mani d’argento”.
Ella rispose: “Le mie vere mani me le ha fatte ricrescere Dio misericordioso”, e l’angelo andò nella stanza, prese quelle d’argento e gliele mostrò.v Allora vide con certezza che quelli erano proprio la sua cara moglie e il suo caro bambino, e fu felice e li baciò e disse:
”Un gran peso mi è caduto dal cuore”.
L’angelo di Dio di nuovo diede loro da mangiare, poi andarono a casa della vecchia madre.
Dappertutto ci fu gran gioia e il re e la regina celebrarono un’altra volta le nozze e vissero felici fino alla loro santa morte.
di Jacob e Wilhelm Grimm
Oggetto: «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM»
Il fedele Giovanni
C'era una volta un vecchio re che era malato e pensava: «Questo sarà il mio letto di morte!».
Allora disse: «Fate venire il mio fedele Giovanni».
Il fedele Giovanni era il suo servo prediletto e si chiamava così perché gli era stato fedele per tutta la vita. Quando fu al suo capezzale, il re gli disse:
«Mio fedelissimo Giovanni, sento che la mia fine si avvicina e temo solo per mio figlio. È ancora in un'età in cui spesso non si sa che via scegliere, e se tu non mi prometti di insegnargli tutto quello che deve sapere, e di essere il suo tutore, non posso chiudere gli occhi in pace».
Il fedele Giovanni rispose: «Non lo abbandonerò e lo servirò con fedeltà, dovesse costarmi la vita».
Allora il vecchio re disse: «Muoio contento e in pace». E aggiunse: «Dopo la mia morte devi mostrargli tutto il castello: tutte le stanze, le sale, i sotterranei e i tesori che in esso vi sono. Solo una camera devi nascondergli: quella dove c'è nascosto il ritratto della principessa dal Tetto d'oro; se per caso la vedesse, proverebbe per lei un amore ardente, cadrebbe svenuto e correrebbe gravi pericoli; devi salvarlo».
E dopo che il fedele Giovanni ebbe rinnovata la promessa, il vecchio re tacque, adagiò la testa sul cuscino e morì.
Quando il re fu seppellito, il fedele Giovanni raccontò al giovane quello che aveva promesso a suo padre sul letto di morte e disse:
«Lo manterrò certamente e ti sarò fedele, dovesse costarmi la vita».
Il giovane piangendo esclamò: «Io pure non dimenticherò mai la tua fedeltà».
Finito il lutto, il fedele Giovanni gli disse: «È tempo che tu veda i tuoi beni; voglio mostrarti il castello di tuo padre».
Lo condusse in giro da ogni parte, su e giù, e gli fece vedere tutti i tesori e le splendide stanze; soltanto la camera che racchiudeva il ritratto non aprì. Il ritratto era posto in modo che aprendo la porta lo si vedesse subito; era dipinto con tanta arte da sembrare vivo e non vi era al mondo nulla di più soave e di più bello. Ma il giovane re si accorse subito che il fedele Giovanni passava sempre davanti a questa porta senza fermarsi e disse:
«Perché questa non la apri?».
«Vi è qualcosa dentro che ti spaventerebbe», rispose il servo.
Ma il re replicò: «Ho visto tutto il castello; voglio sapere anche che cosa c'è qua dentro».
Andò alla porta e cercò di aprirla con forza. Allora il fedele Giovanni lo trattenne e disse:
«Prima di morire, ho promesso a tuo padre che non avresti visto quello che vi è nella stanza: potrebbe causare ad entrambi grande sventura».
«No», rispose il giovane re, «se non entro è la mia rovina: non avrò pace né di giorno né di notte, finché non l'avrò visto; non me ne andrò di qui finché non avrai aperto.»
Il fedele Giovanni vide allora che non vi era più nulla da fare e, col cuore grosso e molti sospiri, cercò la chiave nel grosso mazzo. Poi aprì la porta della stanza ed entrò per primo pensando che il re non potesse vedere il ritratto; ma questi era troppo curioso, si mise sulla punta dei piedi e guardò al di sopra della sua spalla. E quando vide l'immagine della fanciulla, così bella e splendente d'oro, cadde a terra svenuto. Il fedele Giovanni lo sollevò, lo portò a letto e pensò preoccupato: «La disgrazia è avvenuta; Signore, Iddio, che avverrà mai?». Poi lo rianimò con del vino, ma la prima cosa che il giovane disse quando si riebbe fu:
«Ah, di chi è quel bel ritratto?».
«È la principessa dal Tetto d'oro», rispose il fedele Giovanni.
Allora il re disse: «Il mio amore per lei è così grande che se tutte le foglie degli alberi fossero lingue, non potrebbero esprimerlo. Pur di ottenerla in sposa rischierei la vita; tu sei il mio fedelissimo Giovanni e devi aiutarmi».
Il fedele servitore rifletté a lungo su come agire, poiché giungere al cospetto della principessa era cosa assai difficile. Alla fine escogitò un sistema e disse al re:
«Tutto ciò che la circonda è d'oro: tavoli, sedie, piatti, bicchieri, scodelle e ogni altra suppellettile. Fra i tuoi beni vi sono cinque tonnellate d'oro: fanne lavorare una dagli orefici del regno, che ne facciano ogni sorta di vasellame e di utensile, ogni sorta di uccelli, fiere e mostri, con queste cose tenteremo la fortuna».
Il re fece radunare tutti gli orefici e li fece lavorare giorno e notte, finché furono pronti gli oggetti più splendidi. Il fedele Giovanni fece allora caricare il tutto su di una nave, indossò abiti da mercante e così fece pure il re in modo da rendersi irriconoscibile. Poi salparono e navigarono a lungo finché giunsero alla città nella quale abitava la principessa dal Tetto d'oro.
Il fedele Giovanni disse al re di rimanere sulla nave e di aspettarlo.
«Forse», disse, «porterò con me la principessa, per questo abbiate cura che tutto sia in ordine: esponete il vasellame d'oro e fate adornare tutta la nave.»
Poi radunò nel grembiule ogni sorta di oggetti d'oro, sbarcò e andò dritto al castello reale.
Quando giunse nel cortile del castello c'era alla fonte una bella fanciulla, che aveva in mano due secchi d'oro e attingeva l'acqua. Quand'ella si volse per portar via l'acqua dai bagliori dorati, vide lo straniero e gli domandò chi fosse. Allora egli rispose:
«Sono un mercante» e aprì il grembiule, perché potesse guardarvi dentro.
Allora ella esclamò: «Oh, che begli oggetti d'oro!»; depose i secchi e si mise ad esaminarli uno dopo l'altro.
Poi disse: «Deve vederli la principessa, gli oggetti d'oro le piacciono tanto che ve li comprerà tutti».
Lo prese per mano e lo condusse fino alle stanze superiori, poiché era la cameriera.
Quando la principessa vide la merce, tutta contenta disse: «È così ben lavorata che voglio comprarti tutto».
Ma il fedele Giovanni disse: «Io sono soltanto il servo di un mercante; ciò che ho qui è nulla in confronto a quello che il mio padrone ha sulla sua nave; là vi è quanto di più artistico e di più prezioso sia mai stato lavorato in oro».
Lei voleva che le portassero tutto al castello, ma lui disse:
«Per fare questo occorrono molti giorni, perché vi è moltissima merce; ci vogliono tante sale per esporla che la vostra casa non basterebbe».
Così la curiosità e il desiderio crebbero in lei sempre di più, finché disse:
«Conducimi alla nave: voglio andare io stessa a vedere i tesori del tuo padrone».
Tutto contento, il fedele Giovanni la condusse sulla nave e il re, quando la vide, credette che il cuore gli scoppiasse e poté trattenersi a fatica. Lei salì sulla nave e il re la condusse all'interno, ma il fedele Giovanni rimase presso il timoniere e ordinò che la nave salpasse:
«Spiegate le vele, che voli come un uccello nell'aria!».
Intanto all'interno il re le faceva vedere tutti gli oggetti d'oro uno per uno: i piatti, i bicchieri, le ciotole, gli uccelli, le fiere e i mostri. Passarono diverse ore e lei rimirava ogni cosa con tale gioia da non accorgersi che la nave era partita. Quando ebbe esaminato l'ultimo oggetto, ringraziò il mercante e volle ritornare a casa; ma, giunta sul ponte, vide che la nave correva a vele spiegate in alto mare, lontano da terra.
