Lorenzo Baratti
«SPIRITO RUSSO E OCCIDENTE»
«РУССКИЙ ДУХ И ЗАПАД»

PRIMA PARTE
“La Russia non si intende con il senno, né si misura col comune metro: la Russia è fatta a modo suo, in essa si può credere soltanto.” (F. Tjutchev)
“Penso che il bisogno spirituale primario del popolo russo sia quello costante e insaziabile di soffrire, ovunque e in tutto…” (F. Dostoevskij)
“Qualunque cosa l’uomo russo faccia, è ugualmente da compatire.” (M. Gor’kij)
Bastano le citazioni di questi tre illustri autori per capire che la Russia è un universo non pienamente intelligibile, una realtà gigantesca, piena di paradossi e discrepanze, la cui possibilità di comprensione è limitata.
Gli stessi pensatori e scrittori russi, dai più autorevoli fino a quelli minori, hanno compiuto enormi sforzi e assai profonde riflessioni nel tentativo di intenderla, eppure è come se tutti si siano implicitamente arresi al dilemma della sua natura, mancante di ogni soluzione assoluta.
Troppo tormentata e vorticosa la storia della Russia – unica e non comparabile ad altre – per essere spiegata esaustivamente. Troppo enigmatica e complessa la mentalità dei russi per essere compresa sino in fondo.
Questa particolarità e questa insita incomprensibilità della Russia si sono piuttosto tramutate in una dimensione “essenziale” del sentire, la quale cominciò a essere celebrata ed espressa intensamente dal grande Dostoevskij. Una dimensione che si è plasmata attraverso le fatiche, le glorie, le immani tragedie e le lunghe apatie vissute dal suo popolo. Si tratta dello spirito russo, qualcosa di difficilmente spiegabile in termini concreti che tuttavia ha sempre profondamente caratterizzato il modo di essere, di pensare e di agire dei russi. Una dimensione sfuggevole, celata, ma ben percettibile che attraversa le molte contraddizioni e differenze che l’universo Russia racchiude in sé.
Questo spirito è infatti al centro dell’identità russa e in esso sono condensati i suoi aspetti peculiari e imprescindibili, fatalmente introiettati nel corso del tempo.
Nello spirito russo è presente l’origine nomade e selvaggia della Russia, legata a duri uomini a cavallo giunti un tempo da pianure lontane per stanziarsi in terre ancor più sterminate e inospitali, dove l’inverno è rigido e l’esistenza austera.
In esso è calcata l’impronta di un potere forte e perentorio che, sorto nella piccola culla di Mosca, ha dovuto vincere la vastità territoriale per potersi affermare, espandendosi successivamente per inerzia nell’isolamento fisico dalle altre potenze dell’epoca.
Lo spirito russo è però anche contrassegnato dal longevo rapporto con il pensiero e la cultura dell’Occidente europeo (sebbene mediati e filtrati allora da zar, classi nobiliari, clero), rapporto che ha avuto un ascendente forte e vitale sulla Russia e verso il quale essa ha sempre alternato timorosa diffidenza e reverenziale soggezione.
Infine non si può tralasciare l’Ortodossia, sacerdotessa stessa della Russia e depositaria del suo antico sapere, ma anche robusto e duraturo collante della nazione mai venuto meno neanche in epoca sovietica.
Questa è a grandi tratti l’essenza dell’identità russa che per l’importanza ricoperta e la stupefacente complessità meriterebbe di essere sviscerata ben più a fondo e da persone più degne del sottoscritto.
Comunque sia, la lapidaria spiegazione appena fatta funge da elemento indispensabile per comprendere il senso e il contesto del pensiero di molti autori russi, celebri e sconosciuti, che hanno operato nelle più varie epoche e di cui ora parleremo.