«Ah», gridò spaventata, «sono stata ingannata, rapita; sono nelle mani di un mercante: preferirei morire!»
Ma il re la prese per mano e disse: «Non sono un mercante ma un re, non inferiore a te per nascita. Se ti ho rapita con l'astuzia è stato solo per il grande amore che ti porto. Quando vidi il tuo ritratto la prima volta, caddi a terra svenuto».
All'udire queste parole, la principessa dal Tetto d'oro si consolò; e fu così spinta ad amarlo, che accettò volentieri di diventare sua moglie.
Ma, mentre navigavano in alto mare, il fedele Giovanni, che sedeva a prua e suonava, scorse in aria tre corvi che si avvicinavano in volo. Smise di suonare e ascoltò quel che dicevano, perché li capiva bene.
Uno gracchiò: «Ah, si porta a casa la principessa dal Tetto d'oro!».
«Sì», rispose il secondo, «ma non l'ha ancora!»
E il terzo disse: «Ma sì, è con lui sulla nave!».
Allora il primo riprese a dire: «A che giova questo? Quando sbarcheranno, gli balzerà incontro un cavallo sauro: allora vorrà cavalcarlo e, se lo farà, il cavallo correrà via con lui e si alzerà in volo, cosicché lui non vedrà mai più la sua fanciulla».
Il secondo disse: «Non ha modo di salvarsi?».
«Oh sì, se colui che è in sella estrae il fucile che è infilato nella cavezza del cavallo e lo uccide, il giovane re è salvo; ma chi può saperlo? E chi sapendolo glielo dicesse diventerebbe di pietra dalla punta dei piedi alle ginocchia.»
Allora il secondo disse: «Io so di più, anche se il cavallo viene ucciso, il giovane re non serba la sua sposa! Quando entreranno nel castello troveranno su di un vassoio una camicia nuziale che sembrerà intessuta d'oro e d'argento, ma non si tratterà che di pece e zolfo. Se lui la indosserà brucerà fino al midollo».
Il terzo disse: «Non ha modo di salvarsi?».
«Oh sì», rispose il secondo, «se uno afferra la camicia con dei guanti e la getta nel fuoco, in modo che bruci, il giovane re è salvo. Ma a che giova? Chi sapendolo glielo dicesse diventerebbe di pietra dal ginocchio al cuore.»
Allora il terzo disse: «Io so di più: anche se bruciasse la camicia nuziale, il giovane re non avrebbe ancora la sua sposa. Quando, dopo le nozze, incomincerà il ballo e la giovane regina danzerà, impallidirà all'improvviso e cadrà come morta. E se qualcuno non la solleva e non succhia tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e non le risputa, lei morirà. Ma se qualcuno lo sa e lo rivela, diventerà tutto di pietra, dalla testa fino alla punta dei capelli».
Quando i corvi si furono scambiati queste parole, volarono via: il fedele Giovanni aveva capito tutto; ma da quel momento in poi fu triste e taciturno: infatti se avesse taciuto al suo signore ciò che aveva udito, questi sarebbe stato infelice, e se glielo avesse rivelato avrebbe dovuto sacrificare la sua stessa vita.
Infine si disse: «Voglio salvare il mio signore, anche se questo dovesse causare la mia rovina».
Quando giunsero a terra, accadde quello che il corvo aveva predetto e uno splendido sauro balzò loro incontro.
«Oh», esclamò il re, «mi porterà al mio castello» e volle montare in sella; ma il fedele Giovanni lo precedette, balzò velocemente in sella, estrasse l'arma dalla cavezza e uccise il cavallo. Allora gli altri servi del re, che non amavano il fedele Giovanni esclamarono:
«Che cosa ignobile, uccidere quel bell' animale che doveva portare il re al castello!».
Ma il re disse: «Tacete e lasciatelo fare: è il mio fedelissimo Giovanni, avrà un buon motivo».
Poi andarono al castello e nella sala c'era il vassoio sul quale era posata la camicia nuziale, che sembrava tutta d'oro e d'argento. Il giovane re si fece avanti per prenderla, ma il fedele Giovanni lo spinse via, afferrò la camicia con i guanti, la gettò nel fuoco e la bruciò.
Gli altri servi ricominciarono a mormorare e dissero: «Guardate, ora brucia persino la camicia nuziale del re!».
Ma il giovane re disse: «Avrà un buon motivo, lasciatelo fare, è il mio fedelissimo Giovanni».
Poi si celebrarono le nozze; il ballo incominciò e anche la sposa vi prese parte. Il fedele Giovanni stava attento e la guardava in viso. D'un tratto impallidì e cadde a terra come morta. Allora egli corse da lei e la portò in una stanza; qui la distese, si inginocchiò, succhiò le tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e le sputò.
Subito lei riprese a respirare e si riebbe, ma il giovane re aveva visto tutto e, non sapendo perché il fedele Giovanni lo avesse fatto, andò in collera e gridò: «Gettatelo in prigione!».
Il mattino dopo il fedele Giovanni fu condannato e condotto al patibolo e quando fu lassù e stava per essere giustiziato, disse:
«Chi deve morire, può parlare ancora una volta prima della sua fine; ho anch'io questo diritto?».
«Sì», rispose il re, «ti sia concesso.»
Allora il fedele Giovanni disse: «Sono condannato ingiustamente e ti sono sempre stato fedele». E gli raccontò come avesse udito sul mare il discorso dei corvi e deciso di salvare il suo signore; per questo aveva dovuto fare tutto quello che aveva fatto.
Allora il re esclamò: «Oh mio fedelissimo Giovanni! Grazia! Grazia! Portatelo giù».
Ma il fedele Giovanni, appena aveva pronunciato l'ultima parola, era caduto senza vita ed era diventato di pietra.
Il re e la regina se ne afflissero molto e il re diceva: «Ah, come ho mai ricompensato tanta fedeltà!».
Fece sollevare la statua di pietra e la fece mettere nella sua stanza accanto al suo letto.
Ogni volta che la guardava piangeva e diceva: «Ah, potessi ridarti la vita. mio fedelissimo Giovanni!».
Passò qualche tempo e la regina partorì due gemelli, due maschietti, che crebbero ed erano la sua gioia. Un giorno che la regina era in chiesa e i due bambini giocavano accanto al padre, il re guardò la statua di pietra con grande tristezza, sospirò e disse:
«Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni!».
Allora la statua incominciò a parlare e disse: «Sì, puoi ridarmi la vita se sarai disposto a dare ciò che ti è più caro».
Allora il re esclamò: «Per te darò tutto quello che ho al mondo!».
La statua di pietra proseguì: «Se di tua mano tagli la testa ai tuoi due bambini e mi ricopri con il loro sangue, allora riavrò la vita».
Il re inorridì quando udì che doveva uccidere egli stesso i suoi diletti figli, ma pensò alla grande fedeltà del fedele Giovanni, che era morto per lui: trasse la spada e di sua mano tagliò la testa ai bambini. E quando ebbe ricoperto la statua con il loro sangue, essa si animò e il fedele Giovanni gli stette di nuovo innanzi, fresco e sano. Ed egli disse al re:
«Voglio ricompensare la tua lealtà» e prese le teste dei bambini, le rimise sul busto e spalmò le ferite col loro sangue. In un attimo i bambini tornarono sani e ripresero a saltare e a giocare come se nulla fosse accaduto.
Il re era felice e, quando vide venire la regina, nascose il fedele Giovanni e i due bambini in un grande armadio.
Quando lei entrò le disse: «Hai pregato in chiesa?».
«Sì», rispose la regina, «ma ho sempre pensato al fedele Giovanni che è stato così sventurato per colpa nostra.»
Allora egli disse: «Cara moglie, noi possiamo ridargli la vita, ma a prezzo del sacrificio dei nostri figlioletti».
La regina impallidì e le si gelò il sangue, ma disse: «Glielo dobbiamo per la sua grande fedeltà».
E il re si rallegrò che pensasse come lui; andò ad aprire l'armadio e ne uscirono i bambini e il fedele Giovanni.
Il re disse: «Grazie a Dio egli è libero dall'incantesimo e abbiamo ancora i nostri figlioletti».
E le raccontò tutto quello che era successo. Poi vissero felici insieme fino alla morte.
di Jakob e Wilhelm Grimm
C'era una volta un vecchio re che era malato e pensava: «Questo sarà il mio letto di morte!».
Allora disse: «Fate venire il mio fedele Giovanni».
Il fedele Giovanni era il suo servo prediletto e si chiamava così perché gli era stato fedele per tutta la vita. Quando fu al suo capezzale, il re gli disse:
«Mio fedelissimo Giovanni, sento che la mia fine si avvicina e temo solo per mio figlio. È ancora in un'età in cui spesso non si sa che via scegliere, e se tu non mi prometti di insegnargli tutto quello che deve sapere, e di essere il suo tutore, non posso chiudere gli occhi in pace».
Il fedele Giovanni rispose: «Non lo abbandonerò e lo servirò con fedeltà, dovesse costarmi la vita».
Allora il vecchio re disse: «Muoio contento e in pace». E aggiunse: «Dopo la mia morte devi mostrargli tutto il castello: tutte le stanze, le sale, i sotterranei e i tesori che in esso vi sono. Solo una camera devi nascondergli: quella dove c'è nascosto il ritratto della principessa dal Tetto d'oro; se per caso la vedesse, proverebbe per lei un amore ardente, cadrebbe svenuto e correrebbe gravi pericoli; devi salvarlo».
E dopo che il fedele Giovanni ebbe rinnovata la promessa, il vecchio re tacque, adagiò la testa sul cuscino e morì.
Quando il re fu seppellito, il fedele Giovanni raccontò al giovane quello che aveva promesso a suo padre sul letto di morte e disse:
«Lo manterrò certamente e ti sarò fedele, dovesse costarmi la vita».
Il giovane piangendo esclamò: «Io pure non dimenticherò mai la tua fedeltà».
Finito il lutto, il fedele Giovanni gli disse: «È tempo che tu veda i tuoi beni; voglio mostrarti il castello di tuo padre».
Lo condusse in giro da ogni parte, su e giù, e gli fece vedere tutti i tesori e le splendide stanze; soltanto la camera che racchiudeva il ritratto non aprì. Il ritratto era posto in modo che aprendo la porta lo si vedesse subito; era dipinto con tanta arte da sembrare vivo e non vi era al mondo nulla di più soave e di più bello. Ma il giovane re si accorse subito che il fedele Giovanni passava sempre davanti a questa porta senza fermarsi e disse:
«Perché questa non la apri?».
«Vi è qualcosa dentro che ti spaventerebbe», rispose il servo.
Ma il re replicò: «Ho visto tutto il castello; voglio sapere anche che cosa c'è qua dentro».
Andò alla porta e cercò di aprirla con forza. Allora il fedele Giovanni lo trattenne e disse:
«Prima di morire, ho promesso a tuo padre che non avresti visto quello che vi è nella stanza: potrebbe causare ad entrambi grande sventura».
«No», rispose il giovane re, «se non entro è la mia rovina: non avrò pace né di giorno né di notte, finché non l'avrò visto; non me ne andrò di qui finché non avrai aperto.»
Il fedele Giovanni vide allora che non vi era più nulla da fare e, col cuore grosso e molti sospiri, cercò la chiave nel grosso mazzo. Poi aprì la porta della stanza ed entrò per primo pensando che il re non potesse vedere il ritratto; ma questi era troppo curioso, si mise sulla punta dei piedi e guardò al di sopra della sua spalla. E quando vide l'immagine della fanciulla, così bella e splendente d'oro, cadde a terra svenuto. Il fedele Giovanni lo sollevò, lo portò a letto e pensò preoccupato: «La disgrazia è avvenuta; Signore, Iddio, che avverrà mai?». Poi lo rianimò con del vino, ma la prima cosa che il giovane disse quando si riebbe fu:
«Ah, di chi è quel bel ritratto?».
«È la principessa dal Tetto d'oro», rispose il fedele Giovanni.
Allora il re disse: «Il mio amore per lei è così grande che se tutte le foglie degli alberi fossero lingue, non potrebbero esprimerlo. Pur di ottenerla in sposa rischierei la vita; tu sei il mio fedelissimo Giovanni e devi aiutarmi».
Il fedele servitore rifletté a lungo su come agire, poiché giungere al cospetto della principessa era cosa assai difficile. Alla fine escogitò un sistema e disse al re:
«Tutto ciò che la circonda è d'oro: tavoli, sedie, piatti, bicchieri, scodelle e ogni altra suppellettile. Fra i tuoi beni vi sono cinque tonnellate d'oro: fanne lavorare una dagli orefici del regno, che ne facciano ogni sorta di vasellame e di utensile, ogni sorta di uccelli, fiere e mostri, con queste cose tenteremo la fortuna».
Il re fece radunare tutti gli orefici e li fece lavorare giorno e notte, finché furono pronti gli oggetti più splendidi. Il fedele Giovanni fece allora caricare il tutto su di una nave, indossò abiti da mercante e così fece pure il re in modo da rendersi irriconoscibile. Poi salparono e navigarono a lungo finché giunsero alla città nella quale abitava la principessa dal Tetto d'oro.
Il fedele Giovanni disse al re di rimanere sulla nave e di aspettarlo.
«Forse», disse, «porterò con me la principessa, per questo abbiate cura che tutto sia in ordine: esponete il vasellame d'oro e fate adornare tutta la nave.»
Poi radunò nel grembiule ogni sorta di oggetti d'oro, sbarcò e andò dritto al castello reale.
Quando giunse nel cortile del castello c'era alla fonte una bella fanciulla, che aveva in mano due secchi d'oro e attingeva l'acqua. Quand'ella si volse per portar via l'acqua dai bagliori dorati, vide lo straniero e gli domandò chi fosse. Allora egli rispose:
«Sono un mercante» e aprì il grembiule, perché potesse guardarvi dentro.
Allora ella esclamò: «Oh, che begli oggetti d'oro!»; depose i secchi e si mise ad esaminarli uno dopo l'altro.
Poi disse: «Deve vederli la principessa, gli oggetti d'oro le piacciono tanto che ve li comprerà tutti».
Lo prese per mano e lo condusse fino alle stanze superiori, poiché era la cameriera.
Quando la principessa vide la merce, tutta contenta disse: «È così ben lavorata che voglio comprarti tutto».
Ma il fedele Giovanni disse: «Io sono soltanto il servo di un mercante; ciò che ho qui è nulla in confronto a quello che il mio padrone ha sulla sua nave; là vi è quanto di più artistico e di più prezioso sia mai stato lavorato in oro».
Lei voleva che le portassero tutto al castello, ma lui disse:
«Per fare questo occorrono molti giorni, perché vi è moltissima merce; ci vogliono tante sale per esporla che la vostra casa non basterebbe».
Così la curiosità e il desiderio crebbero in lei sempre di più, finché disse:
«Conducimi alla nave: voglio andare io stessa a vedere i tesori del tuo padrone».
Tutto contento, il fedele Giovanni la condusse sulla nave e il re, quando la vide, credette che il cuore gli scoppiasse e poté trattenersi a fatica. Lei salì sulla nave e il re la condusse all'interno, ma il fedele Giovanni rimase presso il timoniere e ordinò che la nave salpasse:
«Spiegate le vele, che voli come un uccello nell'aria!».
Intanto all'interno il re le faceva vedere tutti gli oggetti d'oro uno per uno: i piatti, i bicchieri, le ciotole, gli uccelli, le fiere e i mostri. Passarono diverse ore e lei rimirava ogni cosa con tale gioia da non accorgersi che la nave era partita. Quando ebbe esaminato l'ultimo oggetto, ringraziò il mercante e volle ritornare a casa; ma, giunta sul ponte, vide che la nave correva a vele spiegate in alto mare, lontano da terra.
«Ah», gridò spaventata, «sono stata ingannata, rapita; sono nelle mani di un mercante: preferirei morire!»
Ma il re la prese per mano e disse: «Non sono un mercante ma un re, non inferiore a te per nascita. Se ti ho rapita con l'astuzia è stato solo per il grande amore che ti porto. Quando vidi il tuo ritratto la prima volta, caddi a terra svenuto».