Certo la Russia è stata prodiga di grandi scrittori, pensatori, artisti, letterati che ricordare e citarli tutti sarebbe impresa ardua e dispendiosa di tempo; si correrebbe per di più il rischio di affrontarli senza il dovuto riguardo. Dunque propongo qui di concentrarci solo su alcuni di essi che, sebbene parzialmente fuori dai circuiti letterari più percorsi, hanno espresso voci politiche e filosofiche potenti e di straordinaria importanza: voci che di per sé dimostrano che le grandi divergenze intellettuali scaturite in Russia sono in grado di ricomporsi in una unica dimensione comune. La stessa dimensione – politica, valoriale, culturale, spirituale, esistenziale – che ancora oggi oppone salda resistenza all’avanzamento tracotante e distruttivo di una parte insana dell’Occidente.
Si tratta di quattro pensatori autorevoli e marcatamente lontani tra loro, appartenuti ad epoche diverse, accomunati tutti però da un destino insipido che li ha voluti ugualmente esuli del loro mondo e peregrini fra Russia e Occidente. Parliamo di Chaadaev, Berdjaev, Solzhenitsyn e Zinov’ev.
Seguiamo quindi un percorso di oltre due secoli, tra le narrazioni più concilianti e le invettive più sferzanti di questi autori.
Piotr Chaadaev
Il primo di essi, Piotr Chaadaev (1794-1856) fu un pensatore acuto, complesso, sicuramente non sistemico, che ebbe enorme influenza nella cultura russa: seppe anticipare i tre giganti letterari del suo secolo – Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj –, ma soprattutto si dimostrò fenomenale esegeta della Russia medesima e preconizzatore del suo dolente futuro.
Invocato sia dagli slavofili che dagli occidentalisti lui successivi, affrontò per la prima volta con profonda intuizione il problema della storia russa e del rapporto tra la Russia e l’Occidente.
Pur professando ammirazione e inedita predilezione per l’Europa occidentale, Chaadaev riconobbe alla Russia particolari caratteristiche e fini, finanche missioni, che lo resero in ultima analisi un appassionato patriota e un illustre evocatore dello stesso carattere russo che rifiutava.
Chaadaev, oltre l’apprezzamento nutrito verso l’Occidente, riconosceva e rimproverava alla Russia grosse pecche che da essa apparentemente lo allontanavano.
Si pose per esempio in contrasto al “nazionalismo ufficiale” di Nicola I – riassunto nella famosa formula di Uvarov: “Ortodossia, autocrazia e nazionalità” – che riteneva un’espressione ideologica grezza e opprimente. Imputava ai Russi la mancanza di una cultura propria, la rozzezza, la sconclusionatezza nelle proprie idee, eccetera.
Eppure attribuiva anche al suo popolo la qualità positiva di essere autentico, di avere una intelligenza vergine, libera cioè dai pregiudizi e schemi ai quali l’Occidente era irrimediabilmente legato.
Proprio per questo motivo e in virtù della sua posizione fieramente distaccata, secondo Chaadaev, la Russia aveva e ha la capacità e la prerogativa di essere arbitro del processo di sviluppo dell’umanità.
Così il pensatore russo dipingeva il suo popolo nel 1836:
“Solitari nel mondo, al mondo non abbiamo apportato nulla, non abbiamo insegnato nulla; non abbiamo versato una sola idea nella massa delle idee umane.”
Per proseguire:
“Noi siamo un popolo fuori dall’ordinario, rientriamo nel novero di quelle nazioni che sembrano non appartenere al genere umano e che esistono soltanto per impartire al mondo una qualche lezione.”
Vediamo dunque che egli traccia un profilo duro e aspro del popolo russo, ne definisce già allora egregiamente il carattere remissivo non estraneo a un senso di inferiorità (chuvstvo nepolnocennosti, talvolta richiamato in riferimento ai russi) ancora in gestazione. Eppure allo stesso tempo esprime l’orgoglio di un popolo che nell’appartata alterità ha la propria forza e il proprio potenziale escatologico.
Chaadaev non fu né il primo né l’ultimo a profetizzare alla Russia una particolare missione. Fu invece sicuramente il primo a tentar di valorizzare lo spirito russo, fosse pur fumoso e astratto, che il contatto con l’Europa doveva non distruggere ma aiutare ad auto-intendersi.
Nikolaj Berdjaev
Similmente ma oppostamente a Chaadaev, Nikolaj Berdjaev (1874-1948) ragionò sul rapporto tra Oriente e Occidente, ne indagò le profonde divergenze ma, sulla scorta del filone slavofilo, il suo pensiero partiva dalla celebrazione della Russia (Oriente “ma solo in parte”) e dell’esaltazione del suo patrimonio valoriale. Berdjaev infatti riteneva la Russia superiore all’Occidente ma non politicamente, non culturalmente, non moralmente, bensì “spiritualmente”, in virtù appunto della sua autenticità e integrità di spirito che si traduceva nel corretto modo di concepire e condurre la vita, di preservare e progredire la nazione.
È in parte l’espressione dell’esistenzialismo fideistico da lui professato che ravvisava nel reale una somma consistenza religioso-spirituale, nella fattispecie della Russia celebrata nell’Ortodossia, nel potere giusto e equo dello zar, nella compattezza della società e della nazione. Una dimensione profonda dell’essere che invece secondo il filosofo è debolmente coltivata in Occidente, dove già un secolo fa era in fase di inesorabile eclisse.
Berdjaev infatti vedeva nella sempre più netta caratterizzazione atea e borghese dell’Occidente (di allora ma ancor più, in un’ottica predittiva, di oggi) il motivo della sua corruzione, il motivo del traviamento dal suo stesso illustre passato:
“L’occidente che ci è estraneo e noi non amiamo non è l’Occidente in generale, così grande per la forza delle sue creazioni, per la tensione del suo pensiero, cui dovremmo attingere eternamente, ma piuttosto l’Occidente razionalista e borghese, l’Occidente che ha perso il suo volto e che si è sottomesso a Mammona, l’Occidente dove la forma ha distrutto il contenuto, l’essenza della vita.”
Come intuibile, la visione di Berdjaev si accompagnava, seppur fievolmente, all’escatologia di matrice slavofila che vedeva nella corruzione e degenerazione progressiva dell’Occidente le cause del suo ineluttabile declino, in contrapposizione alla verginità e vigore (spirituali) dell’Oriente; in questo vi è un evidente legame anche col pensiero di Chaadaev.
Per quanto possa sorprendere, Berdjaev abbracciò in gioventù la causa rivoluzionaria, dissociandosene e rigettandola solo prima della Rivoluzione d’Ottobre causa l’autoritarismo ateo che essa andava chiaramente assumendo. Dunque: rivoluzionario sotto lo zarismo, zarista sotto la rivoluzione. Infine, a coronamento della sua esistenza paradossale, morì in esilio in Occidente, a Parigi, lontano dalla sua prediletta Russia (un destino uguale e inverso a quello di Chaadaev).
Benché da taluni sia stato considerato un liberale per la sua professione etica di libertà, e annoverato tra questi in Occidente, è del tutto chiaro come tale categorizzazione fosse quanto mai lontana dalla sostanza del suo pensiero.
In ogni modo, Berdjaev è stato un grande filosofo il cui vasto contributo intellettuale è servito enormemente a chiarire origini e identità della Russia, tanto da essere ancora oggi di forte attualità relativamente ai processi politici e sociali che la Federazione Russa sta negli ultimi anni risolutamente affrontando.
“La Russia è l’Oriente e l’Occidente assieme, ed è da qui che discende la complessità e la durezza del suo destino, della sua sfortunata storia. […] La Russia non è l’Oriente del mondo che ha visto la creazione del mondo e l’inizio di tutte le cose. Il mondo non comincia in Russia, come nell’Oriente antico, ma piuttosto finisce in essa.”
Lorenzo Baratti
SECONDA PARTE
Gli ultimi due autori, Solzhenitsyn e Zinov’ev, potrebbero essere posti nella stessa categoria in quanto sostanzialmente coevi ed entrambi critici e oppositori del regime sovietico in epoca post-staliniana. Lo sono stati, però, esprimendo concezioni diverse.