All'udire queste parole, la principessa dal Tetto d'oro si consolò; e fu così spinta ad amarlo, che accettò volentieri di diventare sua moglie.
Ma, mentre navigavano in alto mare, il fedele Giovanni, che sedeva a prua e suonava, scorse in aria tre corvi che si avvicinavano in volo. Smise di suonare e ascoltò quel che dicevano, perché li capiva bene.
Uno gracchiò: «Ah, si porta a casa la principessa dal Tetto d'oro!».
«Sì», rispose il secondo, «ma non l'ha ancora!»
E il terzo disse: «Ma sì, è con lui sulla nave!».
Allora il primo riprese a dire: «A che giova questo? Quando sbarcheranno, gli balzerà incontro un cavallo sauro: allora vorrà cavalcarlo e, se lo farà, il cavallo correrà via con lui e si alzerà in volo, cosicché lui non vedrà mai più la sua fanciulla».
Il secondo disse: «Non ha modo di salvarsi?».
«Oh sì, se colui che è in sella estrae il fucile che è infilato nella cavezza del cavallo e lo uccide, il giovane re è salvo; ma chi può saperlo? E chi sapendolo glielo dicesse diventerebbe di pietra dalla punta dei piedi alle ginocchia.»
Allora il secondo disse: «Io so di più, anche se il cavallo viene ucciso, il giovane re non serba la sua sposa! Quando entreranno nel castello troveranno su di un vassoio una camicia nuziale che sembrerà intessuta d'oro e d'argento, ma non si tratterà che di pece e zolfo. Se lui la indosserà brucerà fino al midollo».
Il terzo disse: «Non ha modo di salvarsi?».
«Oh sì», rispose il secondo, «se uno afferra la camicia con dei guanti e la getta nel fuoco, in modo che bruci, il giovane re è salvo. Ma a che giova? Chi sapendolo glielo dicesse diventerebbe di pietra dal ginocchio al cuore.»
Allora il terzo disse: «Io so di più: anche se bruciasse la camicia nuziale, il giovane re non avrebbe ancora la sua sposa. Quando, dopo le nozze, incomincerà il ballo e la giovane regina danzerà, impallidirà all'improvviso e cadrà come morta. E se qualcuno non la solleva e non succhia tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e non le risputa, lei morirà. Ma se qualcuno lo sa e lo rivela, diventerà tutto di pietra, dalla testa fino alla punta dei capelli».
Quando i corvi si furono scambiati queste parole, volarono via: il fedele Giovanni aveva capito tutto; ma da quel momento in poi fu triste e taciturno: infatti se avesse taciuto al suo signore ciò che aveva udito, questi sarebbe stato infelice, e se glielo avesse rivelato avrebbe dovuto sacrificare la sua stessa vita.
Infine si disse: «Voglio salvare il mio signore, anche se questo dovesse causare la mia rovina».
Quando giunsero a terra, accadde quello che il corvo aveva predetto e uno splendido sauro balzò loro incontro.
«Oh», esclamò il re, «mi porterà al mio castello» e volle montare in sella; ma il fedele Giovanni lo precedette, balzò velocemente in sella, estrasse l'arma dalla cavezza e uccise il cavallo. Allora gli altri servi del re, che non amavano il fedele Giovanni esclamarono:
«Che cosa ignobile, uccidere quel bell' animale che doveva portare il re al castello!».
Ma il re disse: «Tacete e lasciatelo fare: è il mio fedelissimo Giovanni, avrà un buon motivo».
Poi andarono al castello e nella sala c'era il vassoio sul quale era posata la camicia nuziale, che sembrava tutta d'oro e d'argento. Il giovane re si fece avanti per prenderla, ma il fedele Giovanni lo spinse via, afferrò la camicia con i guanti, la gettò nel fuoco e la bruciò.
Gli altri servi ricominciarono a mormorare e dissero: «Guardate, ora brucia persino la camicia nuziale del re!».
Ma il giovane re disse: «Avrà un buon motivo, lasciatelo fare, è il mio fedelissimo Giovanni».
Poi si celebrarono le nozze; il ballo incominciò e anche la sposa vi prese parte. Il fedele Giovanni stava attento e la guardava in viso. D'un tratto impallidì e cadde a terra come morta. Allora egli corse da lei e la portò in una stanza; qui la distese, si inginocchiò, succhiò le tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e le sputò.
Subito lei riprese a respirare e si riebbe, ma il giovane re aveva visto tutto e, non sapendo perché il fedele Giovanni lo avesse fatto, andò in collera e gridò: «Gettatelo in prigione!».
Il mattino dopo il fedele Giovanni fu condannato e condotto al patibolo e quando fu lassù e stava per essere giustiziato, disse:
«Chi deve morire, può parlare ancora una volta prima della sua fine; ho anch'io questo diritto?».
«Sì», rispose il re, «ti sia concesso.»
Allora il fedele Giovanni disse: «Sono condannato ingiustamente e ti sono sempre stato fedele». E gli raccontò come avesse udito sul mare il discorso dei corvi e deciso di salvare il suo signore; per questo aveva dovuto fare tutto quello che aveva fatto.
Allora il re esclamò: «Oh mio fedelissimo Giovanni! Grazia! Grazia! Portatelo giù».
Ma il fedele Giovanni, appena aveva pronunciato l'ultima parola, era caduto senza vita ed era diventato di pietra.
Il re e la regina se ne afflissero molto e il re diceva: «Ah, come ho mai ricompensato tanta fedeltà!».
Fece sollevare la statua di pietra e la fece mettere nella sua stanza accanto al suo letto.
Ogni volta che la guardava piangeva e diceva: «Ah, potessi ridarti la vita. mio fedelissimo Giovanni!».
Passò qualche tempo e la regina partorì due gemelli, due maschietti, che crebbero ed erano la sua gioia. Un giorno che la regina era in chiesa e i due bambini giocavano accanto al padre, il re guardò la statua di pietra con grande tristezza, sospirò e disse:
«Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni!».
Allora la statua incominciò a parlare e disse: «Sì, puoi ridarmi la vita se sarai disposto a dare ciò che ti è più caro».
Allora il re esclamò: «Per te darò tutto quello che ho al mondo!».
La statua di pietra proseguì: «Se di tua mano tagli la testa ai tuoi due bambini e mi ricopri con il loro sangue, allora riavrò la vita».
Il re inorridì quando udì che doveva uccidere egli stesso i suoi diletti figli, ma pensò alla grande fedeltà del fedele Giovanni, che era morto per lui: trasse la spada e di sua mano tagliò la testa ai bambini. E quando ebbe ricoperto la statua con il loro sangue, essa si animò e il fedele Giovanni gli stette di nuovo innanzi, fresco e sano. Ed egli disse al re:
«Voglio ricompensare la tua lealtà» e prese le teste dei bambini, le rimise sul busto e spalmò le ferite col loro sangue. In un attimo i bambini tornarono sani e ripresero a saltare e a giocare come se nulla fosse accaduto.
Il re era felice e, quando vide venire la regina, nascose il fedele Giovanni e i due bambini in un grande armadio.
Quando lei entrò le disse: «Hai pregato in chiesa?».
«Sì», rispose la regina, «ma ho sempre pensato al fedele Giovanni che è stato così sventurato per colpa nostra.»
Allora egli disse: «Cara moglie, noi possiamo ridargli la vita, ma a prezzo del sacrificio dei nostri figlioletti».
La regina impallidì e le si gelò il sangue, ma disse: «Glielo dobbiamo per la sua grande fedeltà».
E il re si rallegrò che pensasse come lui; andò ad aprire l'armadio e ne uscirono i bambini e il fedele Giovanni.
Il re disse: «Grazie a Dio egli è libero dall'incantesimo e abbiamo ancora i nostri figlioletti».
E le raccontò tutto quello che era successo. Poi vissero felici insieme fino alla morte.
di Jakob e Wilhelm Grimm
Oggetto: «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM»
Rosabianca e Rosarossa
C'era una volta una povera vedova, che viveva sola nella sua capannuccia, e davanti alla capanna c'era un giardino con due piccoli rosai; l'uno portava rose bianche, l'altro rose rosse. E la donna aveva due bambine, che somigliavano ai due rosai: l'una si chiamava Rosabianca, l'altra Rosarossa.