Importante è dire che Solzhenitsyn e Zinov’ev, sebbene riparati in Occidente e lì celebrati, rifiutarono con sprezzante avversione il sistema occidentale vedendo in esso, ancor più che nell’URSS, degenerazione e pericolo.
Le loro vite, differenti e non prive di ossimori, meritano dunque di essere brevemente viste in modo distinto.
Aleksandr Solzhenitsyn
Aleksandr Solzhenitsyn (1918-2008) non ha bisogno di presentazioni. Attraverso il racconto della propria drammatica esperienza nel gulag staliniano, in particolare nel romanzo più noto Arcipelago Gulag, Solzhenitsyn rivelava al mondo le brutture di quella pagina sovietica suscitando lo sdegno ma anche il malcelato ghigno dell’Occidente.
Espulso nel 1974 dall’Unione Sovietica, egli riparò in Svizzera, Stati Uniti e infine in Canada, nei cui boschi si appartò per quasi venti anni; eppure in tutto questo tempo imparò un inglese assolutamente stentato. Piuttosto, imparò presto a cogliere i gravosi mali dell’Occidente…
Pochi da questa parte notarono infatti come la figura di Solzhenitsyn fosse ben poco legata all’Occidente. Se vero che nel comunismo più buio egli individuava l’anti-umanità, il modello cui lo scrittore tendeva non era certo l’Occidente “libero” e capitalista bensì la Madre Russia di retaggio zarista, quella pura e austera nella sua Ortodossia. Profondamente ortodosso era infatti Solzhenicyn, il quale in verità disprezzava tutto ciò che non era russo.
Posizioni dunque inconciliabili con l’Occidente corrotto, vanitoso e implicitamente antirusso nel quale si ritrovò a vivere, di cui disse:
“Non avevo mai immaginato come un estremo degrado in occidente abbia fatto un mondo senza volontà, un mondo gradualmente pietrificato di fronte al pericolo che deve affrontare… Tutti noi stiamo sull’orlo di un grande cataclisma storico, un’inondazione che ingoierà le civiltà e cambierà le epoche.”
Forte fu la delusione dello scrittore al suo ritorno in Russia nel 1994, allorquando la ritrovò in preda a famelici profittatori e prostrata all’Occidente come una “cagna strisciante”.
Solzhenitsyn fu di fatto un reazionario, ma sosteneva sul piano politico anche un moderato patriottismo che lo portò dopo il cambio di millennio a sostenere la nuova conduzione del Paese operata da Putin.
Acre fu anche nel condannare le azioni belliche dell’Occidente, parlando di “genocidio” in Vietnam e affermando in occasione del bombardamento sulla Jugoslavia del 1999:
“Non ci sono differenze tra la NATO e Hitler.”
Aleksandr Zinov’ev
Ultimo tra questi autori, Aleksandr Zinov’ev (1922-2006) fu anch’egli a suo modo un dissidente ma di formazione squisitamente scientifica, tanto da aver ricoperto per molti anni la cattedra di logica matematica all’università Lomonosov di Mosca. Cresciuto sulla base di una dottrina marxista-leninista abbastanza solida (come del resto anche Solzhenitsyn), si definì un comunista “ideale e psicologico”, non quindi ortodosso e ligio all’ideologia. Nonostante la sua posizione, col tempo manifestò una sempre maggiore avversione verso la struttura del regime sovietico: nei suoi scritti di caustica critica sociale e politica dipingeva infatti la desolazione, lo squallore, le assurdità dell’URSS. Nulla più e nulla meno.
Nel 1978 fu definitivamente espulso dal Paese e andò a vivere nella Germania federale. Eppure presto si espresse a gran voce contro il processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica e non risparmiò dure invettive alla dissidenza liberale sovietica, ossequiosa e servile verso l’Occidente; dell’occidente egli aveva già colto la dimensione altrettanto squallida, ideologizzata e devastatrice che sarebbe straripata senza contenimenti una volta venuta meno la contrapposizione dell’URSS.