Erano così buone e pie, diligenti e laboriose, come al mondo non se n'è mai viste; soltanto, Rosabianca era piu' silenziosa e piu' dolce di Rosarossa. Rosarossa preferiva correre per campi e prati, coglier fiori e prendere farfalle; Rosabianca se ne stava a casa con la mamma, l'aiutava nelle faccende domestiche, o, se non c'era niente da fare, le leggeva qualcosa ad alta voce. Le due bambine si amavano tanto, che si prendevano per mano tutte le volte che uscivano insieme; e se Rosabianca diceva:
- Non ci separeremo mai! - rispondeva Rosarossa:
- No, mai, per tutta la vita! - e la madre soggiungeva: - Quel che è dell'una, dev'esser dell'altra -.
Spesso le due bambine andavan sole per il bosco a raccoglier bacche rosse; gli animali non facevan loro alcun male, ma si avvicinavano fiduciosi: il leprotto mangiava una foglia di cavolo dalle loro mani, il capriolo pascolava al loro fianco, il cervo saltava allegramente li vicino, e gli uccelli restavano sui rami e cantavano tutte le loro canzoni. Alle due sorelle non capitava nulla di male: quando si erano attardate nel bosco, e le sorprendeva la notte,si coricavano sul muschio, l'una accanto all'altra, e dormivano fino alla mattina. La mamma lo sapeva e non stava mai in pensiero.
Una volta, che avevano pernottato nel bosco, quando l'aurora le svegliò, videro un bel bambino seduto accanto a loro, con un bianco vestito scintillante. Il bimbo si alzò e le guardò amorevolmente, ma non disse nulla e s'addentrò nel bosco. E quando si guardarono intorno, s'accorsero di aver dormito sull'orlo di un abisso, dove sarebbero certo cadute se avessero fatto altri due passi al buio. Ma la mamma disse che certo quello era l'angelo che veglia sui bambini buoni.
Rosabianca e Rosarossa tenevan così' pulita la capannuccia dellamadre, che era una gioia vederla. D'estate Rosarossa sbrigava faccende di casa e ogni mattina, prima che la mamma si svegliasse le metteva vicino al letto un mazzo di fiori, con due rose dei due alberelli. D'inverno Rosabianca accendeva il fuoco e appendeva paìolo; il paiolo era d'ottone, ma brillava come oro, tant'era lustro. La sera, quando nevicava, la mamma diceva:
- Va', Rosabianca metti il catenaccio -. Poi sedevano accanto al focolare, la mamma prendeva gli occhiali e leggeva ad alta voce un librone; e le due fanciulle stavano a sentire, filando; per terra, accanto a loro, e sdraiato un agnellino, e dietro, su un bastone, c'era un piccioncino bianco con la testa nascosta sotto l'ala.
Una sera, mentre se ne stavano tutt'è due insieme, qualcuno bussò alla porta, come se volesse entrare. La madre disse:
- Svelta, Rosarossa, apri: sarà un viandante che cerca ricovero-.
[orso ] Rosarossa andò a levare il catenaccio e pensava che fosse un povero; ma invece era un orso, che sporse dall'uscio la sua grossa testa nera. Rosarossa strillò e fece un salto indietro, l'agnellino belò, il piccioncino svolazzò, e Rosabianca si nascose dietro il letto della mamma. Ma l'orso si mise a parlare e disse:
- Non abbiate paura, non vi farò niente di male; sono mezzo gelato e voglio soltanto scaldarmi un po' con voi.
- Povero orso, - disse la madre, - mettiti vicino al fuoco e bada soltanto di non bruciarti il pelo -. Poi gridò: - Rosabianca, Rosarossa, venite fuori! L'orso non vi farà niente, non ha cattive intenzioni .
Allora s'avvicinarono entrambe; e a poco a poco si accostarono anche l'agnellino e il piccioncino, e non ne avevano più paura.
L'orso disse: - Bambine, scuotetemi un po' di neve dalla pelliccia! -
ed esse andarono a prender la scopa e gli spazzarono il pelo; e l'orso si sdraiò accanto al fuoco, e mugolava, contento e soddisfatto.
Non andò molto che fecero amicizia, e le bimbe si misero a fare il chiasso con l'ospite maldestro. Gli tiravano il pelo con le mani, gli mettevano i piedini sulla schiena e lo spingevano di qua e di là; o prendevano una verga di nocciolo e lo picchiavano, e quando mugolava ridevano. L'orso s'adattava a tutto; soltanto, quando passavano il segno, gridava:
- Lasciatemi vivere, bambine!
O Rosabianca, e tu, Rosarossa,
al pretendente scavi la fossa.
Quando fu tempo di dormire e le bimbe andarono a letto, la madre disse all'orso;
- Resta qui, accanto al fuoco, in santa pace: cosi sei protetto dal freddo e dal brutto tempo .
Appena albeggiò, le due bambine lo fecero uscire ed egli entrò nel bosco, trottando sulla neve.
E poi, tornò ogni sera, alla stessa ora: si sdraiava accanto al focolare e permetteva alle bambine di prendersi spasso di lui fin che volevano; ed esse ci si erano così abituate, che non mettevano il catenaccio prima che fosse arrivato il loro nero amico.
Quando giunse la primavera e fuori era tutto verde, una mattino l'orso disse a Rosabianca:
- Adesso devo andar via, e per tutta l'estate non posso più tornare.
- Dove vai dunque, caro orso? - domandò Rosabianca.
- Devo andare nel bosco a difendere i miei tesori dai cattivi nani:d'inverno, quando la terra è gelata, devono stare sotto e non possono farsi strada, ma adesso che il sole ha sgelato e riscaldato la terra, l'aprono a forza, risalgono, frugano e rubano. Quel che finisce nelle loro mani, nascosto nelle loro caverne non torna tanto facilmente alla luce -.
Rosabianca era tutta triste per quell'addio; e quando gli aprì la porta, l'orso, passando in fretta, restò attaccato all'arpione e gli si lacerò un pezzo di pelle; a Rosabianca parve che ne trasparisse dell'oro, ma non ne fu ben sicura. L'orso corse via in fretta e ben presto sparì dietro gli alberi.
Dopo qualche tempo, la madre mandò le bambine nel bosco a coglier la stipa. Fuori videro, disteso al suolo, un grande albero, era stato abbattuto, e presso il tronco, nell'erba, qualcosa saltava su e giù, ma non potevano distinguere cosa fosse. Avvicinandosi, videro un nano con una vecchia faccia grinzosa e una candida barba lunga un braccio. La punta della barba era incastrata in una fessura dell'albero e il nano saltava di qua e di là, come un cagnolino al guinzaglio, e non sapeva come cavarsela. Egli fissò le fanciulle sbarrando i suoi rossi occhi di fuoco, e strillò:
- Cosa state a fare non potete avvicinarvi e darmi una mano?
- Cos'hai fatto, omino? - domandò Rosarossa.
- Stupida curiosaccia, - rispose il nano - volevo spaccar l'albero, per avere legna minuta in cucina; i ceppi grossi quei due bocconcini che occorrono a noialtri bruciano subito; noi non buttiamo mica giù tanta roba come voi, ingordi zoticoni! Ero già riuscito a ficcarci il cuneo, e tutto mi sarebbe andato benone; ma quel maledetto pezzo di legno era troppo liscio e saltò fuori all'improvviso, e l'albero si richiuse così in fretta, che non ho più potuto tirar fuori la mia bella barba bianca: adesso è lì dentro, e io non posso andarmene. Guarda come ridono quelle due poppanti! stupide facce pelate! Puh, come siete brutte! -
Le bambine ci si misero d'impegno, ma non riuscirono a tirar fuori la barba: era troppo ben incastrata.
- Correrò a chiamar gente! -disse Rosarossa.
- Stupide pazze, - squittì il nano, - non ci mancherebbe altro! Siete gia troppe in due: non avete niente di meglio da inventare?
- Non essere impaziente! - disse Rosabianca - ci penserò io -.
Trasse di tasca le sue forbicine e gli tagliò la punta della barba. Appena il nano si senti libero, afferrò un sacco pieno d'oro, che era nascosto fra le radici dell'albero, lo tirò fuori, borbottando:
- Che villanzone, tagliarmi un pezzo della mia magnifica barba! Il diavolo vi porti! -
Si gettò il sacco sulle spalle e se ne andò, senza neanche voltarsi a guardarle.
Dopo qualche tempo, Rosabianca e Rosarossa pensarono di andarsi a pescare con la lenza un bel piatto di pesce. Quando furono vìcino al ruscello videro qualcosa che somigliava a una grossa cavalletta saltellar verso l'acqua, come se volesse buttarcisi. Accorsero e conobbero il nano.
- Dove vuoi andare? - disse Rosarossa: - non vuoi mica gettarti in acqua?
- Non sono così pazzo! -strillò il nano - Non vedete? quel maledetto pesce vuol tirarmi dentro! - L'omino si era seduto a pescare, e disgraziatamente, per il vento, la barba gli si era intricata con la lenza; subito dopo abboccò un grosso pesce e la debole creatura non riuscì a sollevarlo. Il pesce aveva il sopravvento e trascinava giù il nano. Certo, egli si teneva a tutti gli steli e ai giunchi, ma serviva a ben poco: doveva seguire i movimenti del pesce e rischiava continuamente d'esser tirato in acqua.
Le fanciulle erano arrivate in tempo, lo tennero fermo e cercarono di districar la barba dalla lenza, ma invano: barba e lenza erano strettamente aggrovigliate. Non restò che tirar fuori le forbicine e tagliar la barba, sacrificandone un pezzettino.
A quella vista, il nano si mise a strillare: - E' questa, brutti rospi, la maniera di sconciar la faccia a un individuo? Non bastava avermi spuntato la barba, adesso me ne tagliate via la parte più bella! Non posso più farmi veder dai miei! Possa vedervi correre, senza più suole ai piedi! -
Poi andò a prendere un sacco di perle, nel canneto, e, senza più dir parola, se lo trascinò via e scomparve dietro una pietra.
Or avvenne che, poco tempo dopo, la madre mandò le due bambine in città a comprar filo, aghi, stringhe e fettuccia. La strada le condusse attraverso una piana, sparsa di grossi macigni. Là videro un grande uccello librarsi nell'aria, roteare lentamente sulle loro teste, poi calar sempre più basso, finché atterrò poco lontano, presso una rupe. Subito dopo udirono uno strillo acuto e doloroso. Accorsero, e videro con terrore che l'aquila aveva ghermito il loro vecchio conoscente, il nano, e stava per portarlo via. Le bimbe pietose tennero stretto l'omino; e tira di qua, tira di là, alla fine l'aquila dovette abbandonar la sua preda.
Quando il nano si fu riavuto dal primo spavento, gridò con la sua voce stridula:
- Non potevate trattarmi con più riguardo? Avete tirato tanto il mio giubbetto sottile che adesso è tutto lacero e bucato, sciattone e balorde che siete.
Poi prese un sacco di pietre preziose e si cacciò di nuovo nella tana, sotto le rupi. Le fanciulle erano già avvezze alla sua ingratitudine, proseguirono il cammino e sbrigarono le loro faccende in città.
Al ritorno, ripassando per la piana, sorpresero il nano, che aveva rovesciato il suo sacco di pietre preziose in un bel posticino senza pensare che a ora così tarda potesse ancora venir qualcuno.
Il sole al tramonto batteva sulle splendide gemme, che scintillavano e sfolgoravano in mille colori, così meravigliosamente che le bambine si fermarono a guardarle.
- Cosa fate lì, a bocca aperta- strillò il nano, e la sua faccia color della cenere diventò paonazza dalla collera.
Stava per lanciare altre ingiurie, quando si udì un cupo brontolio, e un orso nero uscì trottando dal bosco.
Il nano balzò in piedi, atterrito, ma non poté più raggiungere il suo nascondiglio: l'orso era già li. Allora gridò affannosamente:
- Caro signor orso, risparmiatemi! Vi darò tutti i miei tesori! guardate, belle pietre preziose! Fatemi grazia, che v'importa di un piccolo striminzito come me? Non mi sentite neanche sotto i denti! Prendete piuttosto quelle due malnate ragazze, per voi son bocconi prelibati, grasse come giovani quaglie! mangiate quelle, in nome di Dio!
L'orso non badò alle sue parole, non gli dette che una zampata, e quel malvagio non si mosse più.
Le fanciulle eran scappate via, ma l'orso le chiamò, gridando:
-Rosabianca, Rosarossa, non abbiate paura! aspettate, vengo con voi-.
Allora esse riconobbero la sua voce e si fermarono; e quando la bestia le raggiunse, la pelle d'orso cadde all'improvviso, ed ecco, egli era un bel giovane tutto vestito d'oro.
- Sono il figlio di un re - disse - e il perfido nano, che aveva rubato i miei tesori, mi aveva stregato e dovevo correr per il bosco sotto forma d'orso selvaggio, finché la sua morte non mi avesse liberato. E così egli ha avuto il meritato castigo.
Rosabianca sposò il principe, e Rosarossa suo fratello, e si spartirono quei gran tesori che il nano aveva ammassato nella sua caverna. La vecchia madre visse ancora molti anni presso le figlie, tranquilla e felice. Ma portò con sé i due rosai, che davanti alla sua finestra davano ogni anno le più belle rose, bianche e rosse.
C'era una volta una povera vedova, che viveva sola nella sua capannuccia, e davanti alla capanna c'era un giardino con due piccoli rosai; l'uno portava rose bianche, l'altro rose rosse. E la donna aveva due bambine, che somigliavano ai due rosai: l'una si chiamava Rosabianca, l'altra Rosarossa.
Erano così buone e pie, diligenti e laboriose, come al mondo non se n'è mai viste; soltanto, Rosabianca era piu' silenziosa e piu' dolce di Rosarossa. Rosarossa preferiva correre per campi e prati, coglier fiori e prendere farfalle; Rosabianca se ne stava a casa con la mamma, l'aiutava nelle faccende domestiche, o, se non c'era niente da fare, le leggeva qualcosa ad alta voce. Le due bambine si amavano tanto, che si prendevano per mano tutte le volte che uscivano insieme; e se Rosabianca diceva:
- Non ci separeremo mai! - rispondeva Rosarossa:
- No, mai, per tutta la vita! - e la madre soggiungeva: - Quel che è dell'una, dev'esser dell'altra -.
Spesso le due bambine andavan sole per il bosco a raccoglier bacche rosse; gli animali non facevan loro alcun male, ma si avvicinavano fiduciosi: il leprotto mangiava una foglia di cavolo dalle loro mani, il capriolo pascolava al loro fianco, il cervo saltava allegramente li vicino, e gli uccelli restavano sui rami e cantavano tutte le loro canzoni. Alle due sorelle non capitava nulla di male: quando si erano attardate nel bosco, e le sorprendeva la notte,si coricavano sul muschio, l'una accanto all'altra, e dormivano fino alla mattina. La mamma lo sapeva e non stava mai in pensiero.
Una volta, che avevano pernottato nel bosco, quando l'aurora le svegliò, videro un bel bambino seduto accanto a loro, con un bianco vestito scintillante. Il bimbo si alzò e le guardò amorevolmente, ma non disse nulla e s'addentrò nel bosco. E quando si guardarono intorno, s'accorsero di aver dormito sull'orlo di un abisso, dove sarebbero certo cadute se avessero fatto altri due passi al buio. Ma la mamma disse che certo quello era l'angelo che veglia sui bambini buoni.
Rosabianca e Rosarossa tenevan così' pulita la capannuccia dellamadre, che era una gioia vederla. D'estate Rosarossa sbrigava faccende di casa e ogni mattina, prima che la mamma si svegliasse le metteva vicino al letto un mazzo di fiori, con due rose dei due alberelli. D'inverno Rosabianca accendeva il fuoco e appendeva paìolo; il paiolo era d'ottone, ma brillava come oro, tant'era lustro. La sera, quando nevicava, la mamma diceva:
- Va', Rosabianca metti il catenaccio -. Poi sedevano accanto al focolare, la mamma prendeva gli occhiali e leggeva ad alta voce un librone; e le due fanciulle stavano a sentire, filando; per terra, accanto a loro, e sdraiato un agnellino, e dietro, su un bastone, c'era un piccioncino bianco con la testa nascosta sotto l'ala.