Riabilitato come cittadino sovietico nel 1990 sulla soglia della caduta della superpotenza comunista, vide velocemente avverarsi il timore che aveva nutrito negli anni precedenti di esilio: la Russia che veniva piegata e umiliata, il recente passato sovietico marcato da damnatio memoriae. È qui che Zinov’ev si affianca alla causa del Partito Comunista della Federazione Russa di Zjuganov e inizia a predicare, con ravvedimento solo apparente, la necessità e l’urgenza di ritornare all’Unione Sovietica, la quale, sia pur coi suoi mille aspetti negativi, era stata potenza forte e rispettata.
Afferma il pensatore contemporaneo russo:
“La catastrofe russa è stata voluta e programmata qui in Occidente. Lo dico perché per un periodo sono stato un iniziato. Ho letto documenti, ho partecipato a studi che sotto la copertura di combattere un’ideologia, preparavano la morte della Russia.”
Dopo la scomparsa dell’URSS, Zinov’ev denuncia in vari libri l’avanzata della “democrazia coloniale”, nuova mistificatoria ideologia di dominazione creata in Occidente (precisamente dagli Stati Uniti) col fine di perseguire l’occidentalizzazione del globo; essa opera principalmente per meccanismi di induzione psicologica, i cui assunti sono assolutamente falsi ma difficilmente rigettabili da coloro che vengono occidentalizzati.
Ammonisce tuttavia Zinov’ev che il comunismo, nonostante la sua scomparsa ideologica, rimarrà sempre in vita nelle sue elevate istanze umane e morali, destinato inevitabilmente a ritornare in forme diverse e inattese.
Nel 1998 il pensatore russo scrive L’Umanaio globale, un’ultima opera satirica e anti-utopica sulla condizione prossima cui l’umanità è destinata, dove essa appare snaturata e sfigurata dalla vittoria totale ma esiziale dell’Occidente sul pianeta. Opera tradotta in italiano che per acume, critica e ingegno nulla ha da invidiare a quella ben più nota e celebre di Orwell, alla quale è legata da evidenti analogie.
“Noi oggi assistiamo all’instaurazione di un totalitarismo democratico, o se preferite all’instaurazione della democrazia totalitaria.”
“Dal punto di vista ideologico [la democrazia] viene presentata come una missione umanitaria, disinteressata e liberatoria dell’Occidente. Noi siamo liberi, ricchi e felici – dice l’Occidente ai popoli da occidentalizzare – e vogliamo aiutarvi a diventare liberi, ricchi e felici. Ma la reale sostanza dell’occidentalizzazione è tutt’altra. […] A tal fine è stato creato un potente sistema di seduzione e d’indottrinamento ideologico delle masse. Ma in ogni circostanza l’occidentalizzazione è un’operazione attiva che non esclude neppure la violenza.”
A distanza di pochi anni dalla sua morte, avvenuta nel 2006, i fatti confermano la sagace previsione del pensatore russo. Continua imperterrita a realizzarsi, seppur con sempre maggiore affanno, l’avanzata ideologica della democracy anglosassone cui conseguentemente, necessariamente e arrogantemente si accompagna l’espansione nel mondo dell’Occidente, capeggiato dalla suprema potenza americana cui non è dato né opporsi né dissentire, pena la demolizione della sovranità e l’affossamento economico-finanziario. Data l’odierna crisi degenerativa dell’Occidente su una molteplicità di fronti, la sua “ideologia” si dimostra ancor di più efficiente e persuasiva: nonostante tutto, continua a indurre i suoi individui a esaltare essa stessa e il sistema che la regge; altro non è che il potere soverchiante e totalitario che denunciava Zinov’ev.
Ma l’Occidente oggi è in fase calante e il tempo stringe, ed esso non ha la minima intenzione di rinunciare al proprio scettro, significhi questo scontrarsi fatalmente con gli imponenti ostacoli al suo dominio – Russia e Cina in primis – al costo di un conflitto totale. In questo senso, l’Ucraina sembra esserne solo il tenue preludio…
Lorenzo Baratti