Una sera, mentre se ne stavano tutt'è due insieme, qualcuno bussò alla porta, come se volesse entrare. La madre disse:
- Svelta, Rosarossa, apri: sarà un viandante che cerca ricovero-.
[orso ] Rosarossa andò a levare il catenaccio e pensava che fosse un povero; ma invece era un orso, che sporse dall'uscio la sua grossa testa nera. Rosarossa strillò e fece un salto indietro, l'agnellino belò, il piccioncino svolazzò, e Rosabianca si nascose dietro il letto della mamma. Ma l'orso si mise a parlare e disse:
- Non abbiate paura, non vi farò niente di male; sono mezzo gelato e voglio soltanto scaldarmi un po' con voi.
- Povero orso, - disse la madre, - mettiti vicino al fuoco e bada soltanto di non bruciarti il pelo -. Poi gridò: - Rosabianca, Rosarossa, venite fuori! L'orso non vi farà niente, non ha cattive intenzioni .
Allora s'avvicinarono entrambe; e a poco a poco si accostarono anche l'agnellino e il piccioncino, e non ne avevano più paura.
L'orso disse: - Bambine, scuotetemi un po' di neve dalla pelliccia! -
ed esse andarono a prender la scopa e gli spazzarono il pelo; e l'orso si sdraiò accanto al fuoco, e mugolava, contento e soddisfatto.
Non andò molto che fecero amicizia, e le bimbe si misero a fare il chiasso con l'ospite maldestro. Gli tiravano il pelo con le mani, gli mettevano i piedini sulla schiena e lo spingevano di qua e di là; o prendevano una verga di nocciolo e lo picchiavano, e quando mugolava ridevano. L'orso s'adattava a tutto; soltanto, quando passavano il segno, gridava:
- Lasciatemi vivere, bambine!
O Rosabianca, e tu, Rosarossa,
al pretendente scavi la fossa.
Quando fu tempo di dormire e le bimbe andarono a letto, la madre disse all'orso;
- Resta qui, accanto al fuoco, in santa pace: cosi sei protetto dal freddo e dal brutto tempo .
Appena albeggiò, le due bambine lo fecero uscire ed egli entrò nel bosco, trottando sulla neve.
E poi, tornò ogni sera, alla stessa ora: si sdraiava accanto al focolare e permetteva alle bambine di prendersi spasso di lui fin che volevano; ed esse ci si erano così abituate, che non mettevano il catenaccio prima che fosse arrivato il loro nero amico.
Quando giunse la primavera e fuori era tutto verde, una mattino l'orso disse a Rosabianca:
- Adesso devo andar via, e per tutta l'estate non posso più tornare.
- Dove vai dunque, caro orso? - domandò Rosabianca.
- Devo andare nel bosco a difendere i miei tesori dai cattivi nani:d'inverno, quando la terra è gelata, devono stare sotto e non possono farsi strada, ma adesso che il sole ha sgelato e riscaldato la terra, l'aprono a forza, risalgono, frugano e rubano. Quel che finisce nelle loro mani, nascosto nelle loro caverne non torna tanto facilmente alla luce -.
Rosabianca era tutta triste per quell'addio; e quando gli aprì la porta, l'orso, passando in fretta, restò attaccato all'arpione e gli si lacerò un pezzo di pelle; a Rosabianca parve che ne trasparisse dell'oro, ma non ne fu ben sicura. L'orso corse via in fretta e ben presto sparì dietro gli alberi.
Dopo qualche tempo, la madre mandò le bambine nel bosco a coglier la stipa. Fuori videro, disteso al suolo, un grande albero, era stato abbattuto, e presso il tronco, nell'erba, qualcosa saltava su e giù, ma non potevano distinguere cosa fosse. Avvicinandosi, videro un nano con una vecchia faccia grinzosa e una candida barba lunga un braccio. La punta della barba era incastrata in una fessura dell'albero e il nano saltava di qua e di là, come un cagnolino al guinzaglio, e non sapeva come cavarsela. Egli fissò le fanciulle sbarrando i suoi rossi occhi di fuoco, e strillò:
- Cosa state a fare non potete avvicinarvi e darmi una mano?
- Cos'hai fatto, omino? - domandò Rosarossa.
- Stupida curiosaccia, - rispose il nano - volevo spaccar l'albero, per avere legna minuta in cucina; i ceppi grossi quei due bocconcini che occorrono a noialtri bruciano subito; noi non buttiamo mica giù tanta roba come voi, ingordi zoticoni! Ero già riuscito a ficcarci il cuneo, e tutto mi sarebbe andato benone; ma quel maledetto pezzo di legno era troppo liscio e saltò fuori all'improvviso, e l'albero si richiuse così in fretta, che non ho più potuto tirar fuori la mia bella barba bianca: adesso è lì dentro, e io non posso andarmene. Guarda come ridono quelle due poppanti! stupide facce pelate! Puh, come siete brutte! -
Le bambine ci si misero d'impegno, ma non riuscirono a tirar fuori la barba: era troppo ben incastrata.
- Correrò a chiamar gente! -disse Rosarossa.
- Stupide pazze, - squittì il nano, - non ci mancherebbe altro! Siete gia troppe in due: non avete niente di meglio da inventare?
- Non essere impaziente! - disse Rosabianca - ci penserò io -.
Trasse di tasca le sue forbicine e gli tagliò la punta della barba. Appena il nano si senti libero, afferrò un sacco pieno d'oro, che era nascosto fra le radici dell'albero, lo tirò fuori, borbottando:
- Che villanzone, tagliarmi un pezzo della mia magnifica barba! Il diavolo vi porti! -
Si gettò il sacco sulle spalle e se ne andò, senza neanche voltarsi a guardarle.
Dopo qualche tempo, Rosabianca e Rosarossa pensarono di andarsi a pescare con la lenza un bel piatto di pesce. Quando furono vìcino al ruscello videro qualcosa che somigliava a una grossa cavalletta saltellar verso l'acqua, come se volesse buttarcisi. Accorsero e conobbero il nano.
- Dove vuoi andare? - disse Rosarossa: - non vuoi mica gettarti in acqua?
- Non sono così pazzo! -strillò il nano - Non vedete? quel maledetto pesce vuol tirarmi dentro! - L'omino si era seduto a pescare, e disgraziatamente, per il vento, la barba gli si era intricata con la lenza; subito dopo abboccò un grosso pesce e la debole creatura non riuscì a sollevarlo. Il pesce aveva il sopravvento e trascinava giù il nano. Certo, egli si teneva a tutti gli steli e ai giunchi, ma serviva a ben poco: doveva seguire i movimenti del pesce e rischiava continuamente d'esser tirato in acqua.
Le fanciulle erano arrivate in tempo, lo tennero fermo e cercarono di districar la barba dalla lenza, ma invano: barba e lenza erano strettamente aggrovigliate. Non restò che tirar fuori le forbicine e tagliar la barba, sacrificandone un pezzettino.
A quella vista, il nano si mise a strillare: - E' questa, brutti rospi, la maniera di sconciar la faccia a un individuo? Non bastava avermi spuntato la barba, adesso me ne tagliate via la parte più bella! Non posso più farmi veder dai miei! Possa vedervi correre, senza più suole ai piedi! -
Poi andò a prendere un sacco di perle, nel canneto, e, senza più dir parola, se lo trascinò via e scomparve dietro una pietra.
Or avvenne che, poco tempo dopo, la madre mandò le due bambine in città a comprar filo, aghi, stringhe e fettuccia. La strada le condusse attraverso una piana, sparsa di grossi macigni. Là videro un grande uccello librarsi nell'aria, roteare lentamente sulle loro teste, poi calar sempre più basso, finché atterrò poco lontano, presso una rupe. Subito dopo udirono uno strillo acuto e doloroso. Accorsero, e videro con terrore che l'aquila aveva ghermito il loro vecchio conoscente, il nano, e stava per portarlo via. Le bimbe pietose tennero stretto l'omino; e tira di qua, tira di là, alla fine l'aquila dovette abbandonar la sua preda.
Quando il nano si fu riavuto dal primo spavento, gridò con la sua voce stridula:
- Non potevate trattarmi con più riguardo? Avete tirato tanto il mio giubbetto sottile che adesso è tutto lacero e bucato, sciattone e balorde che siete.
Poi prese un sacco di pietre preziose e si cacciò di nuovo nella tana, sotto le rupi. Le fanciulle erano già avvezze alla sua ingratitudine, proseguirono il cammino e sbrigarono le loro faccende in città.
Al ritorno, ripassando per la piana, sorpresero il nano, che aveva rovesciato il suo sacco di pietre preziose in un bel posticino senza pensare che a ora così tarda potesse ancora venir qualcuno.
Il sole al tramonto batteva sulle splendide gemme, che scintillavano e sfolgoravano in mille colori, così meravigliosamente che le bambine si fermarono a guardarle.
- Cosa fate lì, a bocca aperta- strillò il nano, e la sua faccia color della cenere diventò paonazza dalla collera.
Stava per lanciare altre ingiurie, quando si udì un cupo brontolio, e un orso nero uscì trottando dal bosco.
Il nano balzò in piedi, atterrito, ma non poté più raggiungere il suo nascondiglio: l'orso era già li. Allora gridò affannosamente:
- Caro signor orso, risparmiatemi! Vi darò tutti i miei tesori! guardate, belle pietre preziose! Fatemi grazia, che v'importa di un piccolo striminzito come me? Non mi sentite neanche sotto i denti! Prendete piuttosto quelle due malnate ragazze, per voi son bocconi prelibati, grasse come giovani quaglie! mangiate quelle, in nome di Dio!
L'orso non badò alle sue parole, non gli dette che una zampata, e quel malvagio non si mosse più.
Le fanciulle eran scappate via, ma l'orso le chiamò, gridando:
-Rosabianca, Rosarossa, non abbiate paura! aspettate, vengo con voi-.
Allora esse riconobbero la sua voce e si fermarono; e quando la bestia le raggiunse, la pelle d'orso cadde all'improvviso, ed ecco, egli era un bel giovane tutto vestito d'oro.
- Sono il figlio di un re - disse - e il perfido nano, che aveva rubato i miei tesori, mi aveva stregato e dovevo correr per il bosco sotto forma d'orso selvaggio, finché la sua morte non mi avesse liberato. E così egli ha avuto il meritato castigo.
Rosabianca sposò il principe, e Rosarossa suo fratello, e si spartirono quei gran tesori che il nano aveva ammassato nella sua caverna. La vecchia madre visse ancora molti anni presso le figlie, tranquilla e felice. Ma portò con sé i due rosai, che davanti alla sua finestra davano ogni anno le più belle rose, bianche e rosse.
Oggetto: «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM»
«LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM» In 2 volumi
«СКАЗКИ БРАТЬЕВ ГРИММ» В 2 томах
Casa Editrice «Knizhnyj Klub Knigovek» Mosca 2016 (Pagine 1144)
Издательство «Книжный Клуб Книговек» Москва 2016
In quest’edizione in due volumi entrano le fiabe leggendarie fiabe di Jacob Ludwig Grimm (1785-1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786- 1859), meglio noti come i Fratelli Grimm, furono due linguisti e filologi tedeschi, ricordati come i «padri fondatori» della germanistica.
«СКАЗКИ БРАТЬЕВ ГРИММ» В 2 томах
Casa Editrice «Knizhnyj Klub Knigovek» Mosca 2016 (Pagine 1144)
Издательство «Книжный Клуб Книговек» Москва 2016
In quest’edizione in due volumi entrano le fiabe leggendarie fiabe di Jacob Ludwig Grimm (1785-1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786- 1859), meglio noti come i Fratelli Grimm, furono due linguisti e filologi tedeschi, ricordati come i «padri fondatori» della germanistica.
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Descrizione: | «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM» In 2 volumi Casa Editrice «Knizhnyj Klub Knigovek» Mosca 2016 (Pagine 1144) |
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Fiabe di Fratelli Grimm 2.jpg | |
Descrizione: | «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM» In 2 volumi Casa Editrice «Knizhnyj Klub Knigovek» Mosca 2016 (Pagine 1144) |
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Fiabe di Fratelli Grimm 3.jpg | |
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Fiabe di Fratelli Grimm 4.jpg | |
Descrizione: | «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM» In 2 volumi Casa Editrice «Knizhnyj Klub Knigovek» Mosca 2016 (Pagine 1144) |
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Oggetto: «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM»
Jacob Grimm e Wilhelm Grimm
Якоб Гримм и Вильгельм Гримм
«LE FIABE PER BAMBINI E PER CASA» In 2 volumi
«ДЕТСКИЕ И ДОМАШНИЕ СКАЗКИ» В 2 книгах
Collana: «I Monumenti letterari» («Литературные памятники»)
Casa Editrice «Nauka» Mosca (Pagine 872+440)
Издательство «Наука» Москва 2020
L'edizione in due volumi comprende fiabe e leggende raccolte dai famosi folcloristi tedeschi, i fratelli Grimm. Le fiabe in traduzione in russo sono integrate da un articolo del filologo-germanista E.Dmitrieva e da un commento profondo e capiente che permette di tracciare il percorso di ogni singola opera e il suo posto nella tela generale del folklore mondiale. Il vantaggio dell'edizione in due volumi è il ricco materiale illustrativo: fotografie, litografie, incisioni... La pubblicazione è stata pubblicata con il sostegno finanziario dell'Agenzia federale per la stampa e le comunicazioni di massa ed è destinata a una vasta gamma di lettori.
Якоб Гримм и Вильгельм Гримм
«LE FIABE PER BAMBINI E PER CASA» In 2 volumi
«ДЕТСКИЕ И ДОМАШНИЕ СКАЗКИ» В 2 книгах
Collana: «I Monumenti letterari» («Литературные памятники»)
Casa Editrice «Nauka» Mosca (Pagine 872+440)
Издательство «Наука» Москва 2020
L'edizione in due volumi comprende fiabe e leggende raccolte dai famosi folcloristi tedeschi, i fratelli Grimm. Le fiabe in traduzione in russo sono integrate da un articolo del filologo-germanista E.Dmitrieva e da un commento profondo e capiente che permette di tracciare il percorso di ogni singola opera e il suo posto nella tela generale del folklore mondiale. Il vantaggio dell'edizione in due volumi è il ricco materiale illustrativo: fotografie, litografie, incisioni... La pubblicazione è stata pubblicata con il sostegno finanziario dell'Agenzia federale per la stampa e le comunicazioni di massa ed è destinata a una vasta gamma di lettori.
I Fratelli Grimm.jpg | |
Descrizione: | Jacob Grimm e Wilhelm Grimm «LE FIABE PER BAMBINI E PER CASA» In 2 volumi Collana: «I Monumenti letterari» Casa Editrice «Nauka» Mosca (Pagine 872+440) |
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Oggetto: «LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM»
Il filologo e folclorista tedesco Wilhelm Grimm nacque il 24 febbraio 1786. Insieme a suo fratello Jakob, entrarono nella cerchia dei romantici di Heidelberg, che cercavano di far rivivere l'interesse per l'arte popolare. Nelle loro raccolte «Racconti per bambini e famiglie», i fratelli Grimm hanno raccolto circa duecento dei più brillanti campioni di folclore. Si sono sforzati di registrare i testi in modo accurato, preservando l'originalità della fantasia popolare e del linguaggio orale. I fratelli narratori divennero i fondatori degli studi tedeschi, la scienza della lingua e della letteratura tedesca. Wilhelm Grimm prestò servizio come bibliotecario presso l'Università di Gottinga e in seguito iniziò a insegnare lì. Nel 1833, gli esperti scrissero la «Legge fondamentale dello Stato» per il re di Hannover, Guglielmo IV. L'erede del monarca, Ernst August I, dopo essere salito al trono, annullò prima di tutto questa Costituzione. Sette professori universitari, tra cui Grimm, hanno protestato, ripresa dalla stampa. Il re represse severamente la ribellione dei professori. A tre partecipanti, tra cui Wilhelm Grimm, fu ordinato di lasciare immediatamente il territorio del Regno di Hannover e di non tornare qui per il resto della loro vita.
